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2025-01-15
I patti con l’Africa danno i primi frutti. Frontex certifica: sbarchi giù del 59%
Ci sarebbe da ridare, come Gene Wilder nei panni del dottor Frankenstein (junior), mentre rianima la «creatura»: «Si può fare!». La creatura risvegliata è la legalità alle frontiere europee, il «si può fare» è bloccare l’immigrazione clandestina, battere i trafficanti di uomini. La parte comica è l’ostinazione di certi giudici nel bloccare la legittima azione del governo per fermare gli sbarchi, azione che ieri ha avuto la più efficace certificazione: quella dei numeri.
Frontex - la Guardia costiera europea - ha divulgato le statistiche relative al 2024. «I nuovi dati preliminari», scrive l’agenzia, «rivelano un significativo calo del 38% degli attraversamenti irregolari delle frontiere, raggiungendo il livello più basso dal 2021, quando la migrazione aveva subito l’effetto della pandemia di Covid». Ci sono altri due dati significativi che aggiungono un altro successo all’azione del governo Meloni. Certifica sempre Frontex: «Gli ingressi sulla rotta del Mediterraneo Centrale - che impatta maggiormente l’Italia - sono diminuiti del 59% a causa della riduzione delle partenze dalla Tunisia e dalla Libia. Si tratta comunque di 67.000 attraversamenti. Il calo maggiore si è avuto sulla rotta dei Balcani occidentali: il -78% ha fatto seguito ai forti sforzi compiuti dai Paesi della regione per arginare il flusso». Segno evidente che non è con l’accoglienza indiscriminata, non è con la pesca a strascico di migranti operata a esempio da Luca Casarini con la ong Mediterranea, sponsorizzata dalla Cei del cardinale Matteo Maria Zuppi, che si combattono i trafficanti di uomini. Spiace per Open Arms, che già scornata dalla sentenza di Palermo - Matteo Salvini assolto perché il fatto non sussiste dall’accusa di sequestro di persona - manda in onda a reti progressiste unificate un meme che, alla luce di questi dati, diventa sprezzo del ridicolo. È una serie di spot in cui si vedono Donald Trump, Elon Musk, Marine Le Pen, Viktor Orbán, ma soprattutto Giorgia Meloni tra i flutti, con la scritta: «Meloni salveremmo anche te». Visti i numeri, pare che a salvare i migranti sia invece il nostro premier, che ieri, all’inizio del Consiglio dei ministri, ha commentato: «Oltre che sui conti pubblici, registriamo un cambio di passo anche su un altro fronte - è la seconda buona notizia del giorno. Mi riferisco all’inversione di tendenza che abbiamo impresso nel governo dei flussi migratori. Frontex ci fa sapere che, complessivamente, il numero di ingressi irregolari di migranti registrati nell’Ue nel 2024 è calato al livello più basso dal 2021, quando i flussi migratori risentivano ancora della pandemia da Covid. Riduzione dei flussi dovuta principalmente al drastico calo degli ingressi sulla rotta del Mediterraneo centrale, grazie al crollo delle partenze da Tunisia e Libia. E questo è sicuramente un risultato dovuto all’azione dell’Italia, così come la riduzione complessiva degli ingressi irregolari nell’Unione europea, anche sulle altre rotte, come quella balcanica, dipende dal grande lavoro che il nostro governo ha intrapreso in questi anni e che sta dando ottimi risultati». Insomma, aver parlato con Orbán, con Donald Tusk, con Peter Pellegrini, per controllare le frontiere a Est, è servito. Ed è servito parlare con le autorità libiche e con il rais tunisino, Kais Saied. Anche la polemica sui Paesi sicuri - tema di scontro di alcuni giudici col governo per il Centro di rimpatrio in Albania - appare oggi in contrasto con i risultati e la posizione di Giorgia Meloni . Come promesso da Ursula von der Leyen, quella di Roma sta diventando la posizione dell’Europa. Sulla lista dei Paesi sicuri, l’Ue dovrebbe intervenire entro il Consiglio europeo di marzo.
I dati di Frontex sono stati oggetto di un’attenta analisi da diversi esponenti del centrodestra. Per Edmondo Cirielli, viceministro degli Affari esteri, «è proprio grazie all’Italia che si riduce la pressione di migrazione illegale sull’Europa»; Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno, sottolinea: «Bloccare i movimenti dai Paesi di partenza è la strategia vincente. I decreti immigrazione, l’aumento dei rimpatri, gli accordi con Libia e Tunisia hanno consentito una contrazione dei flussi illegali del meno 58%». Galeazzo Bignami, capogruppo alla Camera di Fdi, nota: «L’approccio innovativo del governo Meloni nella gestione dei flussi migratori non solo è vincente, ma è fondamentale per l’intera Europa».
Dissonante è la voce della Chiesa. Per padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, «dal punto di vista di chi si occupa dei rifugiati non sono dati positivi. Sappiamo che dietro queste riduzioni ci sono situazioni molto gravi di detenzione». Bussa invece a denari monsignor Giancarlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e presidente della Commissione Cei per le Migrazioni, l’armatore delle navi appoggio di Casarini, che se la piglia col Piano Mattei. Quello originale era una pensata dei cattolici illuminati, quello attuale è «il piano Meloni», che è finanziato con «soli» 600 milioni per quest’anno, mentre in Africa «servirebbero 938 miliardi di dollari». Non è chiaro se ce li deve mettere l’Italia e se la Cei si candidi a gestirli, ma, sentenzia il prelato, «se le politiche sull’immigrazione tutelando il diritto a migrare e le politiche sulla cooperazione non camminano insieme, si annullano». Magari è giusto, però pap Francesco ha varato nuove norme per difendere i confini del Vaticano: fino a 4 anni di galera e 25.000 euro di multa per chiunque penetri illegalmente le mura leonine. Amen.
Borse di studio, frode degli stranieri
Dopo i tunisini senza residenza che truffavano lo Stato italiano prendendo sussidi e bonus, anche studenti indiani, iraniani e pakistani che truffavano l’Edisu per ottenere borse di studio senza avere i requisiti. La Guardia di finanza di Torino ha scoperto infatti una truffa da oltre mezzo milione di euro per le borse di studio universitarie, in collaborazione con l’Edisu (l’ente regionale per il diritto allo studio universitario) del Piemonte. Si tratta, nello specifico, di 513.522,95 euro, finanziati in parte con risorse del Pnrr, ma anche della possibilità di beneficiare dell’esenzione dal pagamento delle tasse universitarie, erogate in due tranche annuali.L’indagine, denominata Fake home, ha coinvolto 80 studenti, in maggioranza iraniani, indiani e pachistani, donne e uomini, e in differenti sedi degli atenei torinesi. L’inchiesta è partita dall’incongruenza riscontrata tra il numero di contratti di locazione stipulati da un trentasettenne ucraino residente a Torino e le effettive capacità occupazionali dei quattro immobili in suo possesso: negli stessi, oltre ai reali occupanti, risultavano infatti convivere, cartolarmente, ben 66 studenti. Gli approfondimenti hanno portato gli investigatori ad accertare, negli immobili, la presenza dei soli reali occupanti e la conseguente avvenuta stipula di contratti di locazione fittizi con gli studenti stranieri, i quali, in realtà, erano stati ospitati da amici in assenza di regolari contratti. Grazie alla compiacenza dell’ucraino, gli studenti extracomunitari avevano indebitamente autocertificato all’Edisu la disponibilità di un alloggio a titolo oneroso, presupposto necessario per perfezionare le istanze per le borse di studio, mentre l’affittuario aveva ottenuto illeciti compensi, compresi tra i 500 e i 600 euro per ogni contratto fasullo. Le Fiamme gialle hanno inoltre accertato che il fenomeno illecito veniva alimentato mediante chat di diversi social media. Individuato un ulteriore proprietario di alloggi, un italiano trentaquattrenne residente anch’egli nel capoluogo piemontese, che ha consentito a tre studenti stranieri di beneficiare di analoghe indebite provvidenze pubbliche.Degli 80 studenti coinvolti, 23 sono stati denunciati a vario titolo per indebite percezioni di erogazioni pubbliche, dopo che avevano ottenuto, nell’anno accademico 2022/2023, entrambe le tranche della borsa (superando quindi la soglia di 3.999,96 euro che porta in campo penale); 47 hanno avuto sanzioni amministrative per complessivi 404.544,61 euro, per avere ottenuto la prima tranche dell’anno 2023/2024 (uno è anche tra i denunciati); altri 11 sono stati segnalati per avere provato a ottenere la borsa di studio nel 2024/2025, dunque sono stati esclusi dalle graduatorie Edisu. Tutti coloro che hanno ricevuto indebitamente le borse di studio dovranno restituire le cifre percepite. Tra i denunciati ci sono due proprietari di immobili e un intermediario, che fungeva in parte anche da mediatore linguistico.«Grazie alla Guardia di finanza di Torino per l’operazione», ha dichiarato il ministro dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini. «Abbiamo il dovere di garantire che le risorse pubbliche vadano agli studenti che ne hanno realmente diritto. Le prime vittime di queste frodi sono proprio loro. Continuiamo a lavorare insieme alla Gdf e agli enti per il diritto allo studio regionale per rafforzare la tutela del diritto allo studio ed evitare raggiri che sottraggono possibilità a studenti capaci ma in difficoltà».
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Crollano i flussi da Tunisia e Libia. Meloni esulta: «È un nostro risultato». La Chiesa: «I soldi del Piano Mattei non bastano». Circa 80 tra indiani, pakistani e iraniani hanno sottratto oltre mezzo milione di fondie approfittato di esenzioni fiscali. Complice pure un ucraino. Bernini ringrazia la Gdf.Lo speciale contiene due articoli.Ci sarebbe da ridare, come Gene Wilder nei panni del dottor Frankenstein (junior), mentre rianima la «creatura»: «Si può fare!». La creatura risvegliata è la legalità alle frontiere europee, il «si può fare» è bloccare l’immigrazione clandestina, battere i trafficanti di uomini. La parte comica è l’ostinazione di certi giudici nel bloccare la legittima azione del governo per fermare gli sbarchi, azione che ieri ha avuto la più efficace certificazione: quella dei numeri.Frontex - la Guardia costiera europea - ha divulgato le statistiche relative al 2024. «I nuovi dati preliminari», scrive l’agenzia, «rivelano un significativo calo del 38% degli attraversamenti irregolari delle frontiere, raggiungendo il livello più basso dal 2021, quando la migrazione aveva subito l’effetto della pandemia di Covid». Ci sono altri due dati significativi che aggiungono un altro successo all’azione del governo Meloni. Certifica sempre Frontex: «Gli ingressi sulla rotta del Mediterraneo Centrale - che impatta maggiormente l’Italia - sono diminuiti del 59% a causa della riduzione delle partenze dalla Tunisia e dalla Libia. Si tratta comunque di 67.000 attraversamenti. Il calo maggiore si è avuto sulla rotta dei Balcani occidentali: il -78% ha fatto seguito ai forti sforzi compiuti dai Paesi della regione per arginare il flusso». Segno evidente che non è con l’accoglienza indiscriminata, non è con la pesca a strascico di migranti operata a esempio da Luca Casarini con la ong Mediterranea, sponsorizzata dalla Cei del cardinale Matteo Maria Zuppi, che si combattono i trafficanti di uomini. Spiace per Open Arms, che già scornata dalla sentenza di Palermo - Matteo Salvini assolto perché il fatto non sussiste dall’accusa di sequestro di persona - manda in onda a reti progressiste unificate un meme che, alla luce di questi dati, diventa sprezzo del ridicolo. È una serie di spot in cui si vedono Donald Trump, Elon Musk, Marine Le Pen, Viktor Orbán, ma soprattutto Giorgia Meloni tra i flutti, con la scritta: «Meloni salveremmo anche te». Visti i numeri, pare che a salvare i migranti sia invece il nostro premier, che ieri, all’inizio del Consiglio dei ministri, ha commentato: «Oltre che sui conti pubblici, registriamo un cambio di passo anche su un altro fronte - è la seconda buona notizia del giorno. Mi riferisco all’inversione di tendenza che abbiamo impresso nel governo dei flussi migratori. Frontex ci fa sapere che, complessivamente, il numero di ingressi irregolari di migranti registrati nell’Ue nel 2024 è calato al livello più basso dal 2021, quando i flussi migratori risentivano ancora della pandemia da Covid. Riduzione dei flussi dovuta principalmente al drastico calo degli ingressi sulla rotta del Mediterraneo centrale, grazie al crollo delle partenze da Tunisia e Libia. E questo è sicuramente un risultato dovuto all’azione dell’Italia, così come la riduzione complessiva degli ingressi irregolari nell’Unione europea, anche sulle altre rotte, come quella balcanica, dipende dal grande lavoro che il nostro governo ha intrapreso in questi anni e che sta dando ottimi risultati». Insomma, aver parlato con Orbán, con Donald Tusk, con Peter Pellegrini, per controllare le frontiere a Est, è servito. Ed è servito parlare con le autorità libiche e con il rais tunisino, Kais Saied. Anche la polemica sui Paesi sicuri - tema di scontro di alcuni giudici col governo per il Centro di rimpatrio in Albania - appare oggi in contrasto con i risultati e la posizione di Giorgia Meloni . Come promesso da Ursula von der Leyen, quella di Roma sta diventando la posizione dell’Europa. Sulla lista dei Paesi sicuri, l’Ue dovrebbe intervenire entro il Consiglio europeo di marzo.I dati di Frontex sono stati oggetto di un’attenta analisi da diversi esponenti del centrodestra. Per Edmondo Cirielli, viceministro degli Affari esteri, «è proprio grazie all’Italia che si riduce la pressione di migrazione illegale sull’Europa»; Nicola Molteni, sottosegretario all’Interno, sottolinea: «Bloccare i movimenti dai Paesi di partenza è la strategia vincente. I decreti immigrazione, l’aumento dei rimpatri, gli accordi con Libia e Tunisia hanno consentito una contrazione dei flussi illegali del meno 58%». Galeazzo Bignami, capogruppo alla Camera di Fdi, nota: «L’approccio innovativo del governo Meloni nella gestione dei flussi migratori non solo è vincente, ma è fondamentale per l’intera Europa».Dissonante è la voce della Chiesa. Per padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, «dal punto di vista di chi si occupa dei rifugiati non sono dati positivi. Sappiamo che dietro queste riduzioni ci sono situazioni molto gravi di detenzione». Bussa invece a denari monsignor Giancarlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e presidente della Commissione Cei per le Migrazioni, l’armatore delle navi appoggio di Casarini, che se la piglia col Piano Mattei. Quello originale era una pensata dei cattolici illuminati, quello attuale è «il piano Meloni», che è finanziato con «soli» 600 milioni per quest’anno, mentre in Africa «servirebbero 938 miliardi di dollari». Non è chiaro se ce li deve mettere l’Italia e se la Cei si candidi a gestirli, ma, sentenzia il prelato, «se le politiche sull’immigrazione tutelando il diritto a migrare e le politiche sulla cooperazione non camminano insieme, si annullano». Magari è giusto, però pap Francesco ha varato nuove norme per difendere i confini del Vaticano: fino a 4 anni di galera e 25.000 euro di multa per chiunque penetri illegalmente le mura leonine. Amen. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/patti-con-lafrica-danno-frutti-2670856063.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="borse-di-studio-frode-degli-stranieri" data-post-id="2670856063" data-published-at="1736932237" data-use-pagination="False"> Borse di studio, frode degli stranieri Dopo i tunisini senza residenza che truffavano lo Stato italiano prendendo sussidi e bonus, anche studenti indiani, iraniani e pakistani che truffavano l’Edisu per ottenere borse di studio senza avere i requisiti. La Guardia di finanza di Torino ha scoperto infatti una truffa da oltre mezzo milione di euro per le borse di studio universitarie, in collaborazione con l’Edisu (l’ente regionale per il diritto allo studio universitario) del Piemonte. Si tratta, nello specifico, di 513.522,95 euro, finanziati in parte con risorse del Pnrr, ma anche della possibilità di beneficiare dell’esenzione dal pagamento delle tasse universitarie, erogate in due tranche annuali.L’indagine, denominata Fake home, ha coinvolto 80 studenti, in maggioranza iraniani, indiani e pachistani, donne e uomini, e in differenti sedi degli atenei torinesi. L’inchiesta è partita dall’incongruenza riscontrata tra il numero di contratti di locazione stipulati da un trentasettenne ucraino residente a Torino e le effettive capacità occupazionali dei quattro immobili in suo possesso: negli stessi, oltre ai reali occupanti, risultavano infatti convivere, cartolarmente, ben 66 studenti. Gli approfondimenti hanno portato gli investigatori ad accertare, negli immobili, la presenza dei soli reali occupanti e la conseguente avvenuta stipula di contratti di locazione fittizi con gli studenti stranieri, i quali, in realtà, erano stati ospitati da amici in assenza di regolari contratti. Grazie alla compiacenza dell’ucraino, gli studenti extracomunitari avevano indebitamente autocertificato all’Edisu la disponibilità di un alloggio a titolo oneroso, presupposto necessario per perfezionare le istanze per le borse di studio, mentre l’affittuario aveva ottenuto illeciti compensi, compresi tra i 500 e i 600 euro per ogni contratto fasullo. Le Fiamme gialle hanno inoltre accertato che il fenomeno illecito veniva alimentato mediante chat di diversi social media. Individuato un ulteriore proprietario di alloggi, un italiano trentaquattrenne residente anch’egli nel capoluogo piemontese, che ha consentito a tre studenti stranieri di beneficiare di analoghe indebite provvidenze pubbliche.Degli 80 studenti coinvolti, 23 sono stati denunciati a vario titolo per indebite percezioni di erogazioni pubbliche, dopo che avevano ottenuto, nell’anno accademico 2022/2023, entrambe le tranche della borsa (superando quindi la soglia di 3.999,96 euro che porta in campo penale); 47 hanno avuto sanzioni amministrative per complessivi 404.544,61 euro, per avere ottenuto la prima tranche dell’anno 2023/2024 (uno è anche tra i denunciati); altri 11 sono stati segnalati per avere provato a ottenere la borsa di studio nel 2024/2025, dunque sono stati esclusi dalle graduatorie Edisu. Tutti coloro che hanno ricevuto indebitamente le borse di studio dovranno restituire le cifre percepite. Tra i denunciati ci sono due proprietari di immobili e un intermediario, che fungeva in parte anche da mediatore linguistico.«Grazie alla Guardia di finanza di Torino per l’operazione», ha dichiarato il ministro dell’Università e della ricerca, Anna Maria Bernini. «Abbiamo il dovere di garantire che le risorse pubbliche vadano agli studenti che ne hanno realmente diritto. Le prime vittime di queste frodi sono proprio loro. Continuiamo a lavorare insieme alla Gdf e agli enti per il diritto allo studio regionale per rafforzare la tutela del diritto allo studio ed evitare raggiri che sottraggono possibilità a studenti capaci ma in difficoltà».
Da sinistra: Friedrich Merz, Keir Starmer, Volodymyr Zelensky ed Emmanuel Macron (Ansa)
Mentre il summit europeo di Berlino sulla pace in Ucraina è stato celebrato come un successo da chi ne ha preso parte, le proposte contenute nella dichiarazione congiunta dei leader dell’Europa sembrano fatte per essere rifiutate. E Mosca ha già iniziato a manifestare i primi segnali di chiusura.
A meno di 24 ore di distanza dal vertice, il Cremlino è convinto che la partecipazione degli europei alle trattative «non promette bene». E anche di fronte alle dichiarazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che intravede la conclusione del conflitto, Mosca resta cauta. Il tycoon, dopo aver parlato lunedì sera con i primi ministri e i capi di Stato europei, aveva subito dichiarato: «Siamo più vicini che mai alla fine della guerra», aggiungendo anche di essere stato in contatto «di recente con Vladimir Putin». A smentire però la telefonata è stato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: i due leader non si sono più sentiti dopo il 16 ottobre. Il portavoce ha anche spiegato che Mosca «non ha ricevuto» alcun segnale dopo i round di negoziati a Berlino, e anche per questo dovrà valutare «quello che sarà il risultato dei negoziati che gli americani conducono con gli ucraini, con la partecipazione degli europei». Che Mosca non abbia ancora compreso l’esito dei summit è evidente anche dalle parole del viceministro degli Esteri russo, Sergej Ryabkov: «Non abbiamo idea di cosa succeda lì». Stando a quanto rivelato dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, si tratterebbe di una questione di giorni: i piani di pace, che dovrebbero essere finalizzati a breve, saranno poi presentati alla Russia dagli inviati americani.
Ma il niet russo è già arrivato in merito all’impegno europeo per «una forza multinazionale Ucraina a guida europea, composta dai contributi delle nazioni disponibili nell’ambito della coalizione dei Volenterosi e sostenuta dagli Stati Uniti». La posizione di Mosca era già nota, ma ieri il viceministro degli Esteri russo in un’intervista ad Abc News, ha ribadito: «Non sottoscriveremo, accetteremo o saremo nemmeno soddisfatti di alcuna presenza di truppe Nato sul territorio ucraino». Lo stesso rifiuto si applica anche qualora la forza multinazionale fosse parte di una garanzia di sicurezza o della Coalizione dei volenterosi. A intervenire in merito è stato anche Peskov che, affermando che Mosca «non ha visto alcun testo» sulla proposta europea della forza multinazionale, ha precisato: «La nostra posizione è ben nota, coerente e trasparente ed è chiara agli americani».
A ciò si aggiunge il grattacapo dei territori, con nessuna delle due parti che è disposta a cedere. Zelensky, a margine del vertice, ha ripetuto che «l’Ucraina non riconoscerà il Donbass come territorio russo, né de jure né de facto». L’impegno di Kiev è quello di continuare a «discuterne nonostante tutto». Il presidente ucraino pare quindi non prendere ancora sul serio le parole di Trump, che ha confermato che «il territorio del Donbass è già perso» per l’Ucraina. Dall’altra parte, anche la posizione russa resta immutata: Ryabkov ha detto che Mosca non scenderà «a compromessi» su Donetsk, Lugansk, Zaporizhzhia, Kherson e Crimea. Ed è anche in quest’ottica, con i soldati russi che continuano ad avanzare, che il Cremlino ha rifiutato la tregua natalizia avanzata dal cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Peskov ha infatti sottolineato: «Vogliamo la pace, non una tregua che dia sollievo agli ucraini e permetta loro di prepararsi a continuare la guerra».
Un altro tassello complicato riguarda Kiev e l’Ue, anche se non dalla prospettiva russa. Nell’ultimo punto della dichiarazione congiunta dei leader europei si afferma: «Il fermo sostegno all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea». Ma da parte italiana emergono alcune perplessità. Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha osservato che ritiene «difficile» l’ingresso dell’Ucraina sia nella Nato sia nell’Ue «non per motivi politici ma agricoli, conoscendo gli agricoltori polacchi, francesi, italiani e tedeschi». A ribadire la sua contrarietà è stato poi il premier ungherese, Viktor Orbàn: «Il popolo ungherese ha detto che non vuole stare in un’Unione con l’Ucraina». Tornando alla linea dell’Italia, riguardo alle garanzie di sicurezza simili all’articolo 5 della Nato di cui «gli americani ne saranno parte», il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha ricordato che si tratta della «proposta italiana» che è stata «accolta» perché «di buon senso». Ma ad essere accolte, sul fronte opposto, sono state anche le dichiarazioni inerenti al riarmo del vicepremier, Matteo Salvini: «Se Hitler e Napoleone non sono riusciti a mettere in ginocchio Mosca con le loro campagne in Russia, è improbabile che Kallas, Macron, Starmer e Merz abbiano successo». Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova «il paragone è preciso, la conclusione è indiscutibile».
Nato e referendum sul Donbass: la guerra poteva finire già nel 2022
Il nostro articolo del 27 febbraio 2022 concludeva con queste parole: «Forse si potrebbe auspicare che la Nato dichiari di rinunciare, una volta per tutte, ad «invitare» l’Ucraina a farvi parte; e che le regioni ucraine oggetto del contendere siano sottoposte a nuovo referendum». Dopo quasi quattro anni di guerra, leggiamo che «Volodymyr Zelensky apre: no a Kiev nella Nato».
Inoltre, a chi gli chiedeva se egli sarebbe stato disponibile a concedere territori come parte di un accordo di pace, Zelensky rispondeva che «la cosa non può essere decisa unilateralmente dal governo o dagli alleati, ma deve avere un mandato popolare, cioè il popolo ucraino deve essere coinvolto tramite un qualche processo democratico, nel formato di elezioni o di referendum». Che il nostro auspicio di quattro anni fa coincida con le conclusioni cui sarebbe alla fine pervenuto Zelensky dopo quattro anni, è, a mio parere, l’ulteriore prova della inadeguatezza di un uomo chiamato a gestire una situazione più grande, molto più grande, di lui. E non si tratta solo di inadeguatezza, ma anche di irresponsabilità. Perché le cose - se vogliamo capirle - dobbiamo dirle tutte. Dobbiamo quindi dire che già il 15 marzo 2022 Zelensky dichiarava: «Abbiamo capito che l’Ucraina non diventerà un membro della Nato, e dobbiamo riconoscere che non ci sono porte aperte». Insomma, il dover abbandonare ogni velleità di aderire alla Nato, più che una apertura di questi giorni, era una consapevolezza acquisita già quattro anni fa. Il che impone la cogente domanda: perché ha continuato la guerra e non si arrese quel 15 marzo 2022? Prima o poi, se non da un tribunale, sicuramente dalla Storia, questa domanda gli verrà posta.
Un’altra domanda che gli si dovrà porre è da dove gli è mai venuta l’idea di una Nato dalle «porte aperte». L’art. 10 del Patto Atlantico prevede che i membri «possono, con accordo unanime, invitare qualsiasi altro Stato europeo ad aderire al Trattato»; cosicché per far parte della Nato bisogna 1) essere uno Stato europeo, 2) essere invitati da chi membro lo è già, e 3) essere invitati all’unanimità. È vero che, subito dopo la fine della Guerra fredda, sebbene ci fosse stata da parte dei vertici della Nato una promessa verbale di non espansione a est della Germania, quegli stessi vertici si preoccuparono di far sapere al mondo intero che non ci sarebbero state preclusioni di principio per l’allargamento della Nato. Tuttavia, l’articolo 10 del Trattato è rimasto immutato. Insomma, Zelensky mai poteva allora, né può ora accampare diritti in ordine alla adesione dell’Ucraina alla Nato. E fa sorridere che codesta volontà di adesione sia stata scritta, addirittura, nella Costituzione ucraina, quando la cosa non dipende dalla volontà dell’Ucraina. E fa sorridere ancora di più, perché questa volontà fu addirittura un emendamento del 2019 alla Costituzione del 1996 che invece garantiva l’Ucraina quale Stato militarmente neutrale.
Anche l’altra recente affermazione di Zelensky sul possibile referendum in ordine alla «cessione» dei territori ripropone la sprovvedutezza dell’uomo. Quattro anni fa l’idea poteva sorgere spontanea. E, anzi, doveva sorgere già nel 2014. Allora, in seguito allo spodestamento del presidente Viktor Yanukovich, legittimamente eletto anche col forte sostegno dei voti dei cittadini di Crimea e del Donbass, questi decidevano di separarsi dal governo centrale con un referendum. Il referendum era, ovviamente, illegittimo; ma poneva un problema politico che in un sistema sedicente democratico avrebbe dovuto risolversi in qualche modo. Ma, anziché invocare il principio, sancito dalla Carta Onu, dell’autodeterminazione dei popoli e far ripetere i referendum sotto il controllo internazionale, la comunità internazionale girava le spalle al Donbass che si dichiarava indipendente; e sanzionava la Russia cui la Crimea si era confederata.
L’impressione è che, se fosse assennato, a Zelensky converrebbe mollare la Ue e affidarsi esclusivamente a Donald Trump. Se da un lato questi vorrebbe far finire quanto prima la guerra, e pertanto appare disponibile ad accontentare le pretese di Putin, dall’altro ha interesse a minimizzarne i vantaggi, cosa che indirettamente significa anche minimizzare gli svantaggi per l’Ucraina. Le cui disgrazie sono anche in parte dovute a quel «f**k the Eu» pronunciato - da Victoria Nuland, nel 2014 responsabile americana agli affari euroasiatici - a detrimento dell’Ucraina. Forse è venuto il momento per Zelensky di pronunciare la stessa invettiva a vantaggio del proprio Paese.
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Il viceministro degli Esteri israeliano Sharren Haskel (MFA/Mordehai Gordon)
Viceministro, la pace sembra essere ancora molto lontana in Medioriente.
«La situazione è particolarmente complessa e stiamo lavorando in patria e all’estero per garantire la sicurezza dei cittadini israeliani e di tutti gli ebrei. A Gaza, Hamas non vuole consegnare le armi, bloccando l’inizio della Fase 2, ma la nostra pazienza ha un limite. Nella Striscia serve sicurezza e democrazia, due cose che Hamas combatte da sempre. Io personalmente non ho nessuna fiducia negli attuali leader palestinesi: molti di loro fanno dichiarazioni in arabo contro Israele e poi in inglese si fingono democratici. Glorificano i terroristi e fomentano la violenza. E così fanno solo il male dei palestinesi».
Il presidente statunitense, Donald Trump, vuole inserire anche l’Italia nel cosiddetto Consiglio di pace per Gaza.
«Siamo assolutamente favorevoli a coinvolgere l’Italia. Abbiamo grande fiducia sia nei militari che nei politici italiani. Il governo di Roma si sta adoperando per raggiungere la pace e io personalmente conosco il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e ne apprezzo la grande capacità diplomatica. Siamo però molto delusi da alcune nazioni europee come la Spagna e l’Irlanda, che hanno deciso di riconoscere la Palestina. Questo riconoscimento non è niente, non esiste e non ha senso che esista. Si tratta di un gravissimo errore politico, non fanno altro che riconoscere Hamas e i suoi crimini. Dopo aver rapito, stuprato e ucciso civili innocenti, i terroristi ne escono rafforzati perché vengono premiati da questi Paesi».
Anche il confine settentrionale resta problematico.
«Non ci fidiamo assolutamente del nuovo regime in Siria. Abu Muhamnad Al Jolani, lo chiamo ancora così perché resta un pericoloso jihadista che ha buttato la tunica e indossato la cravatta, sta uccidendo le minoranze, dagli alawiti ai cristiani, ma soprattutto i drusi che Israele ha deciso di difendere. I drusi israeliani sono parte integrante della nostra società, servono nell’Idf come soldati e sono cittadini a tutti gli effetti. I loro fratelli siriani vengono massacrati solo perché sono una minoranza e noi non lo permetteremo. Hezbollah rimane un pericolo per Israele anche se la sua forza è diminuita, ma grazie ai crimini che commettono con il traffico di droga e armi dal Sud America presto torneranno a essere un pericolo. Stiamo facendo pressioni sul governo libanese perché acceleri il disarmo di Hezbollah, che ancora non è stato fatto nonostante sia ufficialmente iniziato ad agosto. Il presidente del Libano, Joseph Aoun, ha promesso che l’esercito nazionale avrà il monopolio della forza, ma deve ancora dimostrarlo».
L’attentato contro la comunità ebraica a Bondi Beach, in Australia, ha portato l’attenzione ai massimi livelli e l’ambasciatore d’Israele a Roma, Jonathan Peled, ha dichiarato che gli ebrei non si sentono sicuri neanche in Italia.
«Con il governo di Roma c’è una stretta e proficua collaborazione e sappiamo che cerca di garantire sempre la sicurezza degli ebrei in Italia. Ma le parole del nostro ambasciatore derivano dalle manifestazioni che ci sono state nel vostro Paese, dove abbiamo visto molti episodi di antisemitismo, che vanno condannati con maggiore determinazione. Il sostegno alla causa della Palestina è soltanto una scusa per attaccarci e per questo motivo serve particolare attenzione per gli ebrei in tutto il mondo. Israele combatte molti nemici, ma il più pericoloso rimane il pregiudizio nei nostri confronti, che nella storia ha causato tante tragedie».
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Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 17 dicembre con Flaminia Camilletti
Ansa
«La polizia aveva l’incarico di essere presente durante il festival», ha spiegato Minns a Sky News Australia. «Da quanto mi risulta, c’erano due agenti nel parco all’inizio della sparatoria. Altri erano nelle vicinanze e un’auto è arrivata poco dopo». Parole che hanno alimentato ulteriormente le polemiche: come si può ritenere adeguata una simile presenza in un contesto di allerta elevata e con un pubblico così numeroso?
Con il passare delle ore, intanto, emergono nuovi elementi sul profilo degli attentatori, Sajid Akram, 50 anni, e suo figlio Naveed, 24. I due hanno aperto il fuoco durante la celebrazione di Hanukkah, colpendo indiscriminatamente i presenti prima di essere neutralizzati: Sajid è morto durante l’azione, mentre Naveed è rimasto gravemente ferito, è sopravvissuto e ieri si è svegliato dal coma. Lontani dall’immagine stereotipata del terrorista clandestino, i due conducevano una vita apparentemente ordinaria. Sajid Akram gestiva un piccolo esercizio di frutta e verdura, mentre Naveed lavorava come operaio fino a pochi mesi fa e, già nel 2019, era finito sotto osservazione delle forze dell’ordine per frequentazioni con ambienti radicalizzati legati a una moschea estremista di Sydney, gravitanti attorno alla figura di Isaak El Matari, jihadista australiano noto agli apparati di sicurezza. Una svolta delle indagini è arrivata ieri quando fonti dell’antiterrorismo hanno riferito all’Abc che Naveed Akram è un seguace di Wisam Haddad, predicatore salafita ferocemente antisemita di Sydney apertamente schierato su posizioni pro Isis, del quale vi abbiamo parlato ieri. Haddad, attraverso i suoi legali, ha immediatamente respinto ogni accusa di coinvolgimento diretto nell’attacco.
Sul fronte internazionale, Nuova Delhi ha fatto sapere che Sajid Akram era nato a Hyderabad ed era arrivato in Australia nel 1998 con un visto per motivi di studio. Pur avendo fatto ritorno in India solo poche volte, aveva mantenuto la cittadinanza indiana. Naveed, invece, nato a Sydney nel 2001, è cittadino australiano. Secondo le autorità indiane, Sajid non avrebbe più intrattenuto rapporti con il Paese d’origine. Un altro tassello chiave riguarda il recente viaggio dei due uomini nelle Filippine. Le autorità australiane hanno confermato che padre e figlio hanno trascorso l’intero mese di novembre a Mindanao, indicando come meta finale la città di Davao. Sono rientrati il 28 novembre via Manila, prima di fare ritorno a Sydney. Mindanao è da decenni teatro di insurrezioni armate e ospita gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e, in misura minore, allo Stato Islamico. «Le ragioni del viaggio e le attività svolte restano oggetto di indagine», ha precisato il commissario di polizia del New South Wales, Mal Lanyon.
La mattina dell’attacco, i due avrebbero detto ai familiari di voler andare a pescare. In realtà si sono diretti in un appartamento preso in affitto, dove avevano accumulato armi acquistate legalmente e ordigni artigianali, poi disinnescati dagli artificieri.
Il premier australiano, Antony Albanese, ha attribuito il movente all’ideologia dello Stato Islamico, citando il ritrovamento di bandiere dell’Isis. Eppure, a differenza di altri attentati, l’organizzazione jihadista non ha rivendicato l’azione. Contrariamente a quanto si tende a credere lo Stato islamico non è una sigla simbolica aperta a chiunque decida di agire in suo nome. È - e continua a essere, nonostante la perdita del controllo territoriale in Siria e Iraq - un’organizzazione strutturata, dotata di una rigida catena di comando, di regole operative precise e di una dottrina definita sulla legittimità delle azioni armate. Proprio per questo motivo l’Isis non rivendica mai attentati compiuti da singoli individui non inseriti in una rete riconosciuta.
Sempre ieri è stato diffuso un video registrato da una dashcam, trasmesso da 7News, che mostra una violenta colluttazione tra Sajid Akram e un uomo in maglietta viola nei pressi di un ponte pedonale, poco prima dell’inizio della sparatoria. L’uomo e la donna presenti nella scena sono stati identificati come Boris e Sofia Gurman, coppia ebreo-russa residente a Bondi. Boris, 69 anni, e Sofia, 61, sono stati i primi a perdere la vita. Il loro tentativo disperato di fermare gli attentatori avrebbe però rallentato l’azione, contribuendo a salvare altre vite. Un dettaglio che restituisce tutta la drammaticità di una tragedia segnata dalle incredibili falle nella sicurezza.
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