2019-08-24
Non si può far partire un governo parlando solo di tagli ai parlamentari
Giorni di negoziati incrociati, veti e controveti. Tutto per partorire mezzo accordo sulla potatura di deputati e senatori. Non è un buon viatico per un esecutivo che pretende di nascere per «mettere in sicurezza» l'Italia.Il governo M5s-Lega è stato interrotto dalla Lega - secondo Luigi Di Maio - «perché non voleva tagliare i parlamentari». Ora i grillini potrebbero fare un governo con il Pd - che per tre volte ha bocciato il taglio dei parlamentari inserito nel «contratto» con il Carroccio - ma sono disposti a mettersi al tavolo soltanto se il Pd accetta di tagliare i parlamentari. Matteo Renzi aveva detto di essere disposto anche a votare il taglio dei parlamentari precedentemente avversato pur di far nascere un governo con i 5 stelle, tuttavia il Pd aveva detto di no. Al che la Lega, per bocca di Matteo Salvini, aveva detto di essere in effetti disponibile a tagliare i parlamentari malgrado inizialmente avesse sfiduciato a parole il premier (facendo così saltare il calendario delle Camere), purché poi però si fosse andati alle urne. Linearmente, Luigi Di Maio ha iniziato una interlocuzione con il Pd purché si dichiarasse disposto a tagliare i parlamentari. Per inciso, al referendum promosso dal Pd nel 2016 che, tra molte altre e profonde questioni prevedeva anche il taglio dei parlamentari, il Movimento 5 stelle aveva votato «No», come la maggioranza degli italiani. Par di capire, in serata, che il partito di Nicola Zingaretti sia in effetti ora disponibile a tagliare i parlamentari, purché si ragioni sui tempi e anche sulla legge elettorale e su altre cose.A questo punto, l'osservatore meno distratto potrebbe essere colto dal leggero sospetto che l'argomento del taglio dei parlamentari sia vagamente strumentale. E che una riforma costituzionale che ridisegnerebbe la rappresentanza nel nostro Paese sia pressappoco carne da macello dietro cui celare più prosaiche trattative: sia tra Lega e M5s, sia tra M5s e Pd. Sta di fatto che lo schema di gioco per cui la priorità assoluta sia mettersi d'accordo sul taglio dei parlamentari - schema disegnato dalla posizione grillina da inizio agosto in poi - è stato sostanzialmente accettato, soprattutto nel varo dei tavoli di lavoro iniziati ieri e che culmineranno nelle consultazioni di martedì prossimo. È uno schema piuttosto sconfortante, e in contrasto con la narrativa di un governo - quello giallorosso - che potrebbe sorgere per «salvare il Paese», evitare l'irresponsabilità di una corsa alle urne, garantire una manovra che «metta in sicurezza i conti», eccetera eccetera. Per quanto il provvedimento del taglio dei parlamentari possa essere percepito come popolare (allora però le etichette di «populismo» andrebbero lestamente sostituite), è difficile immaginare che un esecutivo che affidi comunicativamente la sua genesi a questa presunta catarsi riesca a presentarsi come coeso quanto a visione del Paese.Il «contratto di governo», criticabilissimo e - come la realtà ha dimostrato - incapace di garantire da sé una navigazione tranquilla, aveva però il merito di aver affrontato molti punti, e toccato aspetti che rischiano di essere obliterati dai primi giorni di dialogo tra grillini e Partito democratico. Tasse, giustizia, autonomia: fin qui non si è sentito nulla (forse causa assenza streaming), se non una «premessa non negoziabile» lato Pd che si chiama fedeltà assoluta all'Unione europea. Vincolo che, tradotto in manovra, significa una tagliola assoluta sulla stragrande maggioranza degli interventi di «spesa sociale» apparentemente messi in conto nei vaghi punti di cui si è letto.C'è un'altra ragione, forse più rilevante, per cui una discussione fondativa di un possibile governo di legislatura non può sorgere parlando anzitutto e quasi esclusivamente di taglio dei parlamentari. Al netto del fascino dell'autopunizione della «casta», l'eventuale risparmio economico è dibattuto ma comunque di fatto irrilevante sul piano della finanza pubblica. Non è neppure lontanamente pensabile che costituisca una fonte realistica di reperimento delle risorse per finanziare altri interventi. Soprattutto, qual è il vero costo della politica? Sono gli stipendi degli onorevoli? O sono le conseguenze delle loro scelte e dei loro eventuali errori? È peggio garantire un migliaio di emolumenti o avere un Parlamento ancora più superficiale dei precedenti quando si tratta di deglutire provvedimenti come Fiscal compact o bail in salvo poi notare, con qualche anno di ritardo, che potrebbero aver contribuito a sbriciolare fiducia e tenuta del Paese? La partecipazione dell'Italia al cosiddetto Fondo salvastati è costata varie decine di miliardi (cioè almeno 100 volte in più rispetto alle più generose stime del valore del taglio dei parlamentari), stanziati di fatto con un solo passaggio d'Aula. Per usare un eufemismo, è stata una scelta affrettata. Ora tale meccanismo di finanziamento di uno strumento anticrisi è sottoposto a una profonda riforma in sede comunitaria, di cui le Camere non sono state praticamente informate. Come La Verità ha raccontato, ballano pacchi di miliardi che potrebbero spostarsi in lidi intangibili dalla politica e dalle scelte degli eletti. Sarebbe interessante che questi ultimi, a prescindere dal loro numero complessivo, avessero contezza su questi argomenti prima di pensare a tagliare sé stessi.