
Dopo anni in cui chi parlava di fuga da un laboratorio veniva screditato, l’organizzazione esorta la Cina a condividere i dati sull’origine del virus. Ma così conferma di essere un ente politico che andrebbe chiuso.Casomai mancassero buone ragioni per chiudere l’Organizzazione mondiale della sanità (e in effetti non mancavano) eccone una nuova di zecca che dimostra quanto sia non soltanto inutile ma pure dannosa. Si tratta, a ben vedere, di una vicenda grottesca, che ci farebbe sbellicare dalle risate se non conoscessimo il dolore e la sofferenza ad essa collegati. Rende noto Politico che «l’Organizzazione mondiale della sanità ha esortato Pechino a condividere i dati sulle origini del coronavirus, cinque anni dopo che il batterio che ha devastato il mondo è stato individuato per la prima volta nella città cinese di Wuhan». Tanto basterebbe per farsi cadere le braccia, ma a rendere il quadro ancora più drammatico ci sono le frasi contenute in un comunicato ufficiale che l’Oms ha diffuso in questi giorni. «Continuiamo a chiedere alla Cina di condividere dati e accesso in modo da poter comprendere le origini del Covid-19. Questo è un imperativo morale e scientifico», si legge nel testo. «Senza trasparenza, condivisione e cooperazione tra i Paesi, il mondo non può prevenire e prepararsi adeguatamente a future epidemie e pandemie».Perché queste affermazioni sono semplicemente ridicole? Per il fatto che arrivano a cinque anni di distanza dall’inizio della pandemia, dopo che il tema dell’origine di laboratorio del virus è stato discusso in lungo in largo, e addirittura sdoganato un anno fa dal direttore dell’Fbi, Christopher Wray, secondo cui «molto probabilmente un potenziale incidente di laboratorio» a Wuhan avrebbe causato la diffusione del Covid. Alla stessa conclusione un mesetto fa è arrivata anche la sottocommissione sulla pandemia del Congresso americano a guida repubblicana.In tutti questi anni, l’Oms è stata semplicemente zitta. Peggio: ha contribuito a insabbiare le indagini sulla materia. Nel 2021, come noto, ha messo in piedi una missione in Cina, a Wuhan, che avrebbe dovuto fare luce sulla origine della pandemia. Il risultato - annunciato - fu un nulla di fatto: gli esperti non riuscirono a stabilire quale fosse l’origine della malattia. In compenso, nell’agosto dello stesso anno, su Nature, alcuni dei ricercatori che parteciparono all’operazione pubblicarono un lungo articolo per illustrare il loro lavoro. «A gennaio abbiamo intrapreso una missione di 28 giorni a Wuhan per intervistare professionisti clinici, di laboratorio e della sanità pubblica e visitare le istituzioni coinvolte nella risposta precoce all’epidemia e nelle successive indagini», spiegarono. «Il nostro lavoro è stato supportato da un team di personale dell’ufficio cinese dell’Oms e dalla sede centrale dell’Oms a Ginevra, in Svizzera; personale dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite (Fao) e dell’Organizzazione mondiale per la salute animale (Oie); e un team leader nominato dall’Oms. L’enorme onere del lavoro preparatorio è stato sostenuto dal team in Cina, inclusi oltre 1.000 professionisti sanitari che hanno raccolto, analizzato, presentato e discusso dati e risultati dello studio durante la nostra missione congiunta».Nonostante tutta questa mole di lavoro e nonostante il dispiegamento di uomini e mezzi, gli studiosi si ritrovarono con un pugno di mosche. La fase uno della ricerca si concluse senza certezze, la fase due non fu mai portata avanti causa mancanza di dati. Non per nulla, l’articolo uscito su Nature si concludeva con un appello degli scienziati: «Nel rapporto e da allora in poi abbiamo chiesto pubblicamente che tutti i dati a supporto dell’ipotesi della fuga di laboratorio venissero pubblicati e inviati all’Oms. Finora, nessuno lo ha fatto». Per farla breve: non potendo avere accesso a tutte le informazioni necessarie, l’indagine internazionale si spense. Ma non risulta che l’Oms abbia insistito molto sull’argomento - con uscite pubbliche o altro - dal 2021 a oggi. E infatti le autorità cinesi, oggi, hanno gioco facile a rispondere per le rime alla richiesta di dati. Al comunicato dell’Oms dell’altro giorno ha replicato Mao Ning, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino: «Per quanto riguarda la tracciabilità del Covid-19, la Cina ha condiviso la maggior parte dei dati e dei risultati delle ricerche e ha dato il maggiore contributo alla ricerca sulla tracciabilità globale. Gli esperti internazionali dell’Oms hanno ripetutamente affermato che durante la loro visita in Cina, sono andati in tutti i posti in cui volevano andare e hanno incontrato tutte le persone che volevano vedere». Praticamente una pernacchia (meritata).Ecco la patetica realtà. Negli ultimi anni l’Oms avrebbe potuto operare in diecimila modi per contribuire a fare chiarezza sul Covid. Avrebbe potuto e dovuto indagare meglio e senza timori sulla origine del virus; avrebbe potuto svolgere inchieste sulla sicurezza dei vaccini e, volendo, persino valutare seriamente le misure restrittive prese dalle varie nazioni. Manco a dirlo non ha fatto nulla di tutto questo, in compenso ha approvato ogni forma di autoritarismo sanitario, ha contribuito alla propaganda e all’occultamento di evidenze scientifiche. Ora si sveglia dal sonno colpevole e vuole fare credere di essere impegnata a mettere pressione ai cinesi. Perché lo faccia è abbastanza chiaro: dopo gli annunci di Donald Trump sul taglio dei finanziamenti statunitensi, i furbastri forse pensano di farsi belli con il presidente americano esibendo un piglio arrogante con Pechino. Eterogenei dei fini: in questa maniera l’Oms conferma di essere un ente inutile e ridicolo, e di meritare la dissoluzione più rapida possibile.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Su un testo riservato appare il nome del partito creato da Grillo. Dietro a questi finanziamenti una vera internazionale di sinistra.
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Nel 1937 l’archeologo francese Fernand Benoit fece una scoperta clamorosa. Durante gli scavi archeologici nei pressi dell’acquedotto romano di Arles, la sua città, riportò alla luce un sito straordinario. Lungo un crinale ripido e roccioso, scoprì quello che probabilmente è stato il primo impianto industriale della storia, un complesso che anticipò di oltre un millennio la prima rivoluzione industriale, quella della forza idraulica.
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Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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