Confesso: Virginia Raggi suscita in me un sentimento di forte compassione. E non perché i suoi primi passi in Campidoglio si siano rivelati un po' incerti, ma in quanto mi rendo conto che contro di lei si è messa in moto una poderosa macchina da guerra. Qualsiasi cosa faccia o non faccia, la povera sindaca finisce nei guai e su di lei si riversano fiumi di parole, anzi di parolacce. Che la giovane avvocata prestata al Movimento Cinque Stelle fosse una cittadina poco esperta di cose amministrative e ancor meno preparata ad affrontare i trabocchetti comunali lo si poteva mettere in conto. Eppure stampa e tv non sembrano concederle tregua. Sbaglia a nominare un assessore? E vai con i titoli d'apertura in prima pagina. Inciampa sulle indagini in cui è finita la signora che deve provvedere a rimuovere il pattume dalle vie cittadine? Apriti o cielo. Ignazio Marino, che nominò a capo dell'azienda municipale dei rifiuti un tizio indagato per traffico di rifiuti e un capo dei vigili urbani senza i titoli per fare il capo dei pizzardoni, al massimo venne trattato con compatimento. A Virginia Raggi invece è riservato l'accanimento.
Intendiamoci: non mi sfugge la ragione di una simile accoglienza. Nonostante le frasi concilianti che in pubblico il presidente del Consiglio dedica a Virginia Raggi, è evidente che Matteo Renzi ha armato le sue truppe nel tentativo di dimostrare al Paese che il Movimento Cinque Stelle è incapace di governare e dunque, nel caso espugnasse Palazzo Chigi, non farebbe altro che danni. Roma è una battaglia decisiva per l'ex Rottamatore e se la perdesse, se cioè la sindaca pentastellata desse prova di saper far meglio di chi l'ha preceduta, alle prossime elezioni rischierebbe d'essere lui il rottamato. L'ordine di scuderia dunque è fermare Virginia Raggi subito, prima che possa fare qualcosa. Non dico far bene, anche solo dare la sensazione di essersi rimboccata le maniche per fare pulizia. Agli interessi di Renzi si sommano poi quelli di chi, con l'arrivo di una marziana in Campidoglio, vede minacciato il proprio potere e i propri affari. E perciò è partita la rumba. Ogni giorno porta la sua grana. Una volta è l'assessore sbagliato, un'altra l'appuntamento saltato, un'altra ancora la maledizione – falsa – della Chiesa.
Figuratevi adesso che c'erano in ballo le Olimpiadi, ossia il circo massimo degli appalti. Certa gente non vedeva l'ora di aggiudicarsi una commessa e di approfittare del magna-magna. Sapendo come in Italia sono finiti negli ultimi trent'anni i giochi invernali, quelli estivi e pure quelli primaverili, i Cinque Stelle fin da subito avevano detto: «No, grazie, niente Cinque cerchi. Se vinciamo noi le Olimpiadi non si fanno». E anche sulla base di questo impegno hanno chiesto i voti dei romani, i quali glieli hanno dati in misura generosa. Tuttavia Renzi e compagni hanno fatto finta di niente, come se la parola data prima di essere eletti valesse zero. Evidentemente, quando si giura in campagna elettorale, per la nostra classe politica di governo lo si fa con le dita incrociate e dunque non vale. E invece i Cinque Stelle, per una volta, ne hanno fatta una giusta, respingendo le lusinghe e anche le minacce. Il trattamento anti Raggi, che puntava a costringere la povera sindaca a cedere, schierandosi contro il Movimento e soprattutto contro chi l'ha eletta, non ha funzionato. E io me ne rallegro. Non soltanto perché finalmente c'è qualcuno che anche in politica ha una parola sola, e non due, tre o quattro come quasi sempre accade, ma anche perché, oltre ai rischi di sprechi e ruberie, con le Olimpiadi della Capitale vedevo il pericolo che il già strabordante debito della Città eterna debordasse oltre ogni misura. Capisco che Renzi si sia abituato a fare politica spendendo e spandendo (e l'aumento di 150 miliardi del debito pubblico in soli due anni e mezzo ne è la dimostrazione), ma c'è un limite che non si può valicare. Dunque, meglio così. Fine dei giochi: sia di quelli olimpici che di quelli di prestigio.