Ecco #Edicolaverità, la rassegna stampa podcast del 5 dicembre con Carlo Cambi
Andrea Sempio (Ansa)
Presentati gli esiti dell’incidente probatorio. Il legale di Venditti attacca gli inquirenti.
Ieri l’avvocato Domenico Aiello, difensore dell’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti, ha sparato bordate contro la Procura di Pavia. Riferendosi ad Alberto Stasi ha detto che i magistrati sono «al servizio di un condannato, assassino riconosciuto con sentenza passata in giudicato» e che l’ufficio inquirente «sta violando il principio di “intangibilità del giudicato”, perché manca oramai da mesi la richiesta di revisione».
Un attacco frontale. Ribadito anche commentando i risultati dell’incidente probatorio genetico-forense depositati dalla perita genetista Denise Albani: «L’ennesimo buco nell’acqua a spese del contribuente, ho perso il conto, tutto per alimentare un linciaggio mediatico di innocenti, sbattuti da mesi in prima pagina».
Il punto è che queste parole, pronunciate per demolire l’impianto accusatorio delle nuove indagini, finiscono per sbattere contro un dettaglio che l’avvocato Aiello (che aveva chiesto di trasferire il fascicolo da Pavia a Brescia «per connessione» ottenendo un rigetto) tiene da parte: fu proprio Venditti, nel 2016, a iscrivere il fascicolo (poi archiviato) su Andrea Sempio sulla base quasi degli stessi presupposti che anche all’epoca sembravano non tenere conto dell’intangibilità del giudicato, ovvero la sentenza definitiva di condanna a 16 anni per Stasi. Tant’è che furono richieste (proprio da Venditti e dalla collega Giulia Pezzino) e poi disposte dal gip perfino intercettazioni di utenze e, in ambientale, di automobili (attività che, proprio come quelle odierne, non sono gratuite). Anche la critica sulla prova genetica nasce zoppa. La genetista Albani, incaricata nell’incidente probatorio, ha depositato una relazione di 94 pagine che evidenzia gli stessi limiti già noti all’epoca: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ma, nonostante le criticità, i calcoli mostrano una corrispondenza «moderatamente forte/forte e moderato» tra le tracce di Dna sulle unghie di Chiara Poggi e l’aplotipo Y della linea paterna di Sempio. La conclusione è matematica: per la traccia «Y428 – MDX5», la contribuzione di Sempio è «da 476 a 2153 volte più probabile». Per la «Y429 – MSX1» è «approssimativamente da 17 a 51 volte più probabile». Non un’assoluzione, non una condanna, ma un dato: Sempio, o un soggetto imparentato in linea paterna con lui, ha contribuito a quelle tracce biologiche. La genetista avverte: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ricorda però un passaggio importante: che la mancata replica (in genetica forense un risultato è considerato affidabile solo se può essere riprodotto più volte) è dovuta a «strategie analitiche adottate nel 2014» dal perito Francesco De Stefano, che «hanno di fatto condizionato le successive valutazioni perché non hanno consentito di ottenere esiti replicati». Ovvero: non è colpa delle nuove indagini se i dati sono lacunosi, ma degli errori di allora.
La relazione (di 94 pagine) sostanzialmente non si discosta da quella già effettuata in passato dal professor Carlo Previderé, che nulla aggiunge su come e quando quelle tracce del profilo «Y» sino finite sulle unghie di Chiara. «Nel caso di specie», scrive infatti la genetista, «si tratta di aplotipi misti parziali per i quali non è possibile stabilire con rigore scientifico se provengano da fonti del Dna depositate sotto o sopra le unghie della vittima e, nell’ambito della stessa mano, da quale dito provengano; quali siano state le modalità di deposizione del materiale biologico originario; perché ciò si sia verificato (per contaminazione, per trasferimento avventizio diretto o mediato); quando sia avvenuta la deposizione del materiale biologico».
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Nel riquadro Nathan Trevallion, il papà della cosiddetta famiglia nel bosco, firma il contratto della nuova casa (Ansa)
Il Tribunale dei minorenni prende tempo sul caso della famiglia nel bosco, nonostante le due relazioni presentate in udienza ieri, che descrivono i tre bimbi della coppia come assolutamente sereni. I legali: «È stata recepita la disponibilità dei genitori».
Il Tribunale dei minorenni dell’Aquila si è riservato sul caso della «famiglia del bosco». I giudici hanno preso tempo per valutare le due nuove relazioni che decideranno il futuro dei figli della famiglia Trevallion, che vivevano in casolare di Palmoli in provincia di Chieti, affidati due settimane fa a una struttura dal Tribunale dei minori dell’Aquila.
I documenti sono stati depositati nell’udienza di ieri pomeriggio, dove avrebbero dovuto essere ascoltati Catherine Birmingham e Nathan Trevallion. Si tratta della coppia anglo-australiana che viveva con i tre figli minori, nella casa nel bosco, ma la coppia non era presente in aula. I genitori stanno combattendo per riottenere i bambini, lontani dalla casa nel bosco ormai da 14 giorni. Le importanti relazioni esaminate in aula sono una della casa-famiglia in cui i minorenni sono ospitati dal 20 novembre e l’altra dei servizi sociali. I ragazzi, dall’inizio della loro permanenza nella casa-famiglia in cui sono ospitati, sarebbero tranquilli e non avrebbero subito traumi, incontrano spesso la madre che viene considerata punto di riferimento dei piccoli e che sarebbe anche molto empatica. E anche il padre, pur vivendo ancora nella casa nel bosco, si prende cura dei figli.
Secondo la relazione, i bambini Trevallion hanno mostrato sorpresa davanti ai comfort moderni che trovano nella casa famiglia come l’acqua corrente sempre disponibile, il riscaldamento, gli elettrodomestici. Tutte cose che per i coetanei sono la normalità, ma per loro rappresentano una scoperta. All’udienza di comparizione, iniziata ieri verso le 15.30, erano presenti i due avvocati della famiglia, Marco Femminella e Danila Solinas. Sono loro che hanno chiesto un ricongiungimento urgente al tribunale minorile per la famiglia, presentando delle nuove argomentazioni alla luce di nuovi elementi che non erano conosciuti al tempo dell’ordinanza che ha separato genitori e figli. Anche i minori hanno un loro avvocato, Marica Bolognese. Maria Luisa Palladino è la tutrice provvisoria dei tre bambini.
I genitori hanno anche presentato ricorso, sulla decisione di allontanare i figli minori, alla Corte d’appello che dovrà decidere il 16 dicembre. Intanto, ieri si è iniziato a valutare l’impegno della coppia per garantire quanto disposto dal magistrato in termini di adeguatezza dell’ambiente domestico. La coppia ha deciso di cambiare abitazione per tre mesi, gli è stata messa a disposizione una casa colonica, sempre a Palmoli, immersa nel verde, dove resterà il tempo necessario per sistemare il casolare in cui abitava. A quanto sembra, però, si attende ancora un progetto di ristrutturazione della vecchia abitazione e in Comune a Palmoli non è stata ancora avviata alcuna procedura in merito. «Abbiamo fiducia nella magistratura, speriamo nel ricongiungimento, forniremo altri elementi utili, ma per ora non possiamo dire nulla», ha spiegato l’avvocato Solinas, assediata dai cronisti, all’ingresso del Tribunale per i minorenni dell’Aquila. «Stiamo lavorando bene», ha detto rispondendo alle domande dei giornalisti riferite alla strategia difensiva da attuare in udienza.
E anche all’uscita, i toni della Solinas e di Femminella erano distesi: «È stato un momento di colloquio, di confronto, di chiarimento e quindi di condivisione di un percorso. La decisione spetta al tribunale. L’udienza è il luogo deputato all’interlocuzione, al confronto è stata un’udienza assolutamente proficua, lunga. Si prospetta una proficua collaborazione». «Tra gli elementi che sono valutati in maniera positiva dal tribunale c’è sicuramente la disponibilità dei genitori in questi giorni», hanno aggiunto i due legali, che però non hanno potuto nemmeno ipotizzare quando i giudici scioglieranno la riserva. «Le tempistiche non le posso prevedere», ha risposto la Solinas ai cronisti. Non è chiaro, quindi, se la decisione del Tribunale dei minori arriverà prima o dopo quella della Corte d’appello.
Nelle due ore di udienza sono stati valutati su richiesta degli avvocati dei Trevallion i nuovi aspetti non conosciuti al momento dell’ordinanza di allontanamento del 20 novembre, questo per ottenere l’accoglimento della richiesta di ricongiungimento urgente per la famiglia, che sarà decisa nei prossimi giorni.
Intanto ieri il portavoce di Pro vita & famiglia, Jacopo Coghe, ha consegnato oltre 50.000 firme al ministero della Giustizia, raccolte dalla onlus con una petizione popolare rivolta al ministro Carlo Nordio per chiedere l’immediato ricongiungimento della famiglia Trevallion. «Il caso è diventato il simbolo di una deriva pericolosa, ovvero quando lo Stato, invece di sostenere i genitori, si sostituisce a loro. Così facendo calpesta il diritto dei minori a crescere con il proprio padre e la propria madre e lede il primato educativo che spetta alla famiglia», ha spiegato Coghe.
«In attesa di novità, speriamo positive, dall’udienza al Tribunale dei minori dell’Aquila di oggi pomeriggio (ieri, ndr)», aggiunge Coghe, «chiediamo al ministro Nordio di fare tutto quanto in suo potere affinché questa famiglia venga riunita e simili casi non si ripetano più. Non esiste tutela dei bambini senza rispetto dei loro genitori».
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La famiglia Trevallion-Birmingham
Il tribunale «si riserva» sul caso di Chieti. Ma il report dalla casa famiglia dice che i bambini nel bosco stavano benissimo coi genitori. Allora perché li hanno sottratti? Non è il giudice che decide qual è lo stile di vita «giusto».
Un amico mi chiede: ma il giudice che ha deciso di togliere i bambini ai legittimi genitori perché la casa in cui vivevano non ha luce né acqua corrente, lo sa che in America ci sono centinaia di migliaia di persone che vivono in quelle condizioni? Non si tratta di famiglie povere, che non hanno la possibilità di pagare la bolletta della luce o di allacciarsi all’acquedotto, ma di Amish, appartenenti a una comunità religiosa cristiana, che hanno scelto la vita semplice e rifiutano la tecnologia. Secondo gli ultimi dati, sono più di 300.000 e in 25 anni sono raddoppiati. Che facciamo con loro, gli togliamo i figli perché non guidano né auto né moto, ma si muovono su un calesse trainato dai cavalli e le loro mogli si vestono con delle lunghe sottane? Il mio amico insiste: a chi facciamo decidere se il progetto di vita che si sono scelti gli Amish e la famiglia Trevallion è sbagliato e il nostro è giusto? A un giudice?
Il ragionamento non fa una grinza: i bambini sottratti ai propri genitori non erano maltrattati ed erano in regola con il programma scolastico nonostante non frequentassero una scuola (proprio come gli Amish). Il loro unico «difetto» è che vivevano nel bosco, senza i servizi igienici dei loro coetanei a disposizione. Lasciamo perdere il fatto che molti italiani fino agli anni Sessanta, e alcuni anche dopo, sono cresciuti nelle stesse condizioni, ma se vale il principio che i bambini devono vivere in un’abitazione adeguata, che facciamo con i figli dei rom? Crescere in una baracca o in una roulotte senza servizi igienici è meglio che vivere in una casupola nel bosco? Se il problema è la qualità dell’alloggio, perché ai rom non tolgono i bimbi ma, anzi, servizi sociali e giudici li lasciano crescere in condizioni a dir poco precarie, senza tutele né istruzione? Tra le accuse che pare siano state mosse ai genitori dei piccoli c’è la mancata socializzazione. Ne deduco che, se i minori rom non vengono tolti ai rispettivi papà e mamma, ci sono assistenti sociali e giudici secondo cui vivere a fianco di chi ruba il portafogli o la catenina è un modo di socializzare.
Ho letto la relazione degli educatori della casa-famiglia di Vasto in cui, dal 20 novembre, vivono i bambini della famiglia Trevallion. A quanto ho capito, i minori sottratti per ordine del giudice ai legittimi genitori non mostrano affatto i segni di un degrado educativo o affettivo. Sono bambini normali, cresciuti con mamma e papà in mezzo al bosco. Sono stupiti dall’acqua corrente o dalla luce elettrica. E allora? Con la madre hanno un approccio sereno e con il padre pure. Quando lui li va a visitare porta con sé frutta, oggetti utili, piccoli pensieri per moglie e figli. E quando i bimbi rivedono il papà, «sono momenti di gioia autentica». «I figli lo accolgono con grande calore» e, dopo i saluti, tornano a giocare con naturalezza. «Una dinamica che suggerisce autonomia e assenza di quell’ansia da separazione tipica dei contesti traumatici». E allora, perché portarli via ai genitori? Perché vivono in una comunità neo rurale a cui l’opinione pubblica (o, forse, qualche assistente sociale e magistrato) non è abituata?
Ma chi decide quale progetto domestico sia giusto applicare? Chi, soprattutto, stabilisce se uno stile di vita debba essere distrutto perché non rientra nella norma? I quesiti non sono cosa da poco, perché aprono lo spazio a diverse riflessioni. Alle bambine che crescono in alcune comunità islamiche è consentita la socializzazione? E nel caso fossero costrette a vivere in un ambiente chiuso, che non si relaziona con bambine di altre culture, sarebbe giusto sottrarle ai genitori prima che si ripeta un caso Saman Abbas? Aggiungo anche questa ulteriore considerazione: dato che ci sono figli che crescono in ambienti malsani, non per via dei servizi igienici ma per la contiguità criminale, perché assistenti sociali e giudici non se ne occupano prima che qualche minorenne educato alla violenza accoltelli un coetaneo?
Le mie potrebbero sembrare provocazioni, ma non lo sono. Sono semplici osservazioni: se deleghiamo allo Stato la scelta di come e dove crescere i figli, la logica conseguenza è che i bimbi non saranno più nostri, ma dello Stato. Come in ogni regime.
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