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2019-10-07
Macché malato
. Quell’assassino è solo uno dei tanti immigrati violenti
Ansa
Un extracomunitario ammazza due poliziotti e ne ferisce un terzo, poteva farne fuori una decina in questura a Trieste se i colpi sparati fossero andati tutti a segno. Eppure per giustificarlo si dice che avesse problemi psichici. Alejandro Stephen Meran, accusato di duplice omicidio e 8 tentati omicidi, sapeva però usare una pistola, non ha avuto incertezze nello svuotare il caricatore contro gli agenti Matteo Demenego e Pierluigi Rotta. La Procura di Trieste è stata chiara: «Non risulta in atti alcuna traccia di visite specialistiche fatte in Italia». Non emergerebbe documentazione nemmeno di controlli fatti in Germania, dove il dominicano aveva vissuto con i familiari. Quando abitavano nel Bellunese, il fratello Carlysle Meran era stato denunciato perché aveva una scimitarra.
Poche ore dopo il massacro di Trieste, un giudice ha scarcerato il russo che aveva aggredito due agenti a Cecina mandandoli in ospedale: per lui, che fino all'ultimo continuava a sputare e a inveire contro i poliziotti, solo l'obbligo di firma in commissariato con orario da concordare perché non abbia problemi sul luogo di lavoro.
Oltre alle forze dell'ordine, ogni giorno in Italia dipendenti pubblici subiscono aggressioni sul posto di lavoro. Vengono insultati, minacciati, si prendono pugni, calci, coltellate mentre guidano autobus, sorvegliano treni, pattugliano il territorio o cercano di garantire la sicurezza di aeroporti, banche, centri commerciali, con un'uniforme che non basta a proteggerli. Sono presi di mira quando combattono come medici e infermieri nella trincea dei Pronto soccorso, presi d'assalto da utenti che disprezzano il loro camice. Al bollettino quotidiano di queste violenze rischiamo di diventare indifferenti, quasi fossero «incidenti inevitabili» per chi si guadagna da vivere a diretto contatto con un'utenza sempre più insofferente, rabbiosa, violenta. Molti soprusi sono compiuti da irregolari, nello spregio di norme che nemmeno vogliono conoscere e rispettare. Venerdì il capo della Polizia Franco Gabrielli ha dichiarato che negli ultimi anni c'è stato «un aumento degli stranieri coinvolti, tra arrestati e denunciati». Nel 2016 la percentuale era del 29,2%, nel 2017 «è salita al 29,8%, l'anno dopo al 32% e nei primi nove mesi del 2019 il trend è lo stesso, poco sotto il 32%. Il fatto che gli stranieri presenti nel nostro Paese, tra regolari e no, sono il 12%, dà la misura del problema», sottolineava Gabrielli. Dopo i due agenti freddati nella Questura di Trieste, sale a 7 il numero degli uomini delle forze dell'ordine uccisi da inizio anno: 4 poliziotti e 3 carabinieri.
Altre persone indifese sono in prima linea contro quest'ondata di violenza. Il personale sanitario denuncia da tempo le quotidiane aggressioni contro infermieri e dottori. A un sondaggio 2018 dell'Anaao, il sindacato dei medici italiani, circa il 65% dei 1.280 partecipanti ha risposto di esserne stato vittima. Di questi, il 66,19% riferiva aggressioni verbali mentre il 33,81% aggressioni fisiche. Non era specificata la nazionalità dell'aggressore ma per il sindacato, che sta preparando i dati 2019, si tratta di percentuali preoccupanti. La cronaca delle violenze in ospedale si sofferma solo su quelle più efferate, come i calci e i pugni sferrati contro un portantino del Policlinico Umberto I di Roma da un nigeriano che era stato appena scarcerato e doveva essere espulso. O le minacce ai medici dei Pronto soccorso di Bari, di Piacenza, di Latina, di Parma (l'elenco è lungo) da parte di stranieri ubriachi, che pretendono di dormire in ospedale, di essere curati prima degli altri e davanti a un rifiuto diventano delle furie. La maggior parte delle aggressioni, però, rimane sconosciuta perché, come testimonia uno dei medici che abbiamo sentito, le aziende sanitarie scoraggiano i dipendenti dal fare denunce. Non vogliono pubblicità negative. Un atteggiamento che accomuna le aziende di trasporto pubblico e le Ferrovie dello Stato. Lasciano trapelare solo gli episodi ritenuti più gravi: l'extracomunitario che prende a pugni e schiaffi il capotreno o il conducente di bus, l'irregolare che dà di matto tra i passeggeri. Le prepotenze, gli spintoni, le violenze verbali, le offese, i soprusi se li devono smaltire i dipendenti nella giungla cittadina. Non ultimi tra le vittime di aggressioni, le guardie giurate scontano anche la scarsa considerazione di cui godono. Come leggerete da una testimonianza, ogni giorno sono prese di mira in tutta Italia ma non fanno notizia se manca il morto. A fronte di tutta questa escalation di violenza, manca un database nazionale. Quasi tutte le categorie sindacali interpellate non sanno fornire numeri sugli aggressori e sulla loro nazionalità. Anche questo è un dato preoccupante.
«Assalti aumentati del 60%. E ci danno pure dei razzisti»
A parlare è un medico del Pronto soccorso di un grande ospedale dell'Emilia Romagna. Lavora in prima linea da 25 anni, ultimamente la situazione è diventata ingestibile. «Arrivano al triage migranti senza fissa dimora, dopo aver chiamato una decina di volte le ambulanze. Vengono per dormire, carichi di alcol e di sostanze stupefacenti e basta un nonnulla per scatenare l'aggressione. Poi ci sono quelli che lavorano, hanno famiglia ma hanno ancora meno pazienza degli italiani a sopportare i tempi d'attesa per accedere alle cure. Gli esigenti, non li chiamo più pazienti, leggono che i tempi massimi di un codice verde per la presa in carico sono quattro ore, mentre di regola sono anche più di otto ore perché mancano personale, posti letto e i medici di famiglia che non rispondono al telefono, non visitano a domicilio e continuano a scaricarci pazienti al Pronto soccorso. Non vogliono aspettare, gli extracomunitari, pretendono di essere visitati subito. Danno in escandescenze. Gli insulti tipo “razzisti di m.", “siete come Salvini" sono all'ordine del giorno e sono cresciuti del 100%».
Prosegue il medico, di cui non riveliamo l'identità per non creargli problemi in ambito ospedaliero: «Adesso che esce il nuovo, quinto, codice azzurrino che segnala “problema non urgente o di minima rilevanza clinica", quindi tempi di attesa ancora più lunghi, immagino quali reazioni dovremo aspettarci. Ne faremo le spese noi medici e gli infermieri».
Molti extracomunitari non accettano il personale femminile, reagiscono con violenza alla loro presenza. «Un'infermiera colpita con un calcio alla pancia da un migrante integrato nel nostro territorio, solo perché gli aveva detto che c'era da aspettare, non l'ha denunciato, ha avuto paura», racconta il sanitario. «Come conseguenza ha subìto una grave depressione, ha dovuto lasciare il Pronto soccorso e andare a lavorare in un altro reparto. Non sono episodi isolati, si stanno moltiplicando. Da un po' di tempo vengono registrati su un “quadernone" secondo un protocollo interno, ma le denunce sono una minima parte di quello che accade nelle strutture ospedaliere».
Già nell'Indagine nazionale 2016 sulla violenza verso infermieri di Pronto soccorso, promossa dall'Università degli studi di Firenze, oltre la metà degli infermieri di emergenza (57,0%) evidenziava la mancanza di procedure aziendali per la segnalazione degli atti di violenza. La precisazione «sono più gli irregolari a compiere aggressioni» viene confermata, non ufficialmente, in diversi altri Pronto soccorso del Nord Italia, da dove decine di medici se ne vanno: «Nessuno vuole lavorarci perché i ritmi sono massacranti, si viene oltraggiati e denunciati», spiega il nostro interlocutore. «Non abbiamo nemmeno la polizia in ospedale, solo un vigilante che non ha alcun potere».
Autobus e treni pericolosi. Molti episodi mai denunciati
Dall'ultimo incontro delle Ferrovie dello Stato con le organizzazioni sindacali, è emerso che tra gennaio e agosto 2019 sui treni italiani sono avvenute 240 aggressioni fisiche e verbali. Dati sulla nazionalità degli autori di queste violenze non si conoscono, o non vengono forniti «perché non cambia nulla per i lavoratori aggrediti», puntualizza un sindacato di categoria. Certo, ma se aumentano i reati commessi da stranieri, se «uno su tre fra arrestati e denunciati non è italiano», come ha dichiarato il capo della polizia, Franco Gabrielli, magari a chi viaggia su rotaia interessa sapere perché le linee regionali non sono più così sicure.
Colpa di italiani divenuti violenti e pericolosi, o gli irregolari sbarcati in questo Paese si sentono liberi di viaggiare su nostri treni e autobus senza pagare il biglietto, reagendo come bestie se qualcuno li richiama all'ordine? In un sondaggio sul servizio ferroviario di Trenitalia in Piemonte, lo scorso mese si leggeva che «le stazioni vengono percepite ancora come luoghi di degrado e pericolosi. Sono inoltre in aumento le aggressioni nei confronti del personale ferroviario».
Dal poliziotto picchiato da un gruppo di dieci nigeriani, dopo essere intervenuto in aiuto di un capotreno sulla Milano-Lecco, alla ragazza molestata sulla stessa linea da un ivoriano le che le mostrava la foto dei genitali sul cellulare. Dall'extracomunitario privo di biglietto che sul treno diretto a Bari prende a pugni il capotreno e un agente di polizia in borghese, ai tre marocchini fatti scendere alla stazione ferroviaria di Tortona, in provincia di Alessandria, perché volevano viaggiare gratis e che si sono vendicati pestando due ragazzi nei pressi della stazione, la cronaca delle aggressioni assume toni sempre più cupi. Testate, morsi, schiaffi durante i controlli dei documenti di viaggio o per aver rimproverato passeggeri che bivaccavano e disturbavano, sono solo alcuni degli episodi che si registrano sulle varie tratte. Molti non vengono denunciati perché non costituiscono reato, ma tolgono tranquillità ai pendolari e al personale ferroviario.
La Regione Toscana ha appena stanziato 1.400.000 euro per aumentare la sicurezza di chi viaggia e di chi lavora su treni e autobus. Gli agenti a bordo treno saranno autorizzati a intervenire non solo in caso di reati veri, ma anche in situazioni spiacevoli per i passeggeri. Basta un nulla per scatenare reazioni inconsulte e questo mette paura a chi deve viaggiare. Pure sugli autobus. Le aziende presenti sul territorio nazionale non hanno messo insieme dati utili per comprendere il fenomeno. L'Atac di Roma riferisce quasi 200 aggressioni denunciate da inizio anno, ma secondo i dipendenti dell'azienda di trasporti capitolina gli atti violenti sui bus sono molti di più. Secondo l'Atm, nel 2018 a Milano ci sono furono 59 aggressioni a dipendenti dei mezzi pubblici. Nei racconti dei conducenti di bus e tram, la situazione soprattutto di sera e di notte è ben diversa e più preoccupante.
«C’è un crescendo allarmante. Gli irregolari restano impuniti»
Stefano Paoloni, segretario generale del Sap, il sindacato autonomo di polizia, non aspetta dati centralizzati. Con un occhio alle denunce dei suoi associati, l'altro pronto a registrare fatti di cronaca, segnala che dal primo giugno al 4 ottobre di quest'anno, su 184 episodi di violenza nei confronti delle forze dell'ordine, 138 (il 75%) ha avuto come protagonisti stranieri irregolari. Gli uomini in divisa rimasti feriti sono stati 328. Due i morti. I dati raccolti si riferiscono a episodi che hanno coinvolto carabinieri, polizia, vigili urbani.
«Abbiamo iniziato a contare le aggressioni perché l'escalation è preoccupante e comune denominatore di chi commette violenza è la consapevolezza di restare impuniti», dichiara Paoloni. «Negli ultimi 15 anni, la persona che si rende responsabile di resistenza, oltraggio, violenza a pubblico ufficiale non viene condannata a più di otto mesi di carcere e nemmeno sconta un giorno di galera». Oltre all'impunità, che rende gli aggressori più violenti e incontrollati, c'è la penuria di mezzi in dotazione agli agenti in divisa a esasperare la situazione delle forze dell'ordine. «Non sono adeguati al servizio che dobbiamo svolgere. Dobbiamo pattugliare il territorio, facendo opera di controllo, prevenzione e contrasto, indossando una tuta di servizio non ignifuga. Non abbiamo corpetti protettivi, guanti anti taglio. Nemmeno pistole a impulsi elettrici, dal momento che è finita la sperimentazione del Taser e stiamo ancora aspettando il bando d'appalto».
Nel rapporto 2018, l'Associazione sostenitori ed amici della polizia stradale (Asaps) registrava: «Rimane molto preoccupante la percentuale degli stranieri protagonisti delle aggressioni: 1.264 gli episodi che li hanno visti protagonisti (47,8%), in incremento rispetto al 2017 quando la percentuale fu del 45,7%». Lo scorso anno, quando Gino Strada aveva definito «sbirri» le forze dell'ordine schierate sulle nostre coste prese d'assalto dagli irregolari, Paoloni aveva reagito ricordando al fondatore di Emergency come uomini e donne in divisa siano «impegnati da anni in Sicilia a fornire aiuti umanitari durante gli sbarchi». Oggi puntualizza: «Il nostro primo obiettivo è garantire la sicurezza. Poi svolgiamo il nostro lavoro con rischio, dedizione, umanità, per garantire una convivenza civile a tutti i cittadini nel rispetto della legge e dei valori democratici e soprattutto, senza guardare al colore politico del governo in carica, né al colore della pelle di chi stiamo aiutando. Rischiamo di contrarre malattie contagiose e di portarle a casa dove possiamo avere figli piccoli. O di doverci curare con antibiotici per mesi. Se il governo vuole mettere in discussione il decreto Sicurezza bis, che non archivia più il procedimento penale per oltraggio e resistenza e offre garanzie funzionali per poter esercitare la nostra professione, o se qualcuno in modo spregiativo pensa che il nostro sia un atteggiamento di abuso, ha sbagliato obiettivo. I delinquenti sono altri».
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Non è un pazzo, come vogliono farci credere: il dominicano che a Trieste ha sparato a 10 agenti uccidendone due è lucido e consapevole. È solo uno dei tanti clandestini violenti che minacciano la nostra vita. Franco Gabrielli, capo della polizia, conferma: un terzo di tutti i reati in Italia viene commesso da loro.Parla un medico del pronto soccorso: «Negli ultimi tre anni le aggressioni da parte di extracomunitari nel mio reparto sono aumentate del 60%, ma pochissime vengono denunciate. Le aziende sanitarie non vogliono finire sui giornali e ci chiedono di lasciar perdere».Dall'ultimo incontro delle Ferrovie dello Stato con le organizzazioni sindacali, è emerso che tra gennaio e agosto 2019 sui treni italiani sono avvenute 240 aggressioni fisiche e verbali. Dal primo giugno al 4 ottobre di quest'anno, su 184 episodi di violenza nei confronti delle forze dell'ordine, 138 (il 75%) ha avuto come protagonisti stranieri irregolari.Lo speciale contiene quattro articoliUn extracomunitario ammazza due poliziotti e ne ferisce un terzo, poteva farne fuori una decina in questura a Trieste se i colpi sparati fossero andati tutti a segno. Eppure per giustificarlo si dice che avesse problemi psichici. Alejandro Stephen Meran, accusato di duplice omicidio e 8 tentati omicidi, sapeva però usare una pistola, non ha avuto incertezze nello svuotare il caricatore contro gli agenti Matteo Demenego e Pierluigi Rotta. La Procura di Trieste è stata chiara: «Non risulta in atti alcuna traccia di visite specialistiche fatte in Italia». Non emergerebbe documentazione nemmeno di controlli fatti in Germania, dove il dominicano aveva vissuto con i familiari. Quando abitavano nel Bellunese, il fratello Carlysle Meran era stato denunciato perché aveva una scimitarra.Poche ore dopo il massacro di Trieste, un giudice ha scarcerato il russo che aveva aggredito due agenti a Cecina mandandoli in ospedale: per lui, che fino all'ultimo continuava a sputare e a inveire contro i poliziotti, solo l'obbligo di firma in commissariato con orario da concordare perché non abbia problemi sul luogo di lavoro. Oltre alle forze dell'ordine, ogni giorno in Italia dipendenti pubblici subiscono aggressioni sul posto di lavoro. Vengono insultati, minacciati, si prendono pugni, calci, coltellate mentre guidano autobus, sorvegliano treni, pattugliano il territorio o cercano di garantire la sicurezza di aeroporti, banche, centri commerciali, con un'uniforme che non basta a proteggerli. Sono presi di mira quando combattono come medici e infermieri nella trincea dei Pronto soccorso, presi d'assalto da utenti che disprezzano il loro camice. Al bollettino quotidiano di queste violenze rischiamo di diventare indifferenti, quasi fossero «incidenti inevitabili» per chi si guadagna da vivere a diretto contatto con un'utenza sempre più insofferente, rabbiosa, violenta. Molti soprusi sono compiuti da irregolari, nello spregio di norme che nemmeno vogliono conoscere e rispettare. Venerdì il capo della Polizia Franco Gabrielli ha dichiarato che negli ultimi anni c'è stato «un aumento degli stranieri coinvolti, tra arrestati e denunciati». Nel 2016 la percentuale era del 29,2%, nel 2017 «è salita al 29,8%, l'anno dopo al 32% e nei primi nove mesi del 2019 il trend è lo stesso, poco sotto il 32%. Il fatto che gli stranieri presenti nel nostro Paese, tra regolari e no, sono il 12%, dà la misura del problema», sottolineava Gabrielli. Dopo i due agenti freddati nella Questura di Trieste, sale a 7 il numero degli uomini delle forze dell'ordine uccisi da inizio anno: 4 poliziotti e 3 carabinieri. Altre persone indifese sono in prima linea contro quest'ondata di violenza. Il personale sanitario denuncia da tempo le quotidiane aggressioni contro infermieri e dottori. A un sondaggio 2018 dell'Anaao, il sindacato dei medici italiani, circa il 65% dei 1.280 partecipanti ha risposto di esserne stato vittima. Di questi, il 66,19% riferiva aggressioni verbali mentre il 33,81% aggressioni fisiche. Non era specificata la nazionalità dell'aggressore ma per il sindacato, che sta preparando i dati 2019, si tratta di percentuali preoccupanti. La cronaca delle violenze in ospedale si sofferma solo su quelle più efferate, come i calci e i pugni sferrati contro un portantino del Policlinico Umberto I di Roma da un nigeriano che era stato appena scarcerato e doveva essere espulso. O le minacce ai medici dei Pronto soccorso di Bari, di Piacenza, di Latina, di Parma (l'elenco è lungo) da parte di stranieri ubriachi, che pretendono di dormire in ospedale, di essere curati prima degli altri e davanti a un rifiuto diventano delle furie. La maggior parte delle aggressioni, però, rimane sconosciuta perché, come testimonia uno dei medici che abbiamo sentito, le aziende sanitarie scoraggiano i dipendenti dal fare denunce. Non vogliono pubblicità negative. Un atteggiamento che accomuna le aziende di trasporto pubblico e le Ferrovie dello Stato. Lasciano trapelare solo gli episodi ritenuti più gravi: l'extracomunitario che prende a pugni e schiaffi il capotreno o il conducente di bus, l'irregolare che dà di matto tra i passeggeri. Le prepotenze, gli spintoni, le violenze verbali, le offese, i soprusi se li devono smaltire i dipendenti nella giungla cittadina. Non ultimi tra le vittime di aggressioni, le guardie giurate scontano anche la scarsa considerazione di cui godono. Come leggerete da una testimonianza, ogni giorno sono prese di mira in tutta Italia ma non fanno notizia se manca il morto. A fronte di tutta questa escalation di violenza, manca un database nazionale. Quasi tutte le categorie sindacali interpellate non sanno fornire numeri sugli aggressori e sulla loro nazionalità. Anche questo è un dato preoccupante.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/noi-vittime-degli-immigrati-violenti-2640870494.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="assalti-aumentati-del-60-e-ci-danno-pure-dei-razzisti" data-post-id="2640870494" data-published-at="1766773317" data-use-pagination="False"> «Assalti aumentati del 60%. E ci danno pure dei razzisti» A parlare è un medico del Pronto soccorso di un grande ospedale dell'Emilia Romagna. Lavora in prima linea da 25 anni, ultimamente la situazione è diventata ingestibile. «Arrivano al triage migranti senza fissa dimora, dopo aver chiamato una decina di volte le ambulanze. Vengono per dormire, carichi di alcol e di sostanze stupefacenti e basta un nonnulla per scatenare l'aggressione. Poi ci sono quelli che lavorano, hanno famiglia ma hanno ancora meno pazienza degli italiani a sopportare i tempi d'attesa per accedere alle cure. Gli esigenti, non li chiamo più pazienti, leggono che i tempi massimi di un codice verde per la presa in carico sono quattro ore, mentre di regola sono anche più di otto ore perché mancano personale, posti letto e i medici di famiglia che non rispondono al telefono, non visitano a domicilio e continuano a scaricarci pazienti al Pronto soccorso. Non vogliono aspettare, gli extracomunitari, pretendono di essere visitati subito. Danno in escandescenze. Gli insulti tipo “razzisti di m.", “siete come Salvini" sono all'ordine del giorno e sono cresciuti del 100%». Prosegue il medico, di cui non riveliamo l'identità per non creargli problemi in ambito ospedaliero: «Adesso che esce il nuovo, quinto, codice azzurrino che segnala “problema non urgente o di minima rilevanza clinica", quindi tempi di attesa ancora più lunghi, immagino quali reazioni dovremo aspettarci. Ne faremo le spese noi medici e gli infermieri». Molti extracomunitari non accettano il personale femminile, reagiscono con violenza alla loro presenza. «Un'infermiera colpita con un calcio alla pancia da un migrante integrato nel nostro territorio, solo perché gli aveva detto che c'era da aspettare, non l'ha denunciato, ha avuto paura», racconta il sanitario. «Come conseguenza ha subìto una grave depressione, ha dovuto lasciare il Pronto soccorso e andare a lavorare in un altro reparto. Non sono episodi isolati, si stanno moltiplicando. Da un po' di tempo vengono registrati su un “quadernone" secondo un protocollo interno, ma le denunce sono una minima parte di quello che accade nelle strutture ospedaliere». Già nell'Indagine nazionale 2016 sulla violenza verso infermieri di Pronto soccorso, promossa dall'Università degli studi di Firenze, oltre la metà degli infermieri di emergenza (57,0%) evidenziava la mancanza di procedure aziendali per la segnalazione degli atti di violenza. La precisazione «sono più gli irregolari a compiere aggressioni» viene confermata, non ufficialmente, in diversi altri Pronto soccorso del Nord Italia, da dove decine di medici se ne vanno: «Nessuno vuole lavorarci perché i ritmi sono massacranti, si viene oltraggiati e denunciati», spiega il nostro interlocutore. «Non abbiamo nemmeno la polizia in ospedale, solo un vigilante che non ha alcun potere». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/noi-vittime-degli-immigrati-violenti-2640870494.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="autobus-e-treni-pericolosi-molti-episodi-mai-denunciati" data-post-id="2640870494" data-published-at="1766773317" data-use-pagination="False"> Autobus e treni pericolosi. 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In un sondaggio sul servizio ferroviario di Trenitalia in Piemonte, lo scorso mese si leggeva che «le stazioni vengono percepite ancora come luoghi di degrado e pericolosi. Sono inoltre in aumento le aggressioni nei confronti del personale ferroviario». Dal poliziotto picchiato da un gruppo di dieci nigeriani, dopo essere intervenuto in aiuto di un capotreno sulla Milano-Lecco, alla ragazza molestata sulla stessa linea da un ivoriano le che le mostrava la foto dei genitali sul cellulare. Dall'extracomunitario privo di biglietto che sul treno diretto a Bari prende a pugni il capotreno e un agente di polizia in borghese, ai tre marocchini fatti scendere alla stazione ferroviaria di Tortona, in provincia di Alessandria, perché volevano viaggiare gratis e che si sono vendicati pestando due ragazzi nei pressi della stazione, la cronaca delle aggressioni assume toni sempre più cupi. Testate, morsi, schiaffi durante i controlli dei documenti di viaggio o per aver rimproverato passeggeri che bivaccavano e disturbavano, sono solo alcuni degli episodi che si registrano sulle varie tratte. Molti non vengono denunciati perché non costituiscono reato, ma tolgono tranquillità ai pendolari e al personale ferroviario. La Regione Toscana ha appena stanziato 1.400.000 euro per aumentare la sicurezza di chi viaggia e di chi lavora su treni e autobus. Gli agenti a bordo treno saranno autorizzati a intervenire non solo in caso di reati veri, ma anche in situazioni spiacevoli per i passeggeri. Basta un nulla per scatenare reazioni inconsulte e questo mette paura a chi deve viaggiare. Pure sugli autobus. Le aziende presenti sul territorio nazionale non hanno messo insieme dati utili per comprendere il fenomeno. L'Atac di Roma riferisce quasi 200 aggressioni denunciate da inizio anno, ma secondo i dipendenti dell'azienda di trasporti capitolina gli atti violenti sui bus sono molti di più. Secondo l'Atm, nel 2018 a Milano ci sono furono 59 aggressioni a dipendenti dei mezzi pubblici. Nei racconti dei conducenti di bus e tram, la situazione soprattutto di sera e di notte è ben diversa e più preoccupante. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/noi-vittime-degli-immigrati-violenti-2640870494.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="ce-un-crescendo-allarmante-gli-irregolari-restano-impuniti" data-post-id="2640870494" data-published-at="1766773317" data-use-pagination="False"> «C’è un crescendo allarmante. Gli irregolari restano impuniti» Stefano Paoloni, segretario generale del Sap, il sindacato autonomo di polizia, non aspetta dati centralizzati. Con un occhio alle denunce dei suoi associati, l'altro pronto a registrare fatti di cronaca, segnala che dal primo giugno al 4 ottobre di quest'anno, su 184 episodi di violenza nei confronti delle forze dell'ordine, 138 (il 75%) ha avuto come protagonisti stranieri irregolari. Gli uomini in divisa rimasti feriti sono stati 328. Due i morti. I dati raccolti si riferiscono a episodi che hanno coinvolto carabinieri, polizia, vigili urbani. «Abbiamo iniziato a contare le aggressioni perché l'escalation è preoccupante e comune denominatore di chi commette violenza è la consapevolezza di restare impuniti», dichiara Paoloni. «Negli ultimi 15 anni, la persona che si rende responsabile di resistenza, oltraggio, violenza a pubblico ufficiale non viene condannata a più di otto mesi di carcere e nemmeno sconta un giorno di galera». Oltre all'impunità, che rende gli aggressori più violenti e incontrollati, c'è la penuria di mezzi in dotazione agli agenti in divisa a esasperare la situazione delle forze dell'ordine. «Non sono adeguati al servizio che dobbiamo svolgere. Dobbiamo pattugliare il territorio, facendo opera di controllo, prevenzione e contrasto, indossando una tuta di servizio non ignifuga. Non abbiamo corpetti protettivi, guanti anti taglio. Nemmeno pistole a impulsi elettrici, dal momento che è finita la sperimentazione del Taser e stiamo ancora aspettando il bando d'appalto». Nel rapporto 2018, l'Associazione sostenitori ed amici della polizia stradale (Asaps) registrava: «Rimane molto preoccupante la percentuale degli stranieri protagonisti delle aggressioni: 1.264 gli episodi che li hanno visti protagonisti (47,8%), in incremento rispetto al 2017 quando la percentuale fu del 45,7%». Lo scorso anno, quando Gino Strada aveva definito «sbirri» le forze dell'ordine schierate sulle nostre coste prese d'assalto dagli irregolari, Paoloni aveva reagito ricordando al fondatore di Emergency come uomini e donne in divisa siano «impegnati da anni in Sicilia a fornire aiuti umanitari durante gli sbarchi». Oggi puntualizza: «Il nostro primo obiettivo è garantire la sicurezza. Poi svolgiamo il nostro lavoro con rischio, dedizione, umanità, per garantire una convivenza civile a tutti i cittadini nel rispetto della legge e dei valori democratici e soprattutto, senza guardare al colore politico del governo in carica, né al colore della pelle di chi stiamo aiutando. Rischiamo di contrarre malattie contagiose e di portarle a casa dove possiamo avere figli piccoli. O di doverci curare con antibiotici per mesi. Se il governo vuole mettere in discussione il decreto Sicurezza bis, che non archivia più il procedimento penale per oltraggio e resistenza e offre garanzie funzionali per poter esercitare la nostra professione, o se qualcuno in modo spregiativo pensa che il nostro sia un atteggiamento di abuso, ha sbagliato obiettivo. I delinquenti sono altri».
Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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Secondo i calcoli di Facile.it, il 2025 si chiuderà con un calo di circa 50 euro per la rata mensile di un mutuo variabile standard, scesa da 666 euro di inizio anno a circa 617 euro. Un movimento coerente con il progressivo rientro delle componenti di costo indicizzate (Euribor) e con l’aspettativa di stabilizzazione di breve periodo.
Sul versante dei mutui a tasso fisso, il 2025 è stato invece caratterizzato da un lieve aumento dei costi per i nuovi mutuatari, in larga parte legato alla risalita dell’indice IRS (il riferimento tipico per i fissi). A gennaio 2025 l’IRS a 25 anni è stato in media pari a 2,4%; nell’ultimo mese è arrivato al 3,1%. L’effetto, almeno parziale, si è trasferito sulle nuove offerte: per un finanziamento standard la rata risulta oggi più alta di circa 40 euro rispetto a inizio anno.
«Il 2025 è stato un anno positivo sul fronte dei tassi dei mutui: i variabili sono scesi a seguito dei tagli della Bce, mentre i fissi, seppur in lieve aumento, offrono comunque buone condizioni per chi vuole tutelarsi da possibili futuri aumenti di rata. Oggi, quindi, l’aspirante mutuatario può godere di un’ampia offerta di soluzioni: scegliere il tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», spiegano gli esperti di Facile.it
Guardando in avanti, un’indicazione operativa sui variabili arriva dai Futures sugli Euribor (aggiornati al 10 dicembre 2025): per il 2026 non vengono prezzate grandi variazioni. L’Euribor a 3 mesi, oggi sotto il 2,1%, è atteso su livelli simili anche nel prossimo anno.
«In questo momento il mercato non prevede ulteriori tagli da parte della BCE nel 2026 e al netto di qualche piccola oscillazione al rialzo verso fine anno, nei prossimi 12 mesi le rate dovrebbero rimanere tendenzialmente stabili», continuano gli esperti di Facile.it
Lo snodo resta l’inflazione: se dovesse tornare ad accelerare, non si potrebbero escludere nuove mosse restrittive della Bce, con un impatto immediato sugli indici e quindi sulle rate dei variabili. Più difficile, invece, «leggere» i fissi: finché i rendimenti dei titoli europei resteranno in salita, è complicato immaginare una traiettoria diversa per gli Irs e, a cascata, per i mutui collegati.
Per chi deve scegliere adesso, lo scenario è nettamente diverso rispetto a inizio anno. Nel 2025, il tasso variabile è tornato mediamente più conveniente. Secondo l’analisi** di Facile.it sulle migliori offerte online, per un mutuo da 126.000 euro in 25 anni (LTV 70%) i variabili partono da un TAN del 2,54%, con rata di 554,5 euro. A parità di profilo, i fissi partono da un TAN del 3,10%, con rata di 604 euro: circa 50 euro in più al mese.
«Scegliere oggi un tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», concludono gli esperti di Facile.it.
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Brahim Diaz esulta dopo aver segnato un gol durante la partita inaugurale della 35ª Coppa d'Africa tra Marocco e Comore allo stadio Prince Moulay Abdellah di Rabat (Getty Images)
Serve a spostare l’immaginario: non più periferia, non più frontiera, ma piattaforma. Il governo marocchino non lo nasconde. «La Coppa d’Africa è una prova generale per il Mondiale 2030 e un simbolo della nostra capacità di organizzare eventi globali con standard elevati», ha dichiarato recentemente un portavoce del governo di Rabat, sottolineando l’utilizzo dello sport come leva di soft power e di consolidamento di immagine internazionale. Il re Mohammed VI ha insistito pubblicamente sul ruolo dello sport come strumento di dialogo e cooperazione regionale, definendo iniziative come Afcon e il Mondiale 2030 parte integrante della «strategia marocchina di apertura e modernizzazione». Questa visione è stata ripresa anche dai media di Stato come elemento di legittimazione politica e di promozione dell’identità nazionale. I numeri aiutano a capire la traiettoria. Il Marocco conta oggi circa 37 milioni di abitanti e una crescita demografica relativamente contenuta dell’1 per cento annuo circa, molto più bassa rispetto a molte economie subsahariane.
Questo rallentamento demografico consente una pianificazione a medio-lungo termine più sostenibile. Sul piano economico, il pil ha superato i 140 miliardi di dollari nel 2023, con un pil pro capite attorno ai 3.700 dollari, superiore a molti Paesi dell’Africa subsahariana e stabile negli ultimi anni. Il calcio entra qui. La Coppa d’Africa diventa una vetrina perché cade in un momento preciso. Il Paese è nel pieno di un ciclo di investimenti pubblici legati a grandi eventi. Strade, aeroporti, linee ferroviarie ad alta velocità, stadi. Secondo stime ufficiali, tra infrastrutture sportive e opere collegate il Marocco ha messo sul piatto investimenti nell’ordine di oltre 21 miliardi di dirham — quasi 2 miliardi di euro — per modernizzare stadi e città in vista di Afcon 2025 e del Mondiale 2030. Questa spinta è percepita anche a livello diplomatico.
Nel corso degli ultimi anni Rabat ha promosso nuove alleanze economiche in Africa occidentale, con piani di investimento in energia, telecomunicazioni e infrastrutture. La Coppa d’Africa è intesa come un elemento di “soft power” che attraversa i confini: non solo uno spettacolo sportivo, ma un’occasione per creare reti di relazioni, far visita a delegazioni internazionali e mostrare un’immagine di stabilità e apertura. Il messaggio è rivolto prima di tutto al continente africano. Il Marocco si propone come modello alternativo: africano per storia e geografia, ma sempre più occidentale per governance, modelli economici e partner strategici. “Lo sport è parte integrante della nostra politica estera e interna”, ha detto un consigliere politico marocchino parlando della Coppa d’Africa come di un evento che rafforza l’influenza regionale di Rabat. La Coppa d’Africa serve anche a rafforzare una narrativa interna. Il Paese viene da anni di riforme graduali, non sempre popolari, tra cui la promozione di miglioramenti nei servizi pubblici. Il consenso passa anche dalla capacità di offrire orgoglio nazionale e visibilità internazionale.
Dopo il quarto posto al Mondiale 2022, la nazionale è diventata un moltiplicatore emotivo, un simbolo di successo collettivo. Ma non mancano le critiche. In un anno segnato da proteste giovanili e richieste di maggiori investimenti in sanità ed educazione, alcuni osservatori ricordano che infrastrutture sportive e servizi sociali competono per risorse limitate. «Vogliamo ospedali, non stadi» è stato lo slogan di manifestazioni che hanno investito diverse città marocchine nei mesi scorsi, sottolineando il rischio di disallineamento tra spesa per eventi e bisogni sociali. Nel contesto internazionale il torneo assume un ulteriore significato. La Coppa d’Africa 2025 arriva pochi anni prima del Mondiale 2030, che il Marocco ospiterà insieme a Spagna e Portogallo. Non come semplice partecipante, ma come Paese co-organizzatore, una delle prime volte che un Paese africano riveste questo ruolo congiunto nel calcio globale. Il Marocco conta di vincere la Coppa D'Africa. Il risultato sportivo conterà. Ma conterà meno del messaggio lasciato. Rabat vuole usare il calcio per ribadire che il centro può spostarsi, che l’Africa non è solo luogo di risorse e problemi, ma anche piattaforma, regia e snodo geopolitico. E nel 2030, quando il mondo guarderà lo stesso pallone rimbalzare tra Europa e Africa, quella storia sarà già stata scritta.
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Chen Zhi
Dall’immobiliare al fintech, fino al cuore delle truffe online: a 37 anni il fondatore del Prince Group è accusato da Stati Uniti e Regno Unito di aver costruito dalla Cambogia un impero criminale basato su frodi digitali, riciclaggio e sfruttamento di manodopera. Tra cittadinanze comprate, rapporti con il potere politico e miliardi congelati in criptovalute, il ritratto di un magnate oggi scomparso dai radar.
A trentasette anni appena compiuti, Chen Zhi viene indicato dagli inquirenti come l’architetto occulto di una gigantesca macchina di frodi digitali, descritta come un sistema criminale costruito sullo sfruttamento sistematico delle vittime. L’aspetto giovanile, il volto quasi infantile e la barba curata contrastano con l’immagine dell’uomo che, in pochissimo tempo, avrebbe accumulato una ricchezza smisurata. Nell’ottobre scorso il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti lo ha formalmente incriminato, accusandolo di aver orchestrato dalla Cambogia un colossale schema di truffe in criptovalute, capace di sottrarre miliardi di dollari a persone sparse in tutto il mondo. Parallelamente, il Dipartimento del Tesoro americano ha annunciato il sequestro di circa 14 miliardi di dollari in bitcoin riconducibili, secondo le autorità, alla sua rete: il più imponente congelamento di asset digitali mai registrato. Sul sito ufficiale del suo conglomerato, la Cambodian Prince Group, Chen Zhi viene presentato come un imprenditore rispettato e un benefattore di primo piano, capace di trasformare l’azienda in uno dei gruppi più influenti del Paese, allineato – si legge – ai parametri internazionali. Interpellata per un commento, la società non ha rilasciato dichiarazioni. Resta dunque aperta la domanda centrale: chi è davvero Chen Zhi, l’uomo che secondo le accuse avrebbe costruito un impero fondato sulle truffe online?
Originario della provincia cinese del Fujian, nella parte sud-orientale del Paese, Chen Zhi avrebbe mosso i primi passi imprenditoriali nel settore dei giochi online, con risultati tutt’altro che eclatanti. Tra il 2010 e il 2011 si trasferì in Cambogia, inserendosi in un mercato immobiliare allora in piena ebollizione. Il suo arrivo coincise con l’esplosione di una bolla speculativa alimentata dall’afflusso di capitali cinesi e dalla disponibilità di ampie porzioni di territorio sottratte alle comunità locali e finite nelle mani di figure politicamente ben introdotte. Una parte consistente di quei fondi derivava dall’espansione internazionale dei progetti infrastrutturali cinesi legati alla Belt and Road Initiative, mentre altri capitali provenivano da investitori privati alla ricerca di sbocchi meno costosi rispetto al mercato immobiliare cinese, ormai surriscaldato. A questo si aggiunse l’aumento vertiginoso del turismo proveniente dalla Cina.
Phnom Penh cambiò volto in pochi anni: il profilo urbano, un tempo dominato da edifici coloniali bassi e color ocra, lasciò spazio a una distesa di torri in vetro e acciaio. Ancora più drastica fu la metamorfosi di Sihanoukville, ex località balneare tranquilla, trasformata in un polo di casinò, hotel di lusso e complessi residenziali. Qui confluirono non solo turisti e investitori, ma anche giocatori d’azzardo, spinti dal divieto di gioco vigente in Cina. In questo contesto, la rapida ascesa di Chen Zhi apparve fuori scala. Nel 2014 ottenne la cittadinanza cambogiana, rinunciando a quella cinese, un passaggio che gli consentì di intestarsi direttamente terreni e proprietà, a fronte di un contributo minimo di 250 mila dollari allo Stato. L’origine dei suoi capitali rimase però opaca. Nel 2019, aprendo un conto bancario sull’Isola di Man, dichiarò di aver ricevuto due milioni di dollari da uno zio non meglio identificato per avviare la sua prima operazione immobiliare. Nessuna prova documentale è mai emersa a sostegno di questa versione.
Il Prince Group nacque ufficialmente nel 2015, quando Chen Zhi aveva soltanto 27 anni, con un focus iniziale sul real estate. Tre anni dopo ottenne una licenza bancaria per creare la Prince Bank. Nello stesso periodo acquisì la cittadinanza cipriota, in cambio di un investimento di almeno 2,5 milioni di dollari, aprendo così le porte dell’Unione Europea. Successivamente ottenne anche il passaporto di Vanuatu. Nel giro di pochi anni il gruppo si espanse in settori sempre più diversi: compagnie aeree, centri commerciali di fascia alta, hotel a cinque stelle e progetti faraonici come la cosiddetta “Baia delle Luci”, una eco-città dal valore stimato di 16 miliardi di dollari. Nel 2020 Chen Zhi ha ricevuto dal sovrano cambogiano il titolo onorifico di “Neak Oknha”, il più elevato riconoscimento del Paese, riservato a chi effettua donazioni significative al governo.
In quella fase, ha consolidato relazioni politiche di altissimo livello: consigliere del ministro dell’Interno Sar Kheng, partner d’affari del figlio Sar Sokha, e collaboratore diretto di Hun Sen e, successivamente, di Hun Manet dopo la sua ascesa alla guida del governo nel 2023. I media locali lo hanno celebrato come mecenate, lodando il finanziamento di borse di studio e le donazioni durante l’emergenza Covid. Nonostante ciò, Chen Zhi è rimasto una figura schiva, poco incline alle apparizioni pubbliche. Secondo il giornalista Jack Adamovic Davies, autore di una lunga inchiesta su di lui, chi lo ha incontrato lo descrive come una persona pacata, educata e capace di esercitare un’autorità silenziosa. Una discrezione che, col senno di poi, potrebbe aver contribuito a schermarlo da attenzioni indesiderate. Il punto di svolta arriva nel 2019, con il crollo della bolla immobiliare a Sihanoukville. Il settore del gioco d’azzardo online attirò organizzazioni criminali cinesi, scatenando violenti conflitti tra bande e allontanando i turisti. Sotto la pressione di Pechino, il governo cambogiano vietò il gioco online nell’agosto di quell’anno. Centinaia di migliaia di cittadini cinesi lasciarono la città, e interi complessi residenziali rimasero vuoti. Eppure, nonostante il tracollo, Chen Zhi ha continuato ad comprare beni di lusso e a espandere il proprio raggio d’azione. Secondo le autorità occidentali, avrebbe investito decine di milioni in immobili a Londra, New York, jet privati, yacht e opere d’arte, tra cui un dipinto attribuito a Picasso.
Per Stati Uniti e Regno Unito, l’origine di questa ricchezza risiede nell’industria criminale più redditizia dell’Asia contemporanea: la frode online, alimentata da traffico di esseri umani e sofisticati sistemi di riciclaggio. Le sanzioni imposte colpiscono oltre cento società e numerosi individui legati al Prince Group, descrivendo una rete globale di società di comodo e portafogli digitali usati per occultare i flussi finanziari. Al centro delle accuse figurano complessi come il Golden Fortune Science and Technology Park, vicino al confine vietnamita, dove – secondo testimonianze raccolte – lavoratori provenienti da diversi Paesi sarebbero stati trattenuti con la forza e costretti a perpetrare truffe informatiche. Oggi, dopo l’annuncio delle sanzioni, banche e governi regionali prendono le distanze dal gruppo. Le autorità cambogiane cercano di rassicurare i risparmiatori, mentre Singapore e Thailandia avviano verifiche sulle attività locali. Resta però difficile immaginare un netto distacco dell’élite di Phnom Penh da un uomo con cui i legami sono stati così stretti per anni. Di Chen Zhi, intanto, si sono perse le tracce. L’uomo che fino a poco tempo fa figurava tra i più influenti del Paese sembra essersi dissolto, lasciando dietro di sé un intreccio di potere, denaro e accuse che ora scuote l’intera Cambogia.
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