2021-06-03
I partiti si scannano per le nomine in Rai. Le quote rosa dem spingono la Melandri
Grandi manovre per decidere ad e presidente, spuntano i nomi di Milena Gabanelli e Ferruccio De Bortoli. Alla fine si deciderà a luglio inoltrato.Ultimo giorno, ultima ora, ultimo minuto. Per non far finire fuorilegge la Rai, il ministero del Tesoro ha spostato l'assemblea degli azionisti al 30 giugno in prima convocazione, quindi si farà il 12 luglio in seconda, un mese dopo rispetto alla data originariamente fissata. Uno slittamento che parla, anzi grida: i partiti che dominano in viale Mazzini, aggrappati alla criniera del cavallo morente, hanno bisogno di tempo perché non sono d'accordo su nulla. Anche Mario Draghi, allergico ai giochi di palazzo, qui dovrà arrendersi e calarsi nella parte del mediatore per dare una nuova governance all'azienda storicamente più politicizzata del Paese, feudo incontrastato della sinistra multicult.La partita per il presidente e l'amministratore delegato in sostituzione di Marcello Foa e Fabrizio Salini è in corso da mesi e il premier ha più volte tentato di avocare a sé ogni decisione bypassando le segreterie. Ma se per altri santuari pubblici (come Cassa depositi e prestiti e Ferrovie dello Stato) ha avuto buon gioco, il premier ha presto capito che alla Rai non si entra senza il permesso della politica. E gli stessi grilli parlanti - Enrico Letta, Matteo Renzi, Giuseppe Conte - che all'indomani del caso Fedez strillavano «fuori i partiti dalla Rai», oggi hanno le gambe larghe e la mano sulla colt. Della serie: decido me. La legge renziana dei due terzi dei voti in Commissione di Vigilanza nell'elezione del presidente è il primo problema non superabile: oggi nessuna coalizione può garantirli. Né giallorossi, né centrodestra ci arrivano perché in Commissione stanno comodamente seduti parlamentari eletti con un gruppo (come l'ex pentastellato Gianluigi Paragone o l'ex piddino Michele Anzaldi) ma che oggi rappresentano altro: Italexit Paragone, Italia viva Anzaldi. Così sarà ancora una volta il Parlamento, con i suoi schieramenti e i suoi accordi, a decidere la presidenza del servizio pubblico. Servono candidati condivisi e non ce ne sono. La figura di maggior garanzia risulta Ferruccio De Bortoli, più volte chiamato in causa e altrettante volte chiamatosi fuori, però ancora al primo posto delle liste istituzionali (ma se il centrodestra non lo votasse compatto rischierebbe il ko). Anche il Pd lettiano non garantisce certezze; il segretario vuole assolutamente una donna per proseguire nella sua personale battaglia di genere. E si è buttato su due nomi: Milena Gabanelli (storico cavallo di battaglia pentastellato) per rinsaldare la traballante alleanza con il Conte-Grillo, e Giovanna Melandri. Quest'ultimo nome è risuonato come qualcosa di vintage, che rappresenta una stagione di inaugurazioni e prefazioni, quella della canzone popolare di Romano Prodi e Walter Veltroni alla quale Letta si rifà con reducistica nostalgia da happy few. Quattro volte ministro con il centrosinistra (due volte con D'Alema, una con Amato e una con Prodi), Melandri è da nove anni scomparsa dalle prime pagine ma non dai vernissage romani ai quali partecipa da presidente del Maxxi, il museo d'arte moderna della capitale.Il ritorno della Melandri ha provocato un fremito cultural nel démi-monde radical con maggiordomo ai Parioli (e anche a Montenapo), ma non ha suscitato nessuna alzata di sopracciglia nel coworking grillino, che ai tempi di lady Giovanna non era ancora nato. Luigi Di Maio, referente unico per questa reconquista anche perché ha un rapporto diretto con Draghi, insiste per Gabanelli, che difficilmente troverà sponde dalle parti della Lega e di Forza Italia, memori dei trattamenti di carta vetrata quando conduceva Report. Gianni Letta, che in queste partite ha sempre buone carte, sta portando avanti la candidatura di Simona Agnes, figlia di cotanto padre, lanciata e al tempo stesso frenata dal cognome che a sinistra evoca immediatamente melliflue strette di mano democristiane.Così si gioca a scacchi con le regole del poker. Il Movimento 5 stelle, consapevole che gli equilibri sono cambiati rispetto a tre anni fa, tenta di congelare tutto, soprattutto Giuseppe Carboni al Tg1, preda ambìta da Mario Orfeo, gran professionista con un difetto: per i renziani è troppo piddino, per i piddini è troppo renziano. Ma la partita dei tg comincerà dopo. Oggi è in corso quella per presidente, ad e consiglio d'amministrazione. Nulla è sicuro, neppure la rielezione dello storico consigliere di Fratelli d'Italia Giampaolo Rossi, considerato dai suoi stessi alleati «troppo tripartisan». Il Pd ha altri due nomi esterni: la manager Francesca Bria e l'ex sottosegretaria alla Cultura Lorenza Bonaccorsi, peraltro incandidabile per la legge Severino. Draghi risponde con tre curriculum che sanno di pallottoliere lontano un miglio: Raffaele Agrusti (ex ad di Generali e già Financial Officer della Rai), Andrea Castellari (Viacom) e Alessandra Perrazzelli; quest'ultima ha già fatto sapere che preferirebbe rimanere in Bankitalia. I cavalli interni per un posto dirigenziale sono quattro: Paolo Del Brocco, Roberto Sergio, Marcello Ciannamea e Nicola Claudio. Più Monica Maggioni, che da presidente era nota per voler attuare «uno scaravoltone» dei sistemi partitici della Rai, per poi subirli e farsene una ragione. Sotto il pelo dell'acqua i sommergibili continuano a lanciarsi siluri. Informato dello slittamento dell'assemblea, l'Usigrai ha emesso una nota apparentemente indignata: «Un rinvio che fa male e si spiega solo con l'esigenza di partiti e governo di avere più tempo per trovare la quadra su come occupare e lottizzare». A metà luglio il teatrino sarà solo più sudato.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)