
Il presidente di Exit Italia, che promuove l'eutanasia, è indagato per l'istigazione al suicidio in Svizzera di Alessandra Giordano. Alla Procura ha negato di averle suggerito come morire, ma alcuni documenti lo smentiscono. «Anche io volevo uccidermi, poi ho avuto paura».«Non fatemi passare per un boia». Emilio Coveri, accompagnato dal suo avvocato, due giorni fa ha imboccato mesto gli ampi corridoi del tribunale di Catania. E di fronte ai magistrati, che lo accusano dell'istigazione al suicidio di Alessandra Giordano, ha negato sperticatamente. È vero: lui è il presidente di Exit Italia, associazione per il diritto all'eutanasia. Conferma: ha avuto un lungo rapporto telefonico ed epistolare con l'insegnante siciliana. Ma con la morte di Alessandra non c'entra: «Le ho dato solo informazioni sul testamento biologico», giura.I magistrati, che hanno secretato l'interrogatorio, sono scettici. I documenti sequestrati confermerebbero le incongruenze di Coveri. La sua posizione non s'è alleggerita: «Determinava o comunque rafforzava il proposito di suicidio di Giordano Alessandra», recita il capo d'imputazione. La donna, 46 anni, è morta il 27 marzo 2019 nella clinica Dignitas di Zurigo. Suicidio assistito. Non era però una malata terminale, sostiene la procura di Catania. Era solo depressa. Anche se soffriva di una forte nevralgia: la sindrome di Eagle. Coveri l'avrebbe indotta ad associarsi a Exit. Coltivando un rapporto personale, durato dal 2017 al 2019. Telefonate, sms e mail: «Condotte accompagnate da sollecitazioni e argomentazioni in ordine alla legittimità, anche etica, della scelta suicidaria». Un mese fa, appena ricevuto l'avviso di garanzia, Coveri aveva quasi esultato: «Mi onoro di essere indagato, come Marco Cappato. Però io, a differenza sua, non ho fatto proprio nulla di eroico». Il riferimento è al politico radicale, vessillifero dell'eutanasia: due anni fa, aveva accompagnato Dj Fabo, cieco e tetraplegico, alla «dolce morte» nella clinica elvetica. Insomma: per il presidente di Exit l'avviso di garanzia era quasi una medaglia al valor civile.Due giorni fa, Coveri ha però perso ogni baldanza. «Gran parte delle persone che contattano l'associazione non stanno nemmeno male», premette ai magistrati catanesi. E Alessandra? «L'ho conosciuta nell'agosto 2017». Seguono, spiega, diverse telefonate. L'insegnante gli racconta delle sue sofferenze. Nasce «una sorta di confidenza». I contatti proseguono via mail. E, dopo sei mesi, la donna si iscrive a Exit. Preamboli. I pm arrivano al punto dirimente dell'inchiesta catanese. «Lei diceva di avere la sindrome di Eagle, grave e irreversibile. Mi sento di escludere che fosse depressa». Un'affermazione categorica, sconfessata però da una consulenza tecnica in mano alla Procura. La signora chiedeva lumi sul suicidio assistito, minimizza Coveri. Anche perché la sua famiglia era «assolutamente contraria a questa scelta». Difatti sarà proprio dalla denuncia dei fratelli e della sorella che partiranno le indagini. Alessandra, a loro insaputa, era partita per Zurigo. Loro l'avevano raggiunta. Per implorare Dignitas di fermarsi. Invano. Per i magistrati sarebbe stato proprio Coveri a suggerire la clinica. Il presidente di Exit nega. È stata Alessandra, chiarisce, a contattare la struttura. I pm non gli credono. Insistono. L'uomo non arretra: «Ribadisco che non mi sono mai permesso». Lui fornisce solo ragguagli, ripete. «Mi informava sulla sua salute. Ma non sono mai intervenuto per convincerla a porre fine alle sue sofferenze». Nessun suggerimento o sollecitazione. Una versione smentita, per la procura, da una copia della newsletter di Exit sequestrata a casa della donna. Un articolo scritto da Coveri, a gennaio 2018. Tema: le sofferenze dell'insegnante siciliana. Lei gli telefona a Natale: «Alessandra ha una malattia, e ultimamente ha dovuto smettere di lavorare. È sola e i suoi parenti non accettano che lei voglia andare a morire in Svizzera», annota. «La sua voce è meravigliosa e m'incanta, ma so bene che è ammalata». Aggiunge: «Andiamo avanti a parlare per tre quarti d'ora, dopo mi permette di spiegarle che cosa deve fare, appunto, per andare in Svizzera a morire in esilio, ma con estrema dignità». Alessandra appare però perplessa, lascia intendere Coveri. «Mette davanti il fatto che è credente. Io replico che pure mia moglie è cattolica, e anche un po' leccabalaustre. Ma entrambi ci si rispetta perché l'eutanasia significa decidere per se stessi! E non per altri». Un passaggio contestato nell'interrogatorio di martedì. Ma pure in questo caso, Coveri derubrica: «La mia era solo una battuta».Il seguito di quell'articolo sembra invece tutt'altro che ironico. Le pene di Alessandra, appunta il presidente di Exit, sono indicibili: «Non ha senso soffrire oltre misura». Lei avrebbe qualche titubanza. Ma il supplizio, chiarisce l'uomo, sopravanza la fede. «E quindi s'iscriverà a Exit e mi domanderà come dovrà fare per andare a morire dignitosamente. Terminiamo la conversazione e decidiamo di darci del tu». Il commiato di Coveri è entusiasta: «Sono felice quando metto giù la cornetta», giubila. «Sento che, ancora una volta, ha prevalso la mia teoria: quella che la vita è nostra, di nessun altro. Tanto meno di quel Dio che vuole farci soffrire inutilmente e di tutta la sua banda». Affermazioni che, per i magistrati, valicano le asettiche informazioni sul suicidio assistito: le unico che Coveri s'intesta. Gli mostrano pure le sue dichiarazioni a Repubblica dello scorso 7 luglio. «Abbiamo parlato tante volte, mi diceva che i suoi familiari non la aiutavano e io le ho suggerito: “Devi farlo da sola"». Ma la frase è sminuita dall'interessato. I magistrati sono perplessi. Coveri svicola persino sulle sue rodate relazioni con Dignitas. Ammette soltanto che, dal 1996 a oggi, molti suoi associati hanno scelto di morire nella clinica elvetica. Costo della pratica: diecimila franchi. Prima di venire accettati, bisogna però inviare la documentazione medica: per attestare le condizioni di salute. Gravi e irreversibili. Poi la direzione sanitaria della struttura valuta, caso per caso. Eppure, informa l'indagato, in oltre trent'anni, nemmeno un iscritto a Exit è stato rifiutato. Lui compreso. È quasi cieco. Ai pm rivela che, tempo fa, aveva deciso di morire alla Dignitas. Alla fine, ammette, gli era mancato il coraggio. E non si tratta certo di un malato terminale. Ma di un battagliero e indomito paladino della causa.Ipovedenti dunque, come Coveri. O depressi, come Alessandra. Qual è il limite della «dolce morte»? La Procura di Catania ha già la risposta: nessuno.
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