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2018-06-07
Palazzo Chigi inizia il nuovo corso dando una sforbiciata alle scorte
ANSA
Nella cosiddetta Terza Repubblica un piccolo segno di cambiamento potrebbe venire dalle scorte. Nei giorni scorsi, a quanto risulta alla Verità, è arrivata dal governo la richiesta di sospendere o ridurre la tutela di alcuni ministri, rappresentanti di dicasteri a cui invece in passato era garantito un nutrito servizio di tutela.
In Italia attualmente gli scortati sono circa 800 tra politici, imprenditori e altre personalità, su cui vigilano più o meno 3.000 agenti. Il costo di tali dispositivi è passato negli ultimi anni da 250 milioni di euro a circa 200. Ma ora il taglio potrebbe essere più consistente, visto che anche i politici hanno deciso di dare l'esempio. Per esempio il ministro per il Sud, la grillina Barbara Lezzi, e il collega dell'Istruzione Marco Bussetti da lunedì avrebbero rinunciato all'auto di scorta. Eppure stiamo parlando di due dicasteri non certo facili. Addirittura, anche grazie alla cosiddetta riforma della Buona scuola, i titolari del ministero di viale Trastevere sono stati per anni al centro di vivaci proteste e per questo particolarmente protetti.
Sempre da lunedì, invece, il ministro dell'Economia e delle finanze Giovanni Tria è sorvegliato da una sola macchina con due agenti anziché da due vetture e quattro uomini. La riduzione o la cancellazione delle scorte dovrebbe riguardare anche tutti gli altri ministri senza portafogli: Riccardo Fraccaro (Rapporti con il Parlamento e democrazia diretta), Giulia Bongiorno (Pubblica amministrazione), Erika Stefani (Affari regionali e autonomie), Lorenzo Fontana (Famiglia e disabilità) e Paolo Savona (Affari europei).
Tutte queste decisioni sono state prese lo scorso 4 giugno durante il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica di Roma. Nell'occasione gli esperti hanno valutato le richieste provenienti dai ministri e gli eventuali rischi specifici per soggetti particolarmente esposti. Certamente sarà stata valutata con particolare attenzione la posizione del ministro Savona, la cui figura è stata sovraesposta mediaticamente durante la formazione del governo. Le scelte riservate del comitato sono poi passate al vaglio, per la ratifica, dell'ufficio centrale interforze per la sicurezza personale del Viminale.
Va detto che esistono incarichi politici che prevedono per legge una tutela obbligatoria e tra questi c'è quello di presidente del Consiglio. Per esempio il taxi su cui viaggiava Giuseppe Conte nei giorni scorsi quando si è presentato al Quirinale era preceduto e seguito negli spostamenti da due auto con sei uomini a bordo. Ricoprono ruoli particolarmente sensibili pure i ministri dell'Interno (Matteo Salvini), del Lavoro (Luigi Di Maio), della Difesa (Elisabetta Trenta) e degli Esteri (Enzo Moavero Milanesi). Costoro, quasi certamente, non potranno liberarsi dei loro «angeli custodi».
Domenico Pianese, segretario generale del Coisp, sindacato indipendente della polizia, da sempre impegnato nella battaglia per un corretto utilizzo delle scorte, commenta: «Al di là della volontà dei singoli, il ministero dell'Interno assicura la sicurezza delle persone esposte a rischio anche contro la loro volontà. Confermo comunque che con il nuovo governo c'è una tendenza alla razionalizzazione delle scorte anche su richiesta di alcuni ministri desiderosi di tenere un profilo più basso. A quanto mi risulta diversi di loro avranno esclusivamente una tutela di due persone».
«Si tratta di un segnale che va nella direzione che abbiamo sempre auspicato per due motivi oggettivi», prosegue Pianese. «Gli agenti delle scorte sono professionisti della sicurezza altamente specializzati e non possono essere utilizzati per portare la borsa della spesa a nessuno; secondo, i cittadini devono pagare con le loro tasse la protezione di persone effettivamente a rischio. I tagli consentiranno di tutelare meglio chi è davvero in pericolo, offrendo dispositivi all'altezza, con tutti gli equipaggiamenti necessari».
Giacomo Amadori
La No Tav Castelli viceministro del Tesoro
Bisognerà attendere le elezioni amministrative di domenica, con quasi 7 milioni di italiani chiamati al voto per scegliere 761 sindaci, prima di avere un quadro certo delle nomine pubbliche. Il Movimento 5 stelle accelererebbe anche la scelta dei vertici del Tesoro e della Cassa depositi e prestiti, ma Matteo Salvini, che sulla carta oggi avrebbe la metà dei voti dei grillini, sente il vento in poppa e domenica conta di fare il pieno. Con le percentuali aggiornate, la spartizione di circa 350 poltrone pubbliche sarà più «scientifica».
Certo, curriculum, richieste di disponibilità e sondaggi vari sono già stati fatti per tutta una serie di posizioni di vertice. Prima di entrare nel dettaglio, però, occorre una sorta di nota metodologica: a Roma sono giorni di pranzi e cene quasi compulsivi. Tutti presentano tutti e decine di boiardi, professori e professionisti si sentono la nomina in tasca dopo aver giurato e spergiurato ai nuovi potenti gialloblù di non aver mai fatto comunella con Forza Italia e con il Pd. Ma la vera notizia è che quasi tutti coloro che li ascoltano, tanto i grillini quanto i leghisti, non hanno alcun potere. Per la disperazione del generone romano d'assalto, le persone che vanno avvicinate per avere l'agognata cadrega sono solo due: Matteo Salvini, con Giancarlo Giorgetti che gli screma le terne di candidati, e Davide Casaleggio. Un duo decisamente ostico, se non altro perché allergico alle terrazze.
Al ministero dell'Economia e delle Finanze, dopo il surreale barrage quirinalizio su Paolo Savona, è arrivato l'economista romano Giovanni Tria. Nessuno al momento sa dire con quanta concretezza affonderà le mani nell'enorme potere che Salvini, Di Maio e Sergio Mattarella gli hanno affidato.
Con un tecnico al vertice di via XX Settembre, il M5s ha deciso di pretendere un viceministro «muscolare», e allora chi meglio della torinese Laura Castelli, 31 anni, mancato ministro delle Infrastrutture per eccesso di contrarietà alla Tav. Però è stimatissima da Di Maio, piace a Casaleggio e non a caso era l'unica donna al tavolo delle trattative per la nascita del governo. A lei andrebbero le deleghe sulla finanza pubblica e l'iter parlamentare dei provvedimenti di spesa, sulla falsariga di quanto aveva ottenuto il piddino Enrico Morando negli ultimi due governi. La Castelli sarebbe al pari di Morando, che aveva anche la delega a discutere le politiche del lavoro e della previdenza sociale con il ministro competente, che guarda caso oggi è Di Maio.
Come direttore generale resta in pole position Antonio Guglielmi, scuola Mediobanca, come anticipato dalla Verità ieri. Ma a insidiargli l'ambita nomina c'è un giovane professore di economia, quell'Andrea Roventini che figurava al Mef come ministro nella lista di governo diffusa da Di Maio a due settimane dal voto. Mentre, stando a quanto risulta alla Verità, Giuseppe Guzzetti, presidente dell'Acri, avrebbe fatto sapere di gradire su quella poltrona Alessandro Rivera, attuale dirigente del Mef.
Dopo il Tesoro, le poltrone di gran lunga più importanti sono quelle in Cdp, che si libereranno a fine mese. Qui si assiste a un fenomeno storico: da un lato c'è la fine del ciclo Giovanni Bazoli-Giuseppe Guzzetti, dall'altro l'inizio di un'era, chissà quanto lunga, Salvini-Di Maio. Per statuto, la presidenza della Cassa spetta alle casse di risparmio azioniste, con Guzzetti, ottuagenario avvocato della Dc comasca, «orbo» del sodale Bazoli da quando questi è sotto processo per Ubi banca, mentre la scelta dell'ad tocca al Mef. Oggi a Parma, all'assise dell'Acri, a parlare con Guzzetti ci saranno il grillino Stefano Buffagni, Sergio Mattarella e Giancarlo Giorgetti. In ogni caso, anche se è considerato troppo prodiano, Guzzetti è sicuro di portare a casa la nomina, al posto di Claudio Costamagna, di Massimo Tononi, al quale viene rimproverato di aver fatto il presidente di Banca Monte dei Paschi di Siena. Qualche chance, sempre per la presidenza, l'avrebbero anche l'attuale vice Mario Nuzzo e il cavallo di ritorno Giovanni Gorno Tempini, però molto legato a Bazoli (che per i leghisti significa Romano Prodi).
Come amministratore delegato di Cdp, che solo tra le quotate vanta pacchetti rilevanti di Eni, Fincantieri, Poste, Terna e Snam, sono invece in lizza due manager interni emergenti e un peso massimo dell'era di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Nel caso si volesse dividere la Cassa tra partecipazioni finanziarie, area industriale e rapporti con gli enti locali, salirebbero Fabrizio Palermo, attuale direttore finanziario, e Guido Rivolta, alla guida di Cdp equity. Se invece si volesse una guida unitaria, ecco che il Carroccio ha già prenotato Massimo Sarmi, veneto, 69 anni, alla guida della controllata Poste dal 2002 al 2014. Saprebbe sicuramente dove mettere le mani, anche se in casa 5 stelle gli rimproverano un passo falso, quello di aver partecipato a uno dei tanti «salvataggi» Alitalia.
Resta invece tutta aperta la battaglia sulla Rai e sul responsabile delle Tlc al Mise. Intanto l'Agcom ieri ha dato il primo via libera allo scorporo della rete Tim, come chiesto dalla compagnia telefonica. Per il garante il piano non è «manifestamente irragionevole», e presto lancerà una consultazione pubblica per stabilire se il provvedimento favorirà la concorrenza.
Francesco Bonazzi
«Rivedere da capo l’alta velocità e le nozze tra Anas e Ferrovie»
Con il passaggio di testimone al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti tra Graziano Delrio e Danilo Toninelli, il progetto Fs-Anas potrebbe fare un grande passo indietro. Durante il tradizionale scambio di consegne, il neo ministro, in carica dal primo giugno, ha già dato un assaggio della sua linea politica.
Toninelli, seguendo i principi cardine del Movimento 5 Stelle e le indicazioni del contratto con la Lega, metterà in atto un'attenta analisi per capire se alcune grandi opere potranno essere realizzate o no.
Il ministro ha spiegato che mirerà a una «programmazione oculata delle opere e sul potenziamento del project review (una revisione progettuale per risparmiare territorio e risorse intervenendo su progetti particolarmente onerosi, ndr), che verrà affidato alla struttura tecnica di missione con l'implementazione del metodo di valutazione costi-benefici». In parole povere, ogni grande operazione degli ultimi anni che riguarda i trasporti verrà passata al setaccio. «Il mio obiettivo è analizzare costi e benefici di tutte le opere e quelle che saranno necessarie e buone per i cittadini dovranno essere finite, soprattutto quelle già iniziate», ha aggiunto ieri il ministro all'inaugurazione del salone Parco Valentino a Torino, città da cui dovrebbe partire la linea ad altà velocità che andrà fino a Lione. «Quello che invece nel rapporto costi benefici non sarà a vantaggio dovremo analizzarlo nel dettaglio e valutare come agire sempre nell'interesse dei cittadini. Quindi una cosa per volta, nel miglior modo possibile, e penso che nel giro di poche settimane inizieremo a dare le prime risposte».
Al primo posto della lista c'è dunque il matrimonio tra Ferrovie dello Stato e Anas. Una fusione voluta dal governo Renzi che non convince del tutto né grillini, né tantomeno la Lega.
La coalizione gialloblù metterà sotto la lente le sinergie e il piano industriale del nuovo colosso nato quest'anno e cercherà di capire se sia conveniente o meno concentrare strade e treni sotto lo stesso tetto. Se mai, nei desideri del ministro Toninelli, ci potrebbe essere un «rafforzamento della capacità di progettazione di Anas» così come l'intenzione di porre la massima attenzione al tema delle concessioni autostradali e al rapporto tra piani tariffari e investimenti.
Al vaglio del nuovo ministro, inoltre, c'è la Tav, un punto molto importante per il dicastero e su cui M5S e Lega non sono allineate. Il governatore del Veneto in quota Lega, Luca Zaia ha già criticato il giovane operato del nuovo ministro dei Trasporti. «Io penso che sia il ministero delle Infrastrutture, non quello delle disinfrastrutture», ha detto Zaia a proposito del metodo di analisi annunciato dal ministro M5s, basato appunto su un'attenta disamina di costi e benefici delle opere, tra cui quelle venete. Fatto sta che Toninelli al Parco Valentino ha già fatto sapere che rivaluterà la Tav. «Ricordo», ha detto, «che sul contratto di governo è indicata la rivalutazione di questa opera e insieme anche alla Lega lo rivaluteremo però carte alla mano, conti alla mano, valutazioni giuridiche tecnico-scientifiche».
Un concetto che il ministro ha sottolineato anche all'interno di un'intervista realizzata con il Sole 24 Ore. «Qui non si tratta di azzerare tutto, ma di sviluppare in continuità ciò che funziona e di innovare laddove le cose non vanno bene, per esempio snellendo le procedure che passano dal Cipe», ha sottolineato al quotidiano di viale Monterosa.
Sembra, però, che questa posizione non piaccia per nulla al presidente delle regione Piemonte, Sergio Chiamparino, che più di una volta ha puntato l'accento sulla necessità di ammodernare la linea Torino-Lione. Un botta e riposta da cui Toninelli non si è tirato indietro. «Chiamparino fa delle belle battute», ha detto ieri il ministro, «ma deve stare tranquillo. Non passeremo sul suo corpo perché potrebbe non passare nessun treno».
Parole dure che sottolineano l'atteggiamento contrario dei 5 stelle nei confronti di un'opera che da sempre divide l'opinione pubblica del Paese. Del resto, il movimento fondato da Beppe Grillo non ha mai nascosto la sua posizione molto vicina al comitato No Tav della Val di Susa, da dove l'opera partirebbe.
Gianluca Baldini
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Riduci
Tutti i ministri senza portafoglio, Paolo Savona incluso, dovrebbero perdere la tutela.La grillina No Tav Laura Castelli in pole position come braccio destro di Giovanni Tria all'Economia: le spetterebbero le deleghe alla finanza pubblica e all'iter parlamentare dei provvedimenti di spesa. Ancora aperta la sfida sulla delega alle Tlc. Intanto l'Agcom dà il primo ok allo scorporo della rete Tim Il pentastellato Danilo Toninelli, oltre alla linea in Val di Susa, critica pure l'operazione di Renato Mazzoncini.Lo speciale contiene tre articoliNella cosiddetta Terza Repubblica un piccolo segno di cambiamento potrebbe venire dalle scorte. Nei giorni scorsi, a quanto risulta alla Verità, è arrivata dal governo la richiesta di sospendere o ridurre la tutela di alcuni ministri, rappresentanti di dicasteri a cui invece in passato era garantito un nutrito servizio di tutela. In Italia attualmente gli scortati sono circa 800 tra politici, imprenditori e altre personalità, su cui vigilano più o meno 3.000 agenti. Il costo di tali dispositivi è passato negli ultimi anni da 250 milioni di euro a circa 200. Ma ora il taglio potrebbe essere più consistente, visto che anche i politici hanno deciso di dare l'esempio. Per esempio il ministro per il Sud, la grillina Barbara Lezzi, e il collega dell'Istruzione Marco Bussetti da lunedì avrebbero rinunciato all'auto di scorta. Eppure stiamo parlando di due dicasteri non certo facili. Addirittura, anche grazie alla cosiddetta riforma della Buona scuola, i titolari del ministero di viale Trastevere sono stati per anni al centro di vivaci proteste e per questo particolarmente protetti. Sempre da lunedì, invece, il ministro dell'Economia e delle finanze Giovanni Tria è sorvegliato da una sola macchina con due agenti anziché da due vetture e quattro uomini. La riduzione o la cancellazione delle scorte dovrebbe riguardare anche tutti gli altri ministri senza portafogli: Riccardo Fraccaro (Rapporti con il Parlamento e democrazia diretta), Giulia Bongiorno (Pubblica amministrazione), Erika Stefani (Affari regionali e autonomie), Lorenzo Fontana (Famiglia e disabilità) e Paolo Savona (Affari europei). Tutte queste decisioni sono state prese lo scorso 4 giugno durante il comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica di Roma. Nell'occasione gli esperti hanno valutato le richieste provenienti dai ministri e gli eventuali rischi specifici per soggetti particolarmente esposti. Certamente sarà stata valutata con particolare attenzione la posizione del ministro Savona, la cui figura è stata sovraesposta mediaticamente durante la formazione del governo. Le scelte riservate del comitato sono poi passate al vaglio, per la ratifica, dell'ufficio centrale interforze per la sicurezza personale del Viminale. Va detto che esistono incarichi politici che prevedono per legge una tutela obbligatoria e tra questi c'è quello di presidente del Consiglio. Per esempio il taxi su cui viaggiava Giuseppe Conte nei giorni scorsi quando si è presentato al Quirinale era preceduto e seguito negli spostamenti da due auto con sei uomini a bordo. Ricoprono ruoli particolarmente sensibili pure i ministri dell'Interno (Matteo Salvini), del Lavoro (Luigi Di Maio), della Difesa (Elisabetta Trenta) e degli Esteri (Enzo Moavero Milanesi). Costoro, quasi certamente, non potranno liberarsi dei loro «angeli custodi». Domenico Pianese, segretario generale del Coisp, sindacato indipendente della polizia, da sempre impegnato nella battaglia per un corretto utilizzo delle scorte, commenta: «Al di là della volontà dei singoli, il ministero dell'Interno assicura la sicurezza delle persone esposte a rischio anche contro la loro volontà. Confermo comunque che con il nuovo governo c'è una tendenza alla razionalizzazione delle scorte anche su richiesta di alcuni ministri desiderosi di tenere un profilo più basso. A quanto mi risulta diversi di loro avranno esclusivamente una tutela di due persone». «Si tratta di un segnale che va nella direzione che abbiamo sempre auspicato per due motivi oggettivi», prosegue Pianese. «Gli agenti delle scorte sono professionisti della sicurezza altamente specializzati e non possono essere utilizzati per portare la borsa della spesa a nessuno; secondo, i cittadini devono pagare con le loro tasse la protezione di persone effettivamente a rischio. I tagli consentiranno di tutelare meglio chi è davvero in pericolo, offrendo dispositivi all'altezza, con tutti gli equipaggiamenti necessari».Giacomo Amadori<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/palazzo-chigi-inizia-il-nuovo-corso-dando-una-sforbiciata-alle-scorte-2575770994.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-no-tav-castelli-viceministro-del-tesoro" data-post-id="2575770994" data-published-at="1765414986" data-use-pagination="False"> La No Tav Castelli viceministro del Tesoro Bisognerà attendere le elezioni amministrative di domenica, con quasi 7 milioni di italiani chiamati al voto per scegliere 761 sindaci, prima di avere un quadro certo delle nomine pubbliche. Il Movimento 5 stelle accelererebbe anche la scelta dei vertici del Tesoro e della Cassa depositi e prestiti, ma Matteo Salvini, che sulla carta oggi avrebbe la metà dei voti dei grillini, sente il vento in poppa e domenica conta di fare il pieno. Con le percentuali aggiornate, la spartizione di circa 350 poltrone pubbliche sarà più «scientifica». Certo, curriculum, richieste di disponibilità e sondaggi vari sono già stati fatti per tutta una serie di posizioni di vertice. Prima di entrare nel dettaglio, però, occorre una sorta di nota metodologica: a Roma sono giorni di pranzi e cene quasi compulsivi. Tutti presentano tutti e decine di boiardi, professori e professionisti si sentono la nomina in tasca dopo aver giurato e spergiurato ai nuovi potenti gialloblù di non aver mai fatto comunella con Forza Italia e con il Pd. Ma la vera notizia è che quasi tutti coloro che li ascoltano, tanto i grillini quanto i leghisti, non hanno alcun potere. Per la disperazione del generone romano d'assalto, le persone che vanno avvicinate per avere l'agognata cadrega sono solo due: Matteo Salvini, con Giancarlo Giorgetti che gli screma le terne di candidati, e Davide Casaleggio. Un duo decisamente ostico, se non altro perché allergico alle terrazze. Al ministero dell'Economia e delle Finanze, dopo il surreale barrage quirinalizio su Paolo Savona, è arrivato l'economista romano Giovanni Tria. Nessuno al momento sa dire con quanta concretezza affonderà le mani nell'enorme potere che Salvini, Di Maio e Sergio Mattarella gli hanno affidato. Con un tecnico al vertice di via XX Settembre, il M5s ha deciso di pretendere un viceministro «muscolare», e allora chi meglio della torinese Laura Castelli, 31 anni, mancato ministro delle Infrastrutture per eccesso di contrarietà alla Tav. Però è stimatissima da Di Maio, piace a Casaleggio e non a caso era l'unica donna al tavolo delle trattative per la nascita del governo. A lei andrebbero le deleghe sulla finanza pubblica e l'iter parlamentare dei provvedimenti di spesa, sulla falsariga di quanto aveva ottenuto il piddino Enrico Morando negli ultimi due governi. La Castelli sarebbe al pari di Morando, che aveva anche la delega a discutere le politiche del lavoro e della previdenza sociale con il ministro competente, che guarda caso oggi è Di Maio. Come direttore generale resta in pole position Antonio Guglielmi, scuola Mediobanca, come anticipato dalla Verità ieri. Ma a insidiargli l'ambita nomina c'è un giovane professore di economia, quell'Andrea Roventini che figurava al Mef come ministro nella lista di governo diffusa da Di Maio a due settimane dal voto. Mentre, stando a quanto risulta alla Verità, Giuseppe Guzzetti, presidente dell'Acri, avrebbe fatto sapere di gradire su quella poltrona Alessandro Rivera, attuale dirigente del Mef. Dopo il Tesoro, le poltrone di gran lunga più importanti sono quelle in Cdp, che si libereranno a fine mese. Qui si assiste a un fenomeno storico: da un lato c'è la fine del ciclo Giovanni Bazoli-Giuseppe Guzzetti, dall'altro l'inizio di un'era, chissà quanto lunga, Salvini-Di Maio. Per statuto, la presidenza della Cassa spetta alle casse di risparmio azioniste, con Guzzetti, ottuagenario avvocato della Dc comasca, «orbo» del sodale Bazoli da quando questi è sotto processo per Ubi banca, mentre la scelta dell'ad tocca al Mef. Oggi a Parma, all'assise dell'Acri, a parlare con Guzzetti ci saranno il grillino Stefano Buffagni, Sergio Mattarella e Giancarlo Giorgetti. In ogni caso, anche se è considerato troppo prodiano, Guzzetti è sicuro di portare a casa la nomina, al posto di Claudio Costamagna, di Massimo Tononi, al quale viene rimproverato di aver fatto il presidente di Banca Monte dei Paschi di Siena. Qualche chance, sempre per la presidenza, l'avrebbero anche l'attuale vice Mario Nuzzo e il cavallo di ritorno Giovanni Gorno Tempini, però molto legato a Bazoli (che per i leghisti significa Romano Prodi). Come amministratore delegato di Cdp, che solo tra le quotate vanta pacchetti rilevanti di Eni, Fincantieri, Poste, Terna e Snam, sono invece in lizza due manager interni emergenti e un peso massimo dell'era di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Nel caso si volesse dividere la Cassa tra partecipazioni finanziarie, area industriale e rapporti con gli enti locali, salirebbero Fabrizio Palermo, attuale direttore finanziario, e Guido Rivolta, alla guida di Cdp equity. Se invece si volesse una guida unitaria, ecco che il Carroccio ha già prenotato Massimo Sarmi, veneto, 69 anni, alla guida della controllata Poste dal 2002 al 2014. Saprebbe sicuramente dove mettere le mani, anche se in casa 5 stelle gli rimproverano un passo falso, quello di aver partecipato a uno dei tanti «salvataggi» Alitalia. Resta invece tutta aperta la battaglia sulla Rai e sul responsabile delle Tlc al Mise. Intanto l'Agcom ieri ha dato il primo via libera allo scorporo della rete Tim, come chiesto dalla compagnia telefonica. Per il garante il piano non è «manifestamente irragionevole», e presto lancerà una consultazione pubblica per stabilire se il provvedimento favorirà la concorrenza. Francesco Bonazzi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/palazzo-chigi-inizia-il-nuovo-corso-dando-una-sforbiciata-alle-scorte-2575770994.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="rivedere-da-capo-lalta-velocita-e-le-nozze-tra-anas-e-ferrovie" data-post-id="2575770994" data-published-at="1765414986" data-use-pagination="False"> «Rivedere da capo l’alta velocità e le nozze tra Anas e Ferrovie» Con il passaggio di testimone al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti tra Graziano Delrio e Danilo Toninelli, il progetto Fs-Anas potrebbe fare un grande passo indietro. Durante il tradizionale scambio di consegne, il neo ministro, in carica dal primo giugno, ha già dato un assaggio della sua linea politica. Toninelli, seguendo i principi cardine del Movimento 5 Stelle e le indicazioni del contratto con la Lega, metterà in atto un'attenta analisi per capire se alcune grandi opere potranno essere realizzate o no. Il ministro ha spiegato che mirerà a una «programmazione oculata delle opere e sul potenziamento del project review (una revisione progettuale per risparmiare territorio e risorse intervenendo su progetti particolarmente onerosi, ndr), che verrà affidato alla struttura tecnica di missione con l'implementazione del metodo di valutazione costi-benefici». In parole povere, ogni grande operazione degli ultimi anni che riguarda i trasporti verrà passata al setaccio. «Il mio obiettivo è analizzare costi e benefici di tutte le opere e quelle che saranno necessarie e buone per i cittadini dovranno essere finite, soprattutto quelle già iniziate», ha aggiunto ieri il ministro all'inaugurazione del salone Parco Valentino a Torino, città da cui dovrebbe partire la linea ad altà velocità che andrà fino a Lione. «Quello che invece nel rapporto costi benefici non sarà a vantaggio dovremo analizzarlo nel dettaglio e valutare come agire sempre nell'interesse dei cittadini. Quindi una cosa per volta, nel miglior modo possibile, e penso che nel giro di poche settimane inizieremo a dare le prime risposte». Al primo posto della lista c'è dunque il matrimonio tra Ferrovie dello Stato e Anas. Una fusione voluta dal governo Renzi che non convince del tutto né grillini, né tantomeno la Lega. La coalizione gialloblù metterà sotto la lente le sinergie e il piano industriale del nuovo colosso nato quest'anno e cercherà di capire se sia conveniente o meno concentrare strade e treni sotto lo stesso tetto. Se mai, nei desideri del ministro Toninelli, ci potrebbe essere un «rafforzamento della capacità di progettazione di Anas» così come l'intenzione di porre la massima attenzione al tema delle concessioni autostradali e al rapporto tra piani tariffari e investimenti. Al vaglio del nuovo ministro, inoltre, c'è la Tav, un punto molto importante per il dicastero e su cui M5S e Lega non sono allineate. Il governatore del Veneto in quota Lega, Luca Zaia ha già criticato il giovane operato del nuovo ministro dei Trasporti. «Io penso che sia il ministero delle Infrastrutture, non quello delle disinfrastrutture», ha detto Zaia a proposito del metodo di analisi annunciato dal ministro M5s, basato appunto su un'attenta disamina di costi e benefici delle opere, tra cui quelle venete. Fatto sta che Toninelli al Parco Valentino ha già fatto sapere che rivaluterà la Tav. «Ricordo», ha detto, «che sul contratto di governo è indicata la rivalutazione di questa opera e insieme anche alla Lega lo rivaluteremo però carte alla mano, conti alla mano, valutazioni giuridiche tecnico-scientifiche». Un concetto che il ministro ha sottolineato anche all'interno di un'intervista realizzata con il Sole 24 Ore. «Qui non si tratta di azzerare tutto, ma di sviluppare in continuità ciò che funziona e di innovare laddove le cose non vanno bene, per esempio snellendo le procedure che passano dal Cipe», ha sottolineato al quotidiano di viale Monterosa. Sembra, però, che questa posizione non piaccia per nulla al presidente delle regione Piemonte, Sergio Chiamparino, che più di una volta ha puntato l'accento sulla necessità di ammodernare la linea Torino-Lione. Un botta e riposta da cui Toninelli non si è tirato indietro. «Chiamparino fa delle belle battute», ha detto ieri il ministro, «ma deve stare tranquillo. Non passeremo sul suo corpo perché potrebbe non passare nessun treno». Parole dure che sottolineano l'atteggiamento contrario dei 5 stelle nei confronti di un'opera che da sempre divide l'opinione pubblica del Paese. Del resto, il movimento fondato da Beppe Grillo non ha mai nascosto la sua posizione molto vicina al comitato No Tav della Val di Susa, da dove l'opera partirebbe. Gianluca Baldini
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Riduci
Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Riduci
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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