Pechino, 24 ore dopo la decisione di Bruxelles di imporre nuove tariffe sui veicoli elettrici, apre un’inchiesta sui prodotti caseari europei, accusati di ricevere aiuti di Stato. Per l’export italiano danno da 300 milioni.
Pechino, 24 ore dopo la decisione di Bruxelles di imporre nuove tariffe sui veicoli elettrici, apre un’inchiesta sui prodotti caseari europei, accusati di ricevere aiuti di Stato. Per l’export italiano danno da 300 milioni.Come volevasi dimostrare: la Germania detta le condizioni, Bruxelles dispone e a pagare è l’agroalimentare italiano. Sono passate 24 ore da quando Ursula von der Leyen - il due volte presidente della Commissione europea che ha decretato lo stop ai motori diesel e benzina dal 2035 convinta che migliorerà il clima, ma anche il fatturato delle case tedesche, e ha finito per distruggere la prima industria europea, quella dell’auto - ha annunciato i dazi sulle macchine a pila cinesi e Pechino ha messo sotto inchiesta i prodotti lattiero-caseari europei. Significa l’applicazione di dazi per ritorsione come già è avvenuto sui salumi e le carni di maiale (la Cina è il primo importatore di suini), capaci di frenare il boom dei nostri prodotti. Con un balzo del 43% nelle importazioni di nostri formaggi Pechino ha scavalcato il Canada come quinto mercato (in totale la Cina compra dall’Italia prodotti alimentari di alta gamma per 560 milioni) fuori dall’Europa ed è dopo il Giappone il secondo nostro cliente in Asia. La botta per i nostri caseifici non è affatto trascurabile visto che su 5 miliardi di fatturato estero ne facciamo 1,5 fuori dai confini europei. Tra mozzarelle (è il formaggio più esportato), grana padano e parmigiano reggiano, Pechino compra poco meno di 300 milioni di euro: il 6% del nostro export in valore. Dopo i formaggi toccherà al vino.fuori mercato Pechino lo aveva lasciato intendere già dal marzo scorso quando a Bruxelles si erano accorti che le auto a pila cinesi avevano prezzi tali da mettere fuori mercato le vetture europee. Ursula von der Leyen ha cominciato a pensarci quando Volkswagen ha dichiarato che dei 160 miliardi che voleva investire nell’auto a pila 80 li avrebbe dirottati di nuovo sull’endotermico. Sul finire dello scorso anno Vw aveva bloccato la produzione a Emden e Mercedes, in questa primavera, ha annunciato una severa retromarcia sulle auto a batteria, mentre Porsche - che ha avuto un brusco calo nelle vendite dei modelli a pila - ha detto che non si adeguerà allo stop alla produzione di motori endotermici nel 2035. I dati di mercato peraltro sono impietosi: il 20% delle auto elettriche vendute è cinese. Adesso il gruppo Stellantis (ex Fiat di cui è presidente John Elkann), che continua a prolungare la cassa integrazione per migliaia di addetti negli stabilimenti italiani mentre negli Usa è attaccata duramente dai sindacati, importa le utilitarie del colosso Leapmotor invece di produrle. Di fronte a questi dati la baronessa Von der Leyen, che pur di avere i voti dei Verdi ha confermato che «il Green deal non si tocca», prova a mettere una pezza varando i dazi contro la Cina. A pagarli saranno i consumatori con i listini delle auto, i governi che aumentando le auto a pila in circolazione (peraltro foraggiate con i sussidi) non incassano le accise e l’agroalimentare. Bruxelles ha fatto uno sconto a Tesla (rischiava di pagare carissimo la sua produzione cinese riportata in Occidente, come tutti gli europei che fanno auto oltre la Muraglia) e ha rimodulato la prima proposta di dazi che oggi sono così articolati: 17% per le auto Byd, 19,3% su Geely, 36,3% per Saic. Questi «balzelli» limati appena al ribasso si aggiungono al 10% che grava già su tutto ciò che viene dalla Cina. Ad altri produttori che hanno buoni rapporti con l’Ue (sono tutti quelli che collaborano con le case tedesche) si applica un dazio medio del 21,3% mentre per i «cattivi» si arriva al 36,3%. La riposta di Pechino è stata immediata. Ha già fatto una denuncia al Wto (l’organizzazione del commercio mondiale) e ha messo sotto accusa i prodotti lattiero caseari sostenendo che godono di 20 diversi sostegni pubblici. L’istruttoria cinese può durare fino a un anno e per tutto questo tempo per i nostri formaggi quel mercato sarà di fatto chiuso. Va considerato che l’Ue è col 36% il secondo esportatore in Cina dopo la Nuova Zelanda di questi prodotti. Pechino compra soprattutto dall’Irlanda (420 milioni di euro lo scorso anno) ma l’Italia è il Paese che stava conquistando le maggiori fette di mercato ed è quarta dopo Germania e Francia nella fornitura. Con un particolare non trascurabile: Germania e Francia assorbono da sole un terzo dei fondi della Pac e quindi se la politica agricola comune è considerata dai cinesi aiuto di Stato e perciò contraria alle regole Wto noi italiani siamo penalizzati «alla terza»: stavamo vendendo bene i nostri formaggi prendendo meno soldi dalla Pac e senza avere alcun vantaggio dalla produzione di auto a pila. promesse vaneVa anche sottolineato che i nostri formaggi di punta (in Cina vendiamo soprattutto le Dop) sono ambasciatori di tutto l’agroalimentare di qualità italiano. Il vino ad esempio, che ha sofferto non poco, sta riprendendo: nel primo quadrimestre di quest’anno ha fatto +4% riportandosi sopra i 100 milioni di fatturato. Profetico al proposito è stato il presidente di Assolatte (l’associazione confindustriale del comparto lattiero caseario che vale 20 miliardi di fatturato) Paolo Zanetti che nelle scorse settimane, mettendo le mani avanti rispetto alla controffensiva cinese, ha dichiarato: «Veniamo colpiti spesso da contese commerciali che nulla hanno a che fare con noi: prima le sanzioni alla Russia, poi il contenzioso Usa-Ue per la faccenda di Boing contro Airbus, ancora l’India che blocca l’importazione di prodotti con caglio animale e ora i dazi con la Cina dove stavamo andando benissimo. Dovremmo forse vendere soltanto in Europa lasciando stare gli altri 7 miliardi e mezzo di persone? Purtroppo si vive di promesse vane».
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)
Il colonnello Melosu ha raccontato di non aver soddisfatto i desiderata dei carabinieri infedeli e della Procura di Pavia. Per questo sarebbe stato accusato di falso ideologico, subendo una perquisizione in tempi record.
Francesca Albanese (Ansa)
La special rapporteur dell’Onu sulla Palestina è diventata un brand, un fenomeno mediatico, la Nostra Signora dell’intifada. I suoi modi da maestrina spazientiscono anche la sinistra, mentre la verve anti israeliana la porta a inquietanti scivoloni.