2022-09-17
Nel Pd i pretendenti al trono affilano le lame
Dario Franceschini (Ansa)
Se il partito si avvicinasse alla soglia del 20%, la sorte di Enrico Letta sarebbe segnata. Alle sue spalle, la lotta per la segreteria è aperta. Stefano Bonaccini, Dario Nardella e Antonio Decaro sgomitano, Dario Franceschini tesse trame. Per molti il vero incubo è rappresentato dal ritorno dei renziani.Ridevano di gusto al Nazareno. Quelli di Base Riformista (gli ex renziani) lo facevano di nascosto, dissimulando il perfido piacere di vedere il segretario in panne ad Alessandria con il pulmino elettrico. Era stato Enrico Letta a tagliarli fuori dalle candidature, ad abbandonare il riformismo e a virare decisamente verso sinistra, a entrare a piedi uniti contro Matteo Renzi, a lanciare l’allarme democratico contro Giorgia Meloni. Come sottolinea un fedelissimo di Lorenzo Guerini, «la tattica della demonizzazione invece dei programmi non sta in piedi. Il tentativo di dipingere gli avversari come mostri non può funzionare». Ridevano di gusto e cominciavano a preparare lo scenario del 26 settembre mattina con due opzioni: se il Pd vince o perde bene (24-25%) si resiste in trincea con silenziosa rassegnazione. Ma se si avvicina al 20% arriva il ribaltone e per il Letta nipote c’è un biglietto di sola andata per Parigi, Sciences Po o un tuffo nella Senna. Manca una settimana al voto e sulla graticola c’è lui anche se da tradizione, nel Comitato centrale, le gastriti sono silenziose. I sondaggi coperti non sono per niente confortanti e le critiche cominciano ad affiorare: «Il capo non solo ha indebolito la nostra campagna con beghe da Twitter, ma ha lasciato praterie a Giuseppe Conte che sta cavalcando i nostri temi ed erodendo consensi proprio al Pd. Un autogol clamoroso».Il partito del potere (con le sue sette correnti) affila i pugnali per far dimettere un segretario ancora combattivo, un «coniglio mannaro» che non si arrenderà facilmente anche perché circondato di fedelissimi nominati da lui. Nel Pd si prepara il terreno all’uomo forte di turno, in grado di affrontare l’eventuale traversata del deserto all’opposizione. La congiura di palazzo sta dentro il Dna del partito (si chiami Pds, Ds o Pd) e l’hanno subìta tutti, dai tempi di Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Pierluigi Bersani, Matteo Renzi, innalzati e poi sacrificati come capri espiatori. Fino all’ultimo harakiri, quello di Nicola Zingaretti. «Qui se non si brucia un segretario ogni due anni non c’è gusto», sibila al telefono un sindaco del Nord molto vicino ai riformisti messi all’angolo.Non è un mistero che gli amministratori locali nelle regioni più industrializzate abbiano già dato il loro responso: Stefano Bonaccini. Il governatore con i Rayban è un candidato alla luce del sole, ieri ha tirato una spallata alla casa di carta («Basta sentirsi i migliori, qui serve una scossa») ed è pronto al salto a Roma per riportare il partito dentro un centrosinistra più moderno, meno trinariciuto e meno incatenato ai molto presunti diritti universali globali. Sarebbe sostenuto dalle truppe di Guerini, Luca Lotti, Andrea Marcucci. Il problema è che i big più rossi (da Andrea Orlando a Peppe Provenzano, da Francesco Boccia a Dario Franceschini) lo vedono come un cane in chiesa. Solo a sentire il nome vanno in fibrillazione: troppo industriale, troppo nordico ed efficientista per accettare i compromessi dell’ala alla vaccinara dei Goffredo Bettini e degli Zingaretti. Per i piddini da poltronificio permanente, dai tempi di Romano Prodi «quel gran pezzo dell’Emilia» funziona a Modena e a Bologna, non altrove. Un altro candidato dal movimentismo sospetto è Dario Nardella che in questi mesi si agita parecchio: da Papa Francesco a Elon Musk, cerca legittimazioni trasversali, si accredita come leader capace di nuotare non solo nell’Arno ma anche nel Tevere. Accanto a lui ha aspirazioni neppure nascoste un altro sindaco, il presidente Anci Antonio Decaro (Bari), che pure rappresenta la Puglia «Stalingrado d’Italia», capace come ha tuonato Michele Emiliano «di far sputare il sangue alla destra». I numeri diranno. Ma neppure lui piace alla sinistra-sinistra, quella anti Tap che si appoggia a Nicola Fratoianni e Roberto Speranza. E allora avanza sempre più un nome alternativo, un dottor sottile ritenuto in grado di pacificare tutte le anime rosse: Enzo Amendola, descritto come «gentile, colto e riluttante». Nel senso che una grana simile non avrebbe alcuna voglia di intestarsela.Con lungimiranza non casuale, Letta lo aveva candidato in un collegio impossibile ma ha dovuto ripescarlo come capolista in Basilicata per la rivolta dei colonnelli e per il passo indietro di Raffaele La Regina, un’invenzione di Provenzano, dopo la gaffe su Israele. Al Nazareno sono convinti che l’ormai ex sottosegretario Amendola possa essere l’uomo della Provvidenza. Con una dote non indifferente: la capacità di ricucire con Giuseppe Conte e far sedere a tavola il Movimento 5 stelle al momento opportuno. Come dicono a sinistra del partito: «È il solo che ci unisce tutti, può fermare Bonaccini e impedire che il Pd diventi una succursale di Italia viva». Più scavi e più scopri la vera paura dei big: il ritorno di Renzi. Un pericolo che già cementa alleanze e mette in allarme anche l’olimpico Franceschini; «Giudario», come lo soprannominano i maligni, è pronto a sbarrare la strada a chiunque voglia riaprire la porta al Bullo. A costo di rifare lui il segretario e subìre le insopportabili pressioni del ruolo. Fra le candidature dopo un possibile terremoto manca una figura femminile, al massimo Simona Malpezzi ed Elly Schlein potrebbero essere chiamate a «fare ticket». Vale a dire a fare tappezzeria. Al contrario dei proclami, quando il gioco si fa duro, a sinistra le priorità di genere finiscono regolarmente in solaio.
Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo in occasione del suo incontro con il premier greco Kyriakos Mitsotakis.