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2022-06-16
Parigi e Pechino spingono per la diplomazia
Vladimir Putin e Xi Jinping (Ansa)
Arrivati al centotredicesimo giorno di guerra si moltiplicano gli sforzi diplomatici affinché russi e ucraini accettino di sedersi a un tavolo negoziale. Un lavoro non semplice perché i russi proseguono nella loro «operazione militare speciale», specie nel Donbass, dove la guerra per gli ucraini è ormai persa.
Chi da settimane in ambito Nato prova sottotraccia a riannodare i fili di un possibile negoziato si è scontrato più volte con il netto rifiuto del presidente ucraino Volodymyr Zelensky a sedersi al tavolo con chi ha invaso il suo Paese e ha commesso i crimini dei quali abbiamo parlato molte volte. Altro tema sul quale non si riesce a trovare un’intesa è quello del cessate il fuoco; Zelensky accetta di iniziare a discutere solo ed esclusivamente con le armi che tacciono mentre per Vladimir Putin questa opzione, almeno fino alla conquista del Donbass, non è contemplata perché a suo avviso «sarebbe un segnale di debolezza». Fatta questa premessa, ora c’è la fila di coloro che dopo aver detto che «l’Ucraina può e deve vincere la guerra» vogliono recarsi a Kiev per chiedere a Zelensky di sedersi al tavolo.
La Casa Bianca da almeno due settimane, oltre a inviare armi, ha fatto presente a Zelensky di avere seri dubbi sulla tenuta in prospettiva dell’esercito ucraino, inoltre, ci sarebbero state frizioni sul flusso delle informazioni che Washington ritiene «non sempre precise e puntuali». In ogni caso non è in dubbio il sostegno degli Usa all’Ucraina, come ha precisato ieri al canale televisivo Pbs il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken secondo il quale: «Il futuro dell’Ucraina dipende dagli ucraini. Sta a loro, alla fine le decisioni saranno prese dal governo democraticamente eletto, tra cui Zelensky. Noi li sosterremo. Putin sta cercando di togliere loro il diritto di determinare il proprio futuro, noi sosteniamo fermamente questo diritto». Sul tema delle armi ieri ha parlato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, alla vigilia della riunione dei ministri della Difesa: «L’Ucraina ha bisogno di armi pesanti e di equipaggiamenti di ricognizione. Mi aspetto che al summit gli alleati accorderanno un pacchetto completo di assistenza all’Ucraina per passare dall’equipaggiamento dell’era sovietica all’era atlantica».
Le armi gli ucraini le attendono senza se e senza ma, come ha scritto su Twitter Mikhail Podolyak, consigliere del capo dell’Ufficio del presidente ucraino: «Il rapporto tra artiglieria in alcune aree è di 10 a 1. La linea del fronte è di oltre 1.000 km. Ogni giorno ricevo messaggi dai difensori che chiedono quanto ancora dovranno aspettare per le armi. Rivolgo questa domanda ai membri del Ramstein. Bruxelles, stiamo aspettando una decisione».
Per tornare alla diplomazia il presidente francese Emmanuel Macron (non certo amato a Kiev), parlando alle truppe francesi nella base di Mihail Kogalniceanu (Romania), è tornato a chiedere di una soluzione negoziale per il conflitto: «A un certo punto dovremo negoziare e il presidente ucraino dovrà negoziare con la Russia e noi, europei, saremo attorno a quel tavolo». Macron non ha fatto alcun accenno alla visita prevista per oggi a Kiev dove ad incontrare Zelensky ci dovrebbero essere il premier italiano Mario Draghi molto rispettato e ritenuto credibile anche per il suo rapporto con gli Usa, lo stesso Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz non certo amato dagli ucraini che lo accusano, al pari del presidente francese, di doppiezza nei confronti Mosca.
E i russi che ne pensano di eventuali negoziati? Per Serghey Ryabkov, viceministro degli Esteri russo, «la Russia è pronta per negoziati con l’Ucraina, ma se il presidente Volodymyr Zelensky non li vuole, questa è una sua scelta». Ryabkov ha anche detto che «Mosca spera che gli Stati Uniti e l’Occidente nel suo insieme abbiano abbastanza buon senso da non portare la situazione in Ucraina a uno scontro diretto con l’uso delle armi nucleari». Non certo un messaggio conciliante.
Qualcosa di interessante invece si sta muovendo sull’asse Pechino-Mosca: il network statale cinese Cctv, ripreso dall’Ansa, ha riferito di una telefonata intercorsa tra il presidente cinese Xi Jinping con il suo omologo russo Vladimir Putin nella quale Xi avrebbe detto: «Tutte le parti dovrebbero spingere per una soluzione adeguata della crisi ucraina in modo responsabile». Il leader cinese ha anche precisato che «la Cina è disposta, insieme alla Russia, a continuare a sostenersi a vicenda su questioni riguardanti gli interessi fondamentali e le principali preoccupazioni come la sovranità e la sicurezza, a intensificare il coordinamento strategico tra i due Paesi e a rafforzare la comunicazione e il coordinamento nelle principali organizzazioni internazionali e regionali come Onu, Brics e Organizzazione per la cooperazione di Shanghai».
Ieri è tornato a parlare l’ex presidente russo Dmitry Medvedev che suo canale Telegram ha di nuovo usato toni durissimi come è solito fare da qualche tempo. Stavolta ha scritto: «Chi ci dice che l’Ucraina esisterà ancora tra due anni?» In serata Emmanuel Macron, durante una conferenza stampa a Chisinau (Moldavia) ha dichiarato: «Non possiamo permetterci la minima debolezza nei confronti della Russia e dobbiamo rafforzare la credibilità della nostra dissuasione affinchè la Russia non possa immaginare che può proseguire ulteriormente la sua aggressione». Parole che stavolta piaceranno a Volodymyr Zelensky.
Draghi, Scholz e Macron da Zelensky. Ma è gelo fra gli ucraini e l’Eliseo
Mario Draghi, Olaf Scholz e Emmanuel Macron insieme a Kiev: i leader di Italia, Germania e Francia dovrebbero recarsi in Ucraina e incontrare il presidente Volodymyr Zelensky già oggi, salvo imprevisti dell’ultimo minuto, come autorevoli fonti diplomatiche italiane confermano alla Verità. Sulla presenza di Macron, però, non manca qualche punto interrogativo. Macron, che ieri era in Moldovia, in questo momento non gode di grande popolarità dalle parti di Kiev: per due volte, in questi quasi quattro mesi di guerra, il presidente francese ha esplicitamente dichiarato che «non bisogna umiliare la Russia», e lo scorso 4 giugno la risposta del ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, è stata tagliente: «Gli appelli per evitare l’umiliazione della Russia», ha scritto Kuleba su Twitter, «possono solo umiliare la Francia e ogni altro Paese che lo richiederebbe, perché è la Russia che si umilia. Concentriamoci tutti meglio su come mettere la Russia al suo posto. Questo porterà pace e salverà vite». Vedremo se Macron prenderà parte a questa spedizione oppure, magari tirando in ballo gli impegni per il secondo turno delle elezioni in Francia, diserterà l’appuntamento. Intanto ieri da Chisinau il presidente francese ha ribadito il concetto: «L’obiettivo», ha sottolineato Macron, «è fermare il conflitto senza fare la guerra alla Russia».
Del resto, anche Scholz non viene considerato un alleato affidabile da Zelensky, dopo la lotta contro l’embargo del gas che Berlino ha condotto all’interno della Unione europea e i vari contrattempi e disguidi sull’invio di armi pesanti. Alla fine, l’unico a godere della stima incondizionata di Kiev è Mario Draghi, considerato come perfettamente allineato alle posizioni di Washington. Piena di spine già prima di fiorire, questa visita congiunta si presenta dunque avvolta anche dal mistero, probabilmente perché non ancora definita nei dettagli.
«Posso solo confermare che domani (oggi, ndr) sarà certamente giovedì, e che dopodomani sarà venerdì», ha detto ieri Steffen Hebestreit, portavoce di Scholz, rispondendo a una domanda di un giornalista in conferenza stampa a Berlino. Il viaggio dei tre (o due) leader ha un significato politico molto importante, ma viene anche accolto senza particolare entusiasmo da parte del governo di Kiev: «Gli ucraini sono scettici rispetto alla visita di Olaf Scholz, Mario Draghi ed Emmanuel Macron a Kiev», ha detto ieri alla Bild il consigliere militare del presidente Zelensky, Oleksjy Arestovyc, «temo che proveranno a raggiungere un Minsk III. Diranno che noi dobbiamo chiudere questa guerra, che provoca problemi alimentari e problemi economici. Diranno che muoiono sia russi che ucraini, che noi dobbiamo salvare la faccia a Putin», ha aggiunto Arestovyc, «che i russi hanno fatto un errore, che noi dobbiamo perdonarli». Il Minsk III che Arestovyc teme sia l’obiettivo dei leader europei consisterebbe nel seguito del trattato Minsk II, stipulato nel vertice tenutosi nella capitale della Bielorussia l’11 febbraio 2015, tra i capi di Stato di Ucraina (Petro Poroshenko), Russia (Vladimir Putin), Francia (Francois Hollande) e Germania (Angela Markel) e che portò all’approvazione di un pacchetto di misure per tentare di fermare la guerra del Donbass. Quell’accordo, che prevedeva tra l’altro il cessate il fuoco una larga autonomia delle regioni di Donetsk e Lugansk, come noto non mai stato rispettato in tutti i suoi punti. Kiev, in sostanza, teme che Draghi, Scholz e Macron possano fare pressioni per un negoziato che preveda cessioni territoriali.
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Da più parti, sulla scena internazionale, si invoca una ripresa delle trattative. Il leader transalpino: «A un certo punto Kiev dovrà negoziare». Xi Jinping telefona a Vladimir Putin e spinge per una «soluzione responsabile», pur ribadendo l’alleanza con Mosca.Mario Draghi, Olaf Scholz ed Emmanuel Macron da Volodymyr Zelensky: la visita potrebbe aver luogo già oggi. Poco gradite le aperture alla Russia del francese.Lo speciale contiene due articoli.Arrivati al centotredicesimo giorno di guerra si moltiplicano gli sforzi diplomatici affinché russi e ucraini accettino di sedersi a un tavolo negoziale. Un lavoro non semplice perché i russi proseguono nella loro «operazione militare speciale», specie nel Donbass, dove la guerra per gli ucraini è ormai persa. Chi da settimane in ambito Nato prova sottotraccia a riannodare i fili di un possibile negoziato si è scontrato più volte con il netto rifiuto del presidente ucraino Volodymyr Zelensky a sedersi al tavolo con chi ha invaso il suo Paese e ha commesso i crimini dei quali abbiamo parlato molte volte. Altro tema sul quale non si riesce a trovare un’intesa è quello del cessate il fuoco; Zelensky accetta di iniziare a discutere solo ed esclusivamente con le armi che tacciono mentre per Vladimir Putin questa opzione, almeno fino alla conquista del Donbass, non è contemplata perché a suo avviso «sarebbe un segnale di debolezza». Fatta questa premessa, ora c’è la fila di coloro che dopo aver detto che «l’Ucraina può e deve vincere la guerra» vogliono recarsi a Kiev per chiedere a Zelensky di sedersi al tavolo. La Casa Bianca da almeno due settimane, oltre a inviare armi, ha fatto presente a Zelensky di avere seri dubbi sulla tenuta in prospettiva dell’esercito ucraino, inoltre, ci sarebbero state frizioni sul flusso delle informazioni che Washington ritiene «non sempre precise e puntuali». In ogni caso non è in dubbio il sostegno degli Usa all’Ucraina, come ha precisato ieri al canale televisivo Pbs il segretario di Stato statunitense, Antony Blinken secondo il quale: «Il futuro dell’Ucraina dipende dagli ucraini. Sta a loro, alla fine le decisioni saranno prese dal governo democraticamente eletto, tra cui Zelensky. Noi li sosterremo. Putin sta cercando di togliere loro il diritto di determinare il proprio futuro, noi sosteniamo fermamente questo diritto». Sul tema delle armi ieri ha parlato il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, alla vigilia della riunione dei ministri della Difesa: «L’Ucraina ha bisogno di armi pesanti e di equipaggiamenti di ricognizione. Mi aspetto che al summit gli alleati accorderanno un pacchetto completo di assistenza all’Ucraina per passare dall’equipaggiamento dell’era sovietica all’era atlantica». Le armi gli ucraini le attendono senza se e senza ma, come ha scritto su Twitter Mikhail Podolyak, consigliere del capo dell’Ufficio del presidente ucraino: «Il rapporto tra artiglieria in alcune aree è di 10 a 1. La linea del fronte è di oltre 1.000 km. Ogni giorno ricevo messaggi dai difensori che chiedono quanto ancora dovranno aspettare per le armi. Rivolgo questa domanda ai membri del Ramstein. Bruxelles, stiamo aspettando una decisione». Per tornare alla diplomazia il presidente francese Emmanuel Macron (non certo amato a Kiev), parlando alle truppe francesi nella base di Mihail Kogalniceanu (Romania), è tornato a chiedere di una soluzione negoziale per il conflitto: «A un certo punto dovremo negoziare e il presidente ucraino dovrà negoziare con la Russia e noi, europei, saremo attorno a quel tavolo». Macron non ha fatto alcun accenno alla visita prevista per oggi a Kiev dove ad incontrare Zelensky ci dovrebbero essere il premier italiano Mario Draghi molto rispettato e ritenuto credibile anche per il suo rapporto con gli Usa, lo stesso Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz non certo amato dagli ucraini che lo accusano, al pari del presidente francese, di doppiezza nei confronti Mosca. E i russi che ne pensano di eventuali negoziati? Per Serghey Ryabkov, viceministro degli Esteri russo, «la Russia è pronta per negoziati con l’Ucraina, ma se il presidente Volodymyr Zelensky non li vuole, questa è una sua scelta». Ryabkov ha anche detto che «Mosca spera che gli Stati Uniti e l’Occidente nel suo insieme abbiano abbastanza buon senso da non portare la situazione in Ucraina a uno scontro diretto con l’uso delle armi nucleari». Non certo un messaggio conciliante. Qualcosa di interessante invece si sta muovendo sull’asse Pechino-Mosca: il network statale cinese Cctv, ripreso dall’Ansa, ha riferito di una telefonata intercorsa tra il presidente cinese Xi Jinping con il suo omologo russo Vladimir Putin nella quale Xi avrebbe detto: «Tutte le parti dovrebbero spingere per una soluzione adeguata della crisi ucraina in modo responsabile». Il leader cinese ha anche precisato che «la Cina è disposta, insieme alla Russia, a continuare a sostenersi a vicenda su questioni riguardanti gli interessi fondamentali e le principali preoccupazioni come la sovranità e la sicurezza, a intensificare il coordinamento strategico tra i due Paesi e a rafforzare la comunicazione e il coordinamento nelle principali organizzazioni internazionali e regionali come Onu, Brics e Organizzazione per la cooperazione di Shanghai». Ieri è tornato a parlare l’ex presidente russo Dmitry Medvedev che suo canale Telegram ha di nuovo usato toni durissimi come è solito fare da qualche tempo. Stavolta ha scritto: «Chi ci dice che l’Ucraina esisterà ancora tra due anni?» In serata Emmanuel Macron, durante una conferenza stampa a Chisinau (Moldavia) ha dichiarato: «Non possiamo permetterci la minima debolezza nei confronti della Russia e dobbiamo rafforzare la credibilità della nostra dissuasione affinchè la Russia non possa immaginare che può proseguire ulteriormente la sua aggressione». Parole che stavolta piaceranno a Volodymyr Zelensky.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/parigi-pechino-spingono-diplomazia-2657515123.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="draghi-scholz-e-macron-da-zelensky-ma-e-gelo-fra-gli-ucraini-e-leliseo" data-post-id="2657515123" data-published-at="1655318738" data-use-pagination="False"> Draghi, Scholz e Macron da Zelensky. Ma è gelo fra gli ucraini e l’Eliseo Mario Draghi, Olaf Scholz e Emmanuel Macron insieme a Kiev: i leader di Italia, Germania e Francia dovrebbero recarsi in Ucraina e incontrare il presidente Volodymyr Zelensky già oggi, salvo imprevisti dell’ultimo minuto, come autorevoli fonti diplomatiche italiane confermano alla Verità. Sulla presenza di Macron, però, non manca qualche punto interrogativo. Macron, che ieri era in Moldovia, in questo momento non gode di grande popolarità dalle parti di Kiev: per due volte, in questi quasi quattro mesi di guerra, il presidente francese ha esplicitamente dichiarato che «non bisogna umiliare la Russia», e lo scorso 4 giugno la risposta del ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, è stata tagliente: «Gli appelli per evitare l’umiliazione della Russia», ha scritto Kuleba su Twitter, «possono solo umiliare la Francia e ogni altro Paese che lo richiederebbe, perché è la Russia che si umilia. Concentriamoci tutti meglio su come mettere la Russia al suo posto. Questo porterà pace e salverà vite». Vedremo se Macron prenderà parte a questa spedizione oppure, magari tirando in ballo gli impegni per il secondo turno delle elezioni in Francia, diserterà l’appuntamento. Intanto ieri da Chisinau il presidente francese ha ribadito il concetto: «L’obiettivo», ha sottolineato Macron, «è fermare il conflitto senza fare la guerra alla Russia». Del resto, anche Scholz non viene considerato un alleato affidabile da Zelensky, dopo la lotta contro l’embargo del gas che Berlino ha condotto all’interno della Unione europea e i vari contrattempi e disguidi sull’invio di armi pesanti. Alla fine, l’unico a godere della stima incondizionata di Kiev è Mario Draghi, considerato come perfettamente allineato alle posizioni di Washington. Piena di spine già prima di fiorire, questa visita congiunta si presenta dunque avvolta anche dal mistero, probabilmente perché non ancora definita nei dettagli. «Posso solo confermare che domani (oggi, ndr) sarà certamente giovedì, e che dopodomani sarà venerdì», ha detto ieri Steffen Hebestreit, portavoce di Scholz, rispondendo a una domanda di un giornalista in conferenza stampa a Berlino. Il viaggio dei tre (o due) leader ha un significato politico molto importante, ma viene anche accolto senza particolare entusiasmo da parte del governo di Kiev: «Gli ucraini sono scettici rispetto alla visita di Olaf Scholz, Mario Draghi ed Emmanuel Macron a Kiev», ha detto ieri alla Bild il consigliere militare del presidente Zelensky, Oleksjy Arestovyc, «temo che proveranno a raggiungere un Minsk III. Diranno che noi dobbiamo chiudere questa guerra, che provoca problemi alimentari e problemi economici. Diranno che muoiono sia russi che ucraini, che noi dobbiamo salvare la faccia a Putin», ha aggiunto Arestovyc, «che i russi hanno fatto un errore, che noi dobbiamo perdonarli». Il Minsk III che Arestovyc teme sia l’obiettivo dei leader europei consisterebbe nel seguito del trattato Minsk II, stipulato nel vertice tenutosi nella capitale della Bielorussia l’11 febbraio 2015, tra i capi di Stato di Ucraina (Petro Poroshenko), Russia (Vladimir Putin), Francia (Francois Hollande) e Germania (Angela Markel) e che portò all’approvazione di un pacchetto di misure per tentare di fermare la guerra del Donbass. Quell’accordo, che prevedeva tra l’altro il cessate il fuoco una larga autonomia delle regioni di Donetsk e Lugansk, come noto non mai stato rispettato in tutti i suoi punti. Kiev, in sostanza, teme che Draghi, Scholz e Macron possano fare pressioni per un negoziato che preveda cessioni territoriali.
Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
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Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
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Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
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