2021-11-07
Non c’è democrazia senza legami comunitari
Esce in Italia un nuovo libro del filosofo canadese Charles Taylor, che ha appena compiuto 90 anni. «Impossibile un governo repubblicano se manca la fiducia nella nostra identità collettiva. Lo spirito dominante ci vede come monadi, ma è un errore».Negli anni Ottanta, la filosofia politica nordamericana fece una scoperta che, in quel contesto, dovette apparire come rivoluzionaria: non basta una cornice minima di regole, qualche diritto individuale e un po' di libero mercato per far funzionare una società. Ci sono legami, identità, retaggi che devono essere riconosciuti pubblicamente. Era la sfida dei communitarians all'egemonia liberale. Il pensiero comunitarista sbarcò presto al di qua dell'Atlantico - Alain de Benoist, per esempio, se ne fece entusiasta divulgatore - anche se aveva a che fare con problematiche tipicamente americane. Non sorprendentemente, i pensatori comunitaristi non provenivano dal mondo Wasp, ma erano tutti «americani con il trattino»: Michael Sandel e Michael Walzer ebrei-americani, Alasdair MacIntyre scozzese-americano, Charles Taylor canadese del Québec. Proprio Taylor ha compiuto 90 anni venerdì e la casa editrice Marietti lo ha celebrato con Modernità al bivio, un libro che raccoglie tre scritti del pensatore, una intervista e una serie di interventi a lui dedicati. L'intervento portante, dedicato alla poetica romantica, non è così anodino come potrebbe sembrare. Per Taylor, i romantici vedono la natura non come qualcosa di inanimato, ma come un organismo in eterna evoluzione, nel quale si rispecchia l'evoluzione spirituale dell'uomo. Questo concetto, spiega il pensatore canadese, «si collega a un nuovo ideale di libertà come autorealizzazione, che va oltre il concetto di libertà negativa, libertà da, che è il modo in cui per lo più i moderni concepiscono la libertà». Andare oltre la libertà dei moderni (cioè la libertà negativa: meno costrizioni possibili, meno influenza del potere sulle nostre vite): questa potrebbe essere una buona definizione del comunitarismo. Le cui radici sono per l'appunto romantiche. Scrive Taylor: «In un certo senso l'intera “visione" romantica della libertà è ospitale verso una concezione dialogica. La libertà non consiste nel derivare ogni cosa da sé stessi, dall'Io inteso alla maniera fichtiana. La libertà è una risposta collaborativa: è come dire la propria in una conversazione». È un punto cruciale, in cui Taylor non sta semplicemente illustrando la visione dei romantici, ma anche la propria, come sa chi l'abbia seguito nelle altre sue opere. Ne Il disagio della modernità, per esempio, scriveva: «Nessuno acquisisce da solo i linguaggi necessari per l'autodefinizione. Essi ci vengono presentati attraverso scambi con gli altri che contano per noi - quelli che George Herbert Mead chiamava “altri significativi". La genesi della mente umana è in questo senso non “monologica", qualcosa che ciascuno realizza per proprio conto, ma dialogica». E in Multiculturalismo, battagliando con Jürgen Habermas, se la prendeva con «l'orientamento prepotentemente monologico della filosofia moderna»: «Noi definiamo sempre la nostra identità dialogando, e qualche volta lottando, con le cose che gli altri significativi vogliono vedere in noi; e anche dopo che ci emancipiamo da questi altri - per esempio dai genitori - ed essi scompaiono dalla nostra vita, la conversazione con loro continua, dentro di noi, finché esistiamo». Taylor non si richiama al dialogo immaginando che la vita sia un talk show, ovviamente. Dialogo sta qui per legame, relazione, nesso con l'altro. Significa che noi siamo anche e sempre degli eredi. Non solo quello, perché abbiamo la facoltà di cercare la nostra strada autonomamente, ma senza emanciparci mai del tutto da una rete di connessioni comunitarie. Il pensiero liberale ha pensato l'uomo come monade, isolato dalle identità collettive, immaginando all'origine della vita associata quelle che Karl Marx chiamava «le robinsonate». E invece aveva ragione Giovanni Gentile: «In fondo all'io c'è un noi». Il fatto di situarsi in questa tradizione di pensiero, beninteso, non fa di Taylor un sovranista. Nell'intervista riportata nel volume, il filosofo canadese spiega che le ricette di leader come Trump o Orbán sono per lui «completamente sbagliate», ma ragionando sul consenso di cui godono tali politici dice che «ritengo che sia nostro dovere provare a capire il motivo di tutto ciò e non limitarci a giudicare o deplorare la situazione». Il filosofo fa esplicitamente il nome di Hillary Clinton, pensando probabilmente al suo scivolone sugli elettori «deplorevoli». Alla domanda dell'intervistatore, che chiede: «Lo stesso revival della sovranità nazionale è spiegabile secondo te come una reazione giustificata alla sottovalutazione dei bisogni politici di sicurezza, solidarietà, comunità?», Taylor risponde: «Certo che lo penso, come potrei non pensarlo?». E torna al dibattito degli anni Ottanta tra comunitaristi e liberali: «In quegli anni l'idea che mi premeva far passare era che gli esseri umani non sono primariamente degli individui isolati, che hanno cioè sempre legami comunitari, che possono essere legami con la famiglia di sangue o con un gruppo più ristretto della società nel suo complesso, ma nella maggior parte dei casi sono legami sociali con una comunità politica con cui si identificano e che rappresenta una parte importante della loro identità. Senza tutto ciò, una democrazia è semplicemente impossibile. Detto altrimenti, non puoi avere l'autogoverno repubblicano in nessuna sua forma se viene meno questo genere di commitment, di forte vincolo di lealtà. […] Detto in uno slogan, dev'esserci fiducia nella nostra identità comune. Se manca la fiducia, la democrazia decade».