2022-09-22
«Ho riportato in vetta il pianoforte italiano ma sembrano più felici all’estero che da noi»
Nel riquadro, Paolo Fazioli (Imagoeconomica)
L’ingegnere-musicista Paolo Fazioli: «I nostri strumenti sono richiesti dal concorso Chopin di Varsavia alla Carnegie Hall. Qui c’è sempre qualche guaio».Sarà che l’italiano nel mondo viene ancora associato al mandolino, medaglia di bronzo dopo pizza e spaghetti. Sarà che fino a qualche decennio fa gli ultimi superstiti della produzione made in Italy si camuffavano dietro a nomi teutonici (come Steinbach o Clement) per darsi un tono. O che nelle sale da concerto l’egemonia di Steinway & Sons e Bösendorfer sembrava indiscutibile ed eterna. Eppure - anche se la scuola non lo insegna e a volte lo si crede «dono del gallo, del britanno e del germano» (come scrisse il poeta Giambattista Dall’Olio) - il pianoforte è nato sulle rive dell’Arno, intorno al 1700, grazie al genio di un italiano. Il suo nome era Bartolomeo Cristofori (1655-1731), cembalaro padovano al servizio del principe Ferdinando de’ Medici. Circa tre secoli dopo, ci voleva un ingegnere-pianista di Roma, Paolo Fazioli (classe 1944), con un futuro sulla carta già scritto nella ben avviata azienda di mobili di famiglia, per raccogliere il testimone e tentare l’impossibile: costruire un nuovo pianoforte italiano di altissima qualità, per riportarlo tra i giganti. «Ti rendi conto che vuoi entrare in un mondo in cui ci sono mostri sacri che presidiano il mercato da 200 anni?», lo ammonirà Pietro Righini, uno dei più grandi esperti di fisica applicata agli strumenti musicali. Ma nemmeno lui voleva fargli cambiare idea. E il sogno, dopo estenuanti interrogatori a concertisti, critici, fisici e massime autorità nel campo del legno, ha preso il volo. Una storia che inizia nella Milano anni Settanta e che debutta ufficialmente nel 1981 nel «Giardino della Serenissima»: Sacile (Pordenone). Tra Venezia e gli abeti della Val di Fiemme, che non a caso Antonio Stradivari sceglieva per i suoi violini. Ingegnere, cosa le faceva credere 41 anni fa che la scommessa potesse essere vinta?«Prima vorrei chiarire qual era il cuore della sfida. Non si è mai trattato di una gara contro i grandi produttori internazionali, nati molto prima di me. Il sogno è sempre stato un altro: realizzare una certa idea di suono. Ne cercavo uno diverso, italiano, che ci somigli di più».Riuscirebbe a descriverlo?«Solare, brillante, luminoso e ricco di sfumature. In ogni caso unico. L’ho dichiarato al nastro di partenza: non voglio ispirarmi a nessuno. Se qualcuno preferisce quello più scuro e roboante dei pianoforti tedeschi, fa bene a rivolgersi altrove. Di certo però il mercato non ha bisogno di copie».Pensa di essere riuscito a catturarlo?«In parte… Ovviamente sono contento perché abbiamo una nostra identità precisa, ma la soddisfazione non è mai completa e la ricerca continua a tutti i livelli. Vede, le variabili sono quasi infinite e per questo non c’è un pianoforte uguale all’altro (così come non esistono due pezzi di legno identici, anche se provengono dallo stesso albero). Conta il materiale scelto per la tavola armonica - che è l’anima dello strumento - gli spessori, con differenze inferiori al millimetro, le tecniche di lavorazione, la mano dell’artigiano…». Ma per trovare il legno giusto basta una vita?«È stata una lunga ricerca, prima ancora di fondare l’azienda. Pensi che andammo a valutare anche quegli alberi che nel 2018 sarebbero stati spazzati via dall’uragano Vaia, ma non erano adatti: troppo nodosi. L’abete rosso della Val di Fiemme invece è fantastico. Cresce a 1.500 metri e viene abbattuto quando ha 200 anni. Poi c’è il mogano, ma non cresce in Italia, bisogna importarlo…». Prima parlava di variabili infinite. Immagino che da buon ingegnere lei tenti di controllarle tutte.«Certo, ma qualcosa sfugge sempre. Alle spalle ho decenni di esperimenti, errori, imprevisti, scoperte inattese. L’approccio scientifico, l’occhio esperto dei miei tecnici e l’orecchio sono complementari. Ovviamente c’è ancora molto da scoprire e da inventare…». L’innovazione di cui è più orgoglioso?«Tutte quelle che non sono riusciti a copiarci…».Ma scusi, non ci sono i brevetti?«Mai brevettare le grandi idee».E perché?«Il brevetto è un’arma a doppio taglio: costa un sacco di soldi, dura solo 20 anni e ti costringe a spiegare tutto alla concorrenza. Il quarto pedale e la scala di risonanza sono già stati imitati. Le altre innovazioni non gliele dico…» (ride).È vero che i suoi pianoforti vengono fatti suonare di notte, meccanicamente, quando la fabbrica è chiusa?«Sì, facciamo fare il rodaggio alla tastiera, ai martelletti e iniziamo a far vibrare la tavola armonica. A mezzanotte comunque li mandiamo a dormire».Qualità vuol dire per forza produzione limitata?«È inevitabile. Tenga conto che produciamo intorno ai 140, 150 pianoforti all’anno. L’obiettivo è arrivare a 200, ma non vogliamo andare oltre. Da quando siamo partiti ne sono nati circa 4.000». Visto che parliamo di numeri, togliamoci il pensiero: prezzo medio di uno dei suoi strumenti, numero di dipendenti e fatturato? «Con me lavorano 55 persone, il fatturato è intorno ai 10 milioni. Mentre i nostri strumenti costano dagli 80.000 ai 170.000 euro. Purtroppo però viviamo un momento pericoloso e forse dovremo rivedere i prezzi…». Di questi tempi è diventata la domanda di rito: l’ultima bolletta?«Era sempre stata intorno agli 8.000 euro al mese, ma l’ultima che mi è arrivata è di 42.000. Purtroppo il governo non ha fatto nulla. E se non si corre ai ripari chiude mezza Italia».Immagino che anche le materie prime siano un problema. «Certo, è aumentato tutto. Le spese di trasporto, i semilavorati, il legno… Abbiamo delle scorte, ma le stiamo divorando. Avevamo un grande mercato in Russia. E ora non più, per evidenti ragioni…».È preoccupato?«Abbastanza, ma guardi che fare impresa in Italia non è mai stato facile…» (ride).Gli ostacoli principali?«Costo del lavoro folle, burocrazia impazzita. E con l’informatizzazione la situazione è addirittura peggiorata: ci sono più carte di prima e una montagna di spese per la cybersecurity».Mai pensato di lasciare l’Italia?«La tentazione c’è stata, più che per i costi, per l’invidia e l’irriconoscenza...».Nel libro di Sandro Cappelletto che racconta la storia dell’azienda, in effetti si percepisce a un certo punto una sorta di malessere. Le capita di subire dei colpi bassi?«In Italia purtroppo la storia si ripete: in un teatro prestigioso c’è un nostro pianoforte e tutti sono contenti perché suona benissimo. Poi, dal nulla, qualcuno interviene e cerca di convincere il pianista a chiedere un altro strumento. Anche se poi scopriamo che ci avrebbe suonato volentieri (evitando all’organizzazione di spendere i soldi per il noleggio di un altro pianoforte...)».Di che teatri parla?«Non me lo faccia dire».E come se lo spiega?«La mia sensazione è che in questi casi la decisione non sia dei musicisti. Ad ogni modo credo che un ente pubblico non possa firmare un contratto con un noleggiatore di pianoforti che metta veti su tutti gli altri...».Ma funziona così anche all’estero?«Nemmeno per sogno. Pensi che vari pianisti hanno voluto uno dei nostri strumenti alla Carnegie Hall, che è come dire a casa del nostro maggior concorrente. E nessuno ha creato problemi…».Ora è più chiaro - sdrammatizzando - perché si è creato in azienda anche la Fazioli concert hall, di cui ha presentato ieri la stagione numero 17. A questo proposito: il jazzista Herbie Hancock non riesce a suonare altro. Daniil Trifonov, Louis Lortie (che suonerà il 2 dicembre a Sacile), Angela Hewitt e tantissimi altri pianisti classici sono entusiasti. Ai più grandi concorsi internazionali, a cominciare dallo Chopin di Varsavia, sono presenti i suoi strumenti. Qual è stata la soddisfazione più grande?«La felicità degli artisti è tutto. Senza la loro curiosità e il loro interesse non ce l’avremmo fatta. Sono contento soprattutto di aver mantenuto i patti, perché all’inizio mi chiedevano: “Ma quanto dureranno?”. E nessuno in realtà poteva saperlo. Ma oggi i primi clienti mi dicono che i nostri pianoforti invecchiano benissimo. Negli anni il suono matura...».
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)