2019-03-05
Ora l’ex Pci inaugurerà la purga dei renziani
I suoi toni pacati e i modi «inclusivi» non devono trarre in inganno. Nicola Zingaretti si prenderà il partito strappando uno a uno i petali del Giglio magico. A partire dal tesoriere Francesco Bonifazi e passando per il pasdaran al Senato Andrea Marcucci. Il ciclo di Matteo Renzi è davvero finito.Da oggi tutto cambia nel Pd e con il nuovo segretario arriva l'ultimo terremoto interno: ovviamente nel segno di «Ma-Zinga» (così lo hanno chiamato i suoi fan), ovvero con il pugno di ferro in un guanto di velluto. Con il sorriso sulle labbra, ma senza sconti, tutto cambia al Nazareno: la prima linea dei dirigenti con responsabilità operative, la cassa (addio al metodo Bonifazi) e l'organizzazione, il metodo di direzione tenuti negli ultimi cinque anni. Perché è vero che dopo quella di Matteo Renzi era venuta la segreteria di Maurizio Martina, ma è anche vero che per il modo, i tempi, le ipoteche e la sua squadra (metà era del Giglio magico), l'ultimo numero uno del Pd prima di Zingaretti si era mosso nel segno della continuità. Il nuovo leader del partito - invece - ha vinto una sfida molto complessa con una strategia ecumenica apparentemente iper-inclusiva, ma ha conquistato una maggioranza bulgara. Al punto che il suo maestro politico di sempre, Goffredo Bettini, dice: «Nemmeno io immaginavo una affermazione di queste proporzioni». Adesso Zingaretti entra nella stanza dei bottoni e rinnova tutti gli arredi senza chiedere permesso a nessuno, inaugurando una stagione che aspettava da 11 mesi. Addio al bunkerino blindato del líder (era stato letteralmente così l'ultimo ufficio di Renzi nella sede nazionale), non più fondazioni e attività parallele, Leopolde e carrettini dei gelati, non più consulenti, amicizie trasversali, accordi «nazareni». I dati ieri sera non erano ancora definitivi, ma le stime dell'Adn Kronos delineavano dei rapporti di forza impressionanti, che regalano al nuovo segretario - senza bisogno di alleati - una larghissima maggioranza nei nuovi vertici. A lui andrebbero circa 650 delegati su 1.000 dell'Assemblea, e i 355 che restano se li dividerebbero Martina e Giachetti: circa 250 per il primo e 105 per il secondo. Altro dettaglio che aiuta a capire: da quando è in campo, con pochissime eccezioni, come quella del sindaco di Pesaro Matteo Ricci (ma solo perché faceva parte della segreteria della «sua» Sinistra giovanile), Zingaretti non ha «reciclato» nessuno di quelli che stavano nella prima linea della stagione che si è chiusa. Se si escludono i pochi che alla caduta del governo di centrosinistra hanno scommesso su di lui: in primis Paolo Gentiloni, e in seguito Marianna Madia. E Zingaretti medita di cambiare subito uno dei due capigruppo. Graziano Delrio potrebbe facilmente riallinearsi, ma Andrea Marcucci è espressione di un gruppo ultrarenziano. Tuttavia quando in una intervista Giovanni Marinetti del Tg de La7 gli ha chiesto cosa pensava di ritrovarsi con gruppi legati al vecchio leader ha risposto con durezza: «Per me esistono i gruppi parlamentari del Pd. Punto». Ovvero: chi non si riallinea alla nuova segreteria prepari le valige. Il governatore ha vinto senza spargimenti di sangue, senza affrontare direttamente il suo avversario, ma combattendo una battaglia proprio per questo ancora più difficile, quella contro il suo fantasma, che aleggiava sia sul gruppo dirigente che sul popolo della sinistra. Una battaglia che non è ancora finita e che avrà il suo epilogo solo dopo le elezioni europee, come rivela una frase assai sibillina pronunciata da Luca Lotti: «Non intendo uscire dal Pd». Il riferimento, è chiaro, è all'ipotesi di una scissione programmata dell'altra metà della corrente renziana, da attivare dopo la campagna e il risultato delle europee. Ecco perché Zingaretti ripete ai suoi: «Abbiamo due mesi di tempo per cambiare faccia al partito». Il momento più duro, in una rincorsa iniziata con una intervista a Repubblica il 6 marzo del 2018 (racconta chi gli è vicino) Zingaretti lo ha vissuto solo pochi giorni fa, è lo ha vissuto - paradossalmente - con l'arresto ai domiciliari di papà Tiziano e mamma Renzi: non perché il governatore temesse contraccolpi sulla sua linea, ma perché paventava il disamoramento di un pezzo di elettorato del partito che era stato convintamente renziano, ed era allibito per le dichiarazioni anti magistrati della famiglia e della doppia intemerata di Renzi contro la presunta giustizia ad orologeria. Zingaretti è stato anti Renzi perché opposto a Renzi, non antagonista lui. Il segreto del consenso plebiscitario raccolto dal governatore alle primarie del partito democratico (un milione di voti) è stato nel modellarsi in maniera opposta al suo predecessore senza confliggerci: «Se Matteo resta sono felice», diceva Zingaretti sorridendo a Omnibus, solo due giorni prima del voto. Ma quel sorriso non deve ingannare, esattamente così come il suo lessico studiato ed eufemistico. Sempre «noi» e mai «io», sempre «segretario», ma mai «capo», sempre «decideremo insieme» - ovviamente - e mai «corro da solo», sempre «ricostruttore» e mai «rottamatore». A pensarci bene in questi anni di segreteria e anche prima Renzi è stato eternamente in battaglia, mentre Zingaretti è riuscito a trovare nel Lazio un accordo di governo persino con Roberta Lombardi, la leader M5s che in campagna elettorale aveva detto di lui: «Viene dal sistema di Mafia capitale». Zingaretti è nato in una famiglia popolare, la madre era una militante di base del Pci, il fratello Luca era più a sinistra di lui ed era passato per il Pdup e per il Manifesto, poi aveva iniziato a fare l'attore, scritturato giovanissimo da un mostro sacro come Luca Ronconi. Nicola quadrato, Luca «genio e sregolatezza», Nicola funzionario di partito, Luca splendido protagonista de Il Branco, Nicola famoso e Luca ancora più famoso. La signora Zingaretti entrava nei negozi e facendo ridere i figli esordiva presentandosi con autoironia: «Sono la mamma di Montalbano!». Ma ovviamente né il governatore né sua sorella se ne avevamo a male. Nicola e Luca sono stati insieme sul palco solo una volta a Frascati («Non ho mai voluto sfruttare la sua notorietà»), e per il resto Zingaretti ha fatto tutto il suo cursus honorum con le carriere della vecchia scuola: formazione alle Frattocchie (quando era giovane e riccioluto), segretario della Fgci Romana, segretario nazionale della sinistra giovanile, segretario dell'internazionale dei giovani socialisti (la Iusi), presidente di Provincia e regione. «Con lui torna la ditta», ha detto più volte Giachetti. «Adesso», dice Zingaretti, «si volta pagina». E quello che si chiude è il libro del renzismo.