
La cittadina ligure sul golfo del Tigullio porta ancora i segni di un antico splendore. La sua pace ha ispirato Eugenio Montale, Ernest Hemingway e Friedrich Nietzsche. E oggi dà ristoro a chi decide di passare l’inverno lontano dalle metropoli.L’inverno sulla costa ligure è malinconico. Le palme canariensi in fila indiana, lo struscio minore dei passi dei turisti di pochi giorni, moderato rispetto all’assalto da fine settimana. I giardinetti che costellano le passeggiate e le piazze sono densi di lucine da festività natalizie, i pini secolari, le palmette nane, gli eucalipti, i cedri, le araucarie, i falso-pepe e semmai anche qualche ulivo, o meglio qualche leccio. Gli hotel restaurati e lustri, le automobili di lusso nei parcheggi di fronte, e le vecchie pensioni, più defilate, d’estate colme di pensionati ma in questa stagione quasi deserte, se non chiuse. In certe ore per le strade forse più motorini e furgoncini della raccolta di immondizia che non automobili. E dunque la concitata confusione dei sabato e delle domeniche pomeriggio.Tutti i Comuni della costa si sono forniti di macchie verdi dense anzitutto di alberi esotici, ben acclimatati alle temperature miti degli inverni di questa parte d’Italia, ma è ai lati dei centri, spesso, che si incontrano i grandi giardini, spesso comunali ma un tempo, ovviamente, privatissimi, esclusivi, degno decoro di ville neoclassiche costruite da imprenditori, nobili, mercanti europei. La piccola Rapallo si trova nel golfo del Tigullio, a fianco della celebrata Portofino e di Santa Maria Ligure, oltre c’è Chiavari. Siamo ovviamente alle porte orientali di Genova Nervi. Attualmente è una ridente cittadina, ma ha vissuto periodi di splendore, come negli anni successivi al termine della prima guerra mondiale, la terribile angosciante grande guerra, oltre 15 milioni di morti, quando una villa storica sulla collina che circonda la parte bassa dell’abitato, Villa Spinola, ha ospitato i lavori per il Trattato di Rapallo (12 novembre 1920), definendo i confini e i rapporti tra il Regno d’Italia e i regni di Slovenia, Croazia e Serbia. Al contrario, Villa Tigullio si trova sul fianco orientale, nel suo pregiato edificio terroso hanno sede il Museo del Merletto e la Biblioteca internazionale. I suoi giardini sono parte del parco civico Luigi Casale, e ne fanno parte anche i giardini adiacenti aperti al pubblico tutti i giorni, dove è ospite una vecchia locomotiva nera e diversi giochi per bambini, tra i quali un castelletto con ponticello e molti alberi, alcuni dei quali secolari. La più grande sembrerebbe una canfora - tronco di circonferenza di poco inferiore ai 5 metri, albero monumentale della Regione Liguria - proprio al di sopra dell’ingresso, e poi cipressi, lecci, cedri, in cima a una collinetta un boschetto di eucalipti e araucarie. Tra questi alberi, i bar della costa e gli alberghi della Belle Époque si aggiravano anche molti poeti e scrittori che nel primo Novecento fecero di Rapallo un gioviale ritrovo. Qui infatti hanno camminato, scherzato, bevuto e preso appunti, tra i tanti, Eugenio Montale, William Butler Years, Ezra Pound (il padre, Homer, ha la sua tomba proprio a Rapallo), Ernest Hemingway, Gerhart Hauptmann, addirittura il filosofo Friedrich Nietzsche.I cercatori di grandi alberi possono andare ad ammirare un liriodendro americano alto oltre 30 metri che si staglia negli spazi ampi del Golf club (in via Mameli), o il leccio di 150 anni vicino alla Chiesa di Nostra Signora Assunta, in località Santa Maria del Campo, e ancora la trentina di lecci annosi che crescono nelle vicinanze della Chiesa di Nostra Signora di Montallegro. Viene inoltre segnalato un cipresso di Monterey (California) di vasta chioma proprio ai giardini comunali, che però non sembra di facile individuazione, forse è all’interno dei giardini di pertinenza della Villa Tigullio, non aperta al pubblico.Il signor Gianni Piva, allegro e spensierato pensionato Fiat, ha deciso di venire a svernare a Rapallo. I primi tempi si fermava per una paio di settimane presso il lodevole Hotel Astoria, in via Gramsci, proprio di fronte al lungomare, poi il passaparola, le amicizie nuove, le confidenze, il caso, gli hanno consentito di acquistare un appartamento nel centro storico. Avrebbe desiderato tanto la vista mare, ma quelle case, ammesso che qualcuno le metta in vendita e non passino semplicemente di mano, da una generazione all’altra, sono semplicemente inaccessibili per le sue modeste finanze. Dimenticavamo di segnalare che il signor Piva è orfano, sua moglie se ne è andata poche mesi prima che lui si guadagnasse l’agognata pensione, anche grazie, si fa per dire, alla riforma Fornero, che gli ha concesso anche il brivido magnifico di restare da una parte senza stipendio e, dall’altra, senza pensione, per undici mesi di fila. Miracoli della nostra amata patria!Il signor Piva si trasferisce al mare nel mese di dicembre, dopo Santa Lucia, e vi rimane in pianta stabile fino al mese di marzo, quando può comodamente rientrare in città, su, al Nord. Qui si presta soprattutto ad aiutare la figlia, che ha generato una nipote con un simpatico, oramai ex giovanotto che voleva fare il calciatore ma è finito per lavorare come assicuratore. La nipotina si chiama Sirena, proprio così, Sirena: lui la prende spesso in giro ma la bambina è sveglia e non se la prende. Il nonno d’altro canto ha la sua età, si sa… Quando è al mare fissa la sveglia alle ore 7 in punto. Quindi si alza, si lava la faccia, si aggiusta capelli e barbetta leggera, indossa i suoi soliti abiti borghesi, pantaloni di flanella, giacca a coste di velluto e sotto una camicia ben inamidata, indossa il soprabito ed esce per affrontare mezz’ora di passeggiata tranquilla, a seconda del mese, talvolta già con gli occhi che si tuffano nei primi baluginii dell’alba, oppure nell’ancora buio della coda notturna prima che il sole inizi a spumeggiare a Levante. Ama questa vita semplice, ama il mare, ama i rumori che si generano sotto questo pezzo di cielo, i gabbiani, i passi, le barche dei pochi pescatori che rientrano nel porticciolo.Prima o poi, quando deciderà di trasferirsi in pianta stabile, si dice che prenderà un cane, non importa che tipo, probabilmente meticcio, basta che sia adulto, o anziano come lui. Un amico gli ha detto che esiste un canile qui a Rapallo, gestito da una Lega amici degli animali, che mantiene una ventina di cani e tutti di una certa età. Ecco, quando vorrà avere un compagno per le sue giornate silenziose e le sue passeggiate andrà lì e ne sceglierà uno, possibilmente il più taciturno del gruppo.
Donald Trump (Ansa)
La Corte Suprema degli Stati Uniti si appresta a pronunciarsi sulla legittimità di una parte dei dazi, che sono stati imposti da Donald Trump: si tratterà di una decisione dalla portata storica.
Al centro del contenzioso sono finite le tariffe che il presidente americano ha comminato ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa). In tal senso, la questione riguarda i dazi imposti per il traffico di fentanyl e quelli che l’inquilino della Casa Bianca ha battezzato ad aprile come “reciproci”. È infatti contro queste tariffe che hanno fatto ricorso alcune aziende e una dozzina di Stati. E, finora, i tribunali di grado inferiore hanno dato torto alla Casa Bianca. I vari casi sono quindi stati accorpati dalla Corte Suprema che, a settembre, ha deciso di valutarli. E così, mercoledì scorso, i togati hanno ospitato il dibattimento sulla questione tra gli avvocati delle parti. Adesso, si attende la decisione finale, che non è tuttavia chiaro quando sarà emessa: solitamente, la Corte Suprema impiega dai tre ai sei mesi dal dibattimento per pronunciarsi. Non è tuttavia escluso che, vista la delicatezza e l’urgenza del dossier in esame, possa stavolta accelerare i tempi.
Gennaro Varone
Il pubblico ministero Gennaro Varone sulla separazione delle carriere: «Le correnti sono orientate proprio come un partito politico».
«Non è vero che la separazione delle carriere porrà il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo». Da questa frase comincia l’analisi di Gennaro Varone, pubblico ministero di recente tornato a Pescara dopo una parentesi romana durante la quale si è occupato di delicate indagini sulla pubblica amministrazione (comprese quella sulle mascherine intermediate dal giornalista Mario Benotti, che ora è al centro delle attenzioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, quella sull’ex socio dello studio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e quella sulla mensa di Rebibbia).
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Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it
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Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.
Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.
I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.
Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.
Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.
In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.
Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.
Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.
L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.
Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.
Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative
Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.
La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.
A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.
Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.
Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.
Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.






