2023-12-30
Napolitano intercettato, tramava contro Berlusconi
Antonio Ingroia (Imagoeconomica)
L’ex pm Antonio Ingroia rivela il contenuto delle celebri captazioni (poi fatte distruggere) tra l’allora capo di Stato e Nicola Mancino, «ascoltati» nell’inchiesta Stato-mafia. «Re Giorgio voleva fermare la Procura di Palermo e c’è riuscito». E ammette: «Sì, diceva di aver parlato male del Cavaliere con altri leader politici europei durante la crisi dello spread nel 2011». ma che per anni hanno eccitato la fantasia dei notisti politici. Un mistero più insondabile del quarto segreto di Fatima, ma che oggi, forse, saremo in grado di svelare. L’avvicinamento al detentore di tale arcano, alla ricerca di conferme ad alcune notizie da noi raccolte sul caso, non può che essere soft, trovandosi egli dall’altra parte del mondo, baciato dal sole dei Caraibi. Il contatto è telefonico. Transoceanico. «Niente mojito, preferisco il Cuba libre». Non si può negare che ad Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo e oggi avvocato, il frontman della controversa inchiesta conosciuta con il nome di Trattativa (tra lo Stato e la mafia) manchi l’autoironia. La domanda rompighiaccio è sulle sue passioni alcoliche e nasce dalla vicenda di una presunta ubriacatura nell’aeroporto di Parigi. Ma Ingroia non sembra infastidito dai gossip e anzi da anni si accompagna con una diva della tv argentina, Giselle Oberti, e vive metà dell’anno ai Caraibi, a Santo Domingo per la precisione. Compound di ricchi occidentali e non certo rifugio per guevaristi fuori tempo massimo. A Punta Cana ha anche uno studio dove pratica la professione di avvocato. Tra i clienti eccellenti pure l’ex presidente dell’Ecuador, Rafael Correa. Dal suo album fotografico escono scatti con il presidente della Corte costituzionale dominicana, ma anche con Franco Battiato («un mio vecchio sostenitore» sottolinea fiero) o Gina Lollobrigida, altra sua cliente. «Ho provato a portarla a Santo Domingo, ma alla fine non se l’è sentita». La Bersagliera è un cruccio per l’Ingroia avvocato: «Un’altra vittima della malagiustizia. Costretta da un giudice, nel crepuscolo della sua vita, a dover chiedere il permesso per ogni spesa quotidiana. È stata umiliata dal sistema giudiziario a tal punto da aver persino meditato di rinunciare alla cittadinanza vista l’ingratitudine dello Stato italiano. E per cosa poi? Per preservare l’eredità del figlio con cui non aveva più rapporti da tanti anni».Sul cellulare dell’ex pm ci sono le locandine delle conferenze tenute in giro per il Sudamerica («Ma io non mi faccio pagare»), le foto di quando è stato invitato in Ecuador in una delegazione di «osservatori internazionali» oppure di quando è stato in Guatemala come responsabile investigativo della commissione internazionale contro l’impunità nel Paese centro-americano.Praticamente una rockstar. «Quasi» sghignazza lui, che ha appena incassato, come regalo di Natale l’assoluzione dall’accusa di peculato davanti alla Corte d’Appello di Palermo, dopo che in primo grado era già caduta la contestazione più grave. Per lei un vero contrappasso quel procedimento durato cinque anni. C’è stato accanimento nei suoi confronti da parte della Procura?«Se non vogliamo chiamarlo accanimento, parola che a me piace poco, possiamo parlare di ostinazione accusatoria “selettiva” ben al di sopra delle righe. Inspiegabile altrimenti il motivo per il quale le denunce che ho fatto io di tutte le vere ruberie, da decine di milioni di euro, perpetrate durante le amministrazioni precedenti alla mia della società pubblica che gestivo in Sicilia, sono state tutte archiviate, mentre mi si voleva condannare perché, secondo loro, pur vivendo a Roma e lavorando a Palermo, non avevo diritto al rimborso delle spese di vitto e alloggio. Per questi signori avrei dovuto fare ogni giorno Roma-Palermo-Roma in aereo».E i suoi predecessori come facevano?«Hanno percepito le mie stesse indennità e i miei stessi rimborsi, però, sono stato processato solo io. Ecco perché è stata un’ostinazione accusatoria “selettiva”. Per non parlare delle espressioni offensive usate nei miei riguardi nella requisitoria di primo grado e nell’atto di appello poi sconfessato in toto dai giudici. Sono stato trattato come un volgare ladruncolo che si sarebbe messo in tasca soldi pubblici attuando un disegno criminale. Qualcuno voleva togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Ora è venuto il mio turno».Lo scorso 22 settembre è morto il presidente Napolitano. Dopo dieci anni può dirci che cosa abbia scatenato il conflitto di attribuzioni con il Quirinale?«L’indagine “Trattativa”. Nel senso che sono convinto che a preoccupare Napolitano non fosse solo il contenuto delle telefonate intercettate in sé, imbarazzanti per il presidente, ma penalmente irrilevanti, bensì la minaccia costituita da quell’indagine che stava pericolosamente avvicinandosi a certi “segreti di Stato” che andavano a tutti i costi difesi. Con quel conflitto di attribuzione la Procura venne fermata sulla soglia delle “verità indicibili” di cui parlava il povero Loris D’Ambrosio (collaboratore di Napolitano, ndr) che venne schiacciato fra segreto di Stato e verità indicibili. Era questo che Napolitano voleva: fermare la Procura di Palermo. E c’è riuscito. Quella è rimasta un’indagine incompiuta per volontà politica».Ha capito quali fossero queste «verità indicibili»?«Se le sono portate nella tomba D’Ambrosio prima e Napolitano poi…».E a proposito delle intercettazioni «imbarazzanti» a cui ha fatto cenno, oggi può confidarci il loro contenuto?«Impossibile purtroppo. Ma c’erano più considerazioni di tipo politico-istituzionale che argomenti giudiziari».Il presidente insultava qualcuno?«Ho detto telefonate dal contenuto imbarazzante e non posso aggiungere altro…».A noi risulta che si trattasse di commenti irripetibili su protagonisti della politica del tempo. Quando c’era stato il braccio di ferro tra la cancelliera tedesca Angela Merkel e Silvio Berlusconi, il quale, nel novembre del 2011, fu costretto a lasciare Palazzo Chigi…«Vedo che ha intuito… proprio ai primi di novembre del 2011 noi iniziammo a intercettare Mancino».Esponenti del centro-destra del tempo hanno dichiarato che Napolitano li aveva consigliati di abbandonare Berlusconi al suo destino. È vero che quelle captazioni permettevano di comprendere come dietro alla tempesta perfetta che portò, anche attraverso lo strumento dello spread, alle dimissioni di Berlusconi ci fosse l’allora inquilino del Quirinale?«(Sospiro)… il bello è che poi Berlusconi ha pregato Re Giorgio di restare al suo posto al Quirinale… se avesse conosciuto il contenuto di quelle conversazioni probabilmente non lo avrebbe fatto».Beh, allora è vero che la distruzione di quelle registrazioni ha cambiato il corso della politica del Paese… mi pare che ci stiamo avvicinando alla soluzione del più grande mistero politico di questo inizio di millennio. Provo ad affidarmi ancora al mio intuito: Napolitano ha rivelato, a ridosso del Natale del 2011, in quelle telefonate con Mancino di avere riferito a leader politici europei cose che potevano danneggiare il presidente del Consiglio alla vigilia della sua caduta?«Non so come lei sia arrivato a fare questa domanda, ma non posso smentire le sue deduzioni. Non è che ne ha discusso con Mancino? Adesso, però, le chiedo di cambiare argomento».Si fa un gran parlare di riforme della giustizia. Che cosa ne pensa?«Che ci si azzuffa su tutto, per non introdurre la vera e unica riforma di cui si ha bisogno e che pare non interessare a nessuno: la riduzione dei tempi dei processi. Le sentenze definitive arrivano in media dopo un decennio e la magistratura pensa di rimediare a questo problema con la distorsione di lunghissime carcerazioni preventive. Col risultato, la grande anomalia della nostra giustizia, che si va e si rimane in galera in custodia cautelare troppo spesso e troppo a lungo, e non ci si va e, soprattutto, non ci si resta, dopo la condanna. Così chi viene dichiarato innocente odia uno Stato che lo ha sbattuto in carcere da innocente, ma lo odiano anche le vittime dei reati perché il condannato spesso resta poco in espiazione pena. Uno Stato feroce con i presunti innocenti e indulgente con i colpevoli condannati. Il mondo alla rovescia».Ingroia che cita il generale Roberto Vannacci, questo è il mondo alla rovescia…«Non ho letto il libro, ma anche rette che partono parallele alcune volte trovano imprevedibili convergenze».Che cosa pensa della separazione delle carriere?«Il risultato sarebbe un pm trasformato in avvocato della polizia giudiziaria e, quindi, ancora meno attento alle garanzie e ai diritti degli indagati. Una sciagura che peggiorerebbe la situazione, già critica. Poi siccome non funzionerebbe, si spingerebbe, come ulteriore rimedio, per sottoporre il pm al controllo di autorità influenzabili dalla politica, ministro o Csm che sia. Io penso che bisognerebbe unificare le carriere, anziché separarle. Si dovrebbe perfino favorire il travaso dalla magistratura all’avvocatura e viceversa. Farebbe bene agli uni e agli altri una certa esperienza con la casacca “avversaria”. Parola di avvocato-ex pm».Il vicesegretario di Azione Enrico Costa ha proposto di non rendere divulgabili le ordinanze di custodia cautelare sino all’inizio dei processi…«Qualcuno pensa davvero che il “riassunto” più o meno manipolatorio da parte del cronista di turno sia più garantista per gli indagati? Non credo proprio. Semmai il tema è un altro: bisognerebbe che i magistrati la smettessero di scrivere centinaia di pagine di ordinanze cautelari che sono “copia e incolla” delle informative della polizia giudiziaria. Siano loro a fare delle sintesi ragionate degli elementi a carico, magari considerando anche quelli a discarico, tralasciando informazioni irrilevanti o sensibili per la privacy, così la pubblicazione del contenuto delle ordinanze sarebbe solo un sacrosanto, ma equilibrato, esercizio del diritto di cronaca, e l’indagato da questa operazione di trasparenza potrebbe ricevere non solo danni ma pure benefici».Perché non è entrato nel nuovo soggetto politico del comunista Marco Rizzo, suo ex alleato, e del «destro» Gianni Alemanno?«Beh, va bene essere trasversali, ma c’è un limite a tutto. Mi sono stancato di progetti politici troppo avventuristici. Azione civile, il movimento che ho fondato nel 2013, si muove in autonomia».Lei ha partecipato alle ultime elezioni insieme a sovranisti di destra e no-vax. L’hanno inserita nel circuito rosso-bruno…«Non sono né rosso, né bruno. Ma sto dalla parte della Costituzione, che non è mai stata rossa, tanto meno bruna. Oggi mi sento soprattutto dalla parte della pace, tema fin troppo dimenticato in tempi di guerre atroci, dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, dove l’Italia sta sostenendo due guerre in palese violazione dell’articolo 11 della Carta».Oggi per chi voterebbe?«Per nessuno. Alle ultime elezioni ho votato per il partito attualmente più forte in Italia: quello dell’astensionismo».Fratoianni, Bonelli, D’Alema, Schlein, Bonaccini… è tutta qui la sinistra di oggi?«Con il rispetto che si deve a ciascuno, questi nomi collegati alla parola “sinistra” suonano come tanti ossimori. Potrei citare un unico leader che dice cose di “sinistra”: papa Francesco, ma anche lui negli ultimi anni è stato deludente. Un papato degli annunzi più che della rivoluzione. Non c’è stata alcuna vera svolta o trasparenza in Vaticano. Vedi il caso di Emanuela Orlandi. Ricordiamoci che il Pontefice come presidente del Tribunale ha scelto Giuseppe Pignatone, il procuratore che aveva fatto archiviare le indagini sulla ragazza scomparsa, contro il volere del suo vice».Di Renzi che cosa pensa?«Uomo abile e astuto, ma con due gravi difetti per un politico: un’eccessiva considerazione di sé, spesso non giustificata, e l’insaziabilità».La Consulta gli ha dato ragione sull’illiceità del sequestro delle sue chat e mail…«Sentenza condivisibile, la tutela costituzionale della corrispondenza non può che estendersi anche a quel tipo di messaggistica».Di che cosa si è pentito della sua vita precedente?«Pentito di nulla. Rammaricato semmai di non avere all’epoca guardato abbastanza fuori dal mio ufficio e dai miei fascicoli. Perché le disfunzioni della giustizia e gli errori giudiziari che vedo oggi da avvocato non credo siano sorti improvvisamente dopo che ho lasciato la magistratura».Oggi si sente più avvocato o pm?«Avvocato che combatte la malagiustizia che colpisce imputati innocenti, condannandoli alla custodia cautelare in carcere, ma anche le vittime dei reati ignorati da una certa magistratura pigra: e ce n’è».Che cosa pensa della condanna del «giacobino» Piercamillo Davigo per rivelazione di segreto?«Vale per tutti la presunzione d’innocenza fino a sentenza definitiva, anche se Davigo spesso si è dimostrato più propenso alla presunzione di colpevolezza. Di una cosa mi sento sicuro: Sebastiano Ardita, che si è costituito parte civile in quel processo, è una bravissima persona, un onesto cittadino e un ottimo magistrato».Quanto guadagna Ingroia?«Abbastanza. Certamente più di quanto guadagnassi da magistrato. Però anche i costi per mantenere uno studio legale, anzi quattro - Roma, Palermo, Milano e Santo Domingo -, sono elevati. Per non parlare delle tasse».I magistrati sono invidiosi di lei?«Forse qualcuno, ma lo erano già quando facevo il pm. Ho sempre fatto una bella carriera, prima e dopo. Spesso oggetto di gelosie».E gli avvocati?«Molti mi percepiscono come un intruso, quasi un infiltrato. Ma io sono ben compenetrato nel mio nuovo ruolo. Basta assistere a qualche udienza: litigo con i pm con la stessa foga con la quale prima litigavo con gli avvocati».Essere l’«avvocato Ingroia» facilita o penalizza davanti a una Corte?«Dipende, certamente non passo inosservato. La mia storia è ingombrante, ma ho fiducia nella magistratura giudicante, tranne quando - specie in primo grado - capita di incontrarne di troppo appiattita sui pm, e in quei casi non c’è Ingroia che tenga».Lei adesso si trova ai Caraibi. Ci risulta che difenda gli italiani che hanno problemi a Santo Domingo. Una vita da film. Chi schiatta d’invidia sapendola felicemente sposato con una star della tv e al sole?«Tanti. Peggio per loro. Chi si nutre d’invidia vive male».Tornerebbe alla sua vecchia esistenza, chiuso in un bunker e con la scorta 24h?«Vado orgoglioso della mia vita passata, di avere avuto maestri come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, della stagione del riscatto dell’Antimafia negli anni della Procura di Giancarlo Caselli, dei successi in tanti processi “impossibili”. Ma anche dei molti sacrifici. Adesso l’Italia è un Paese in declino, sotto tutti i profili. Ci vivo per lavoro molti mesi l’anno, ma quando posso cerco di “staccare” e di lasciarmela alle spalle».Gli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno hanno scritto un libro in cui fanno a pezzi la Procura di Caselli: per esempio vi accusano di non aver accettato la collaborazione dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino.«Non è vero che Ciancimino abbia mai dimostrato di voler davvero collaborare con la giustizia rendendo dichiarazioni attendibili e utilizzabili. Lo interrogammo a lungo Caselli e io, sempre assistiti dall’allora capitano De Donno. Ciancimino non faceva altro che vomitare calunnie contro Falcone che lo aveva per primo incriminato e fatto arrestare. Di Falcone diceva che era un giudice politicizzato, pilotato da Giulio Andreotti e che Falcone si era “inventato” le accuse a suo carico perché Andreotti si sentiva politicamente tradito dall’ex sindaco di Palermo. Un delirio di calunnie. Non solo: accusando Falcone cercava di scagionarsi, negando di avere mai avuto rapporti con Cosa nostra e i Corleonesi. Altro che collaboratore!».Mori e De Donno mentono?«Probabilmente, dal loro punto di vista, no. Nel senso che Ciancimino insisteva nel dire che lui aveva già collaborato coi carabinieri e che Mori e De Donno potevano confermare. Si riferiva evidentemente ai primi contatti della cosiddetta “Trattativa”, ma di questo non ci parlarono mai in modo chiaro né Mori, né De Donno, e quindi non c’erano proprio le premesse per una sua effettiva collaborazione e scarcerazione. Una sola volta sembrava sul punto di “aprirsi”, ma ci chiese una pausa di riflessione, voleva confrontarsi con la propria famiglia. Parlò con uno dei suoi figli, che evidentemente lo dissuase. E all’interrogatorio successivo l’ex primo cittadino ci disse che non c’erano i presupposti perché “traversasse il Rubicone”, usò proprio questa espressione».Crede ancora che ci sia stata una trattativa Stato-mafia?«Io ho dato il via a quell’inchiesta proprio dopo che De Donno ne aveva apertamente parlato in un processo di Firenze sulle stragi del ‘93, fu lui a definirla “trattativa” e da quella sua dichiarazione è nata l’indagine. Quindi, che una trattativa ci sia stata è vero, poi altra questione è se avesse o meno rilevanza penale. Alcune Corti d’assise hanno ritenuto di sì, altre, invece, di no, infine la Corte di cassazione ha chiuso la vicenda processuale assolvendo alcuni imputati come Mori e De Donno per non avere commesso il fatto. Quindi i due non avrebbero fatto da ambasciatori delle minacce mafiose con il governo. In conclusione i carabinieri si sarebbero assunti la responsabilità di portare avanti la trattativa da soli, avrebbero subito le intimidazioni, ma non avrebbero informato la magistratura e la politica. E non mi pare cosa da poco».Smentisce di essere andato a caccia di fantasmi e di aver perseguitato Berlusconi?«La forza delle prove ci ha consentito di ottenere la condanna definitiva di Marcello Dell’Utri e, in quel procedimento, io chiesi l’archiviazione di Berlusconi, cosa di cui non mi vergogno affatto».Che cosa pensa delle indagini condotte dalla Procura di Firenze sui presunti rapporti con la mafia dell’ex premier? Riusciranno a dimostrare quello che in trent’anni voi non avete accertato?«La vedo difficile, anche perché troppo tempo è passato, troppi protagonisti non ci sono più e i fratelli Graviano non hanno alcuna voglia di parlare. È evidente che volessero ricattare Berlusconi in vita, ma ora che è morto…».È credibile che il fondatore di Forza Italia avesse progettato le stragi mafiose?«A questo non ho mai creduto, anzi ho sempre pensato che, ad esempio, l’attentato a Maurizio Costanzo fosse una minaccia contro di lui, per fargli ascoltare i “consigli” di chi voleva che scendesse in politica».Antonio Di Pietro ultimamente ha dichiarato che, dopo la morte di Borsellino, la collaborazione tra la Procura di Milano e quella di Palermo sul filone degli affari condivisi tra grande imprenditoria del Nord e cosche si interruppe definitivamente…«Di Pietro ricorda male. Non è vero che non si realizzò alcuna collaborazione fra il pool di Milano e quello di Palermo. Tutto il contrario. Accadde, invece, un’altra cosa. La nostra Procura, dopo le stragi, avviò un’importante indagine su mafia e appalti che era proprio la prosecuzione e l’approfondimento del filone del famoso rapporto del Ros. Noi arrestiamo per concorso esterno in associazione mafiosa un noto imprenditore del Nord, Mario Lodigiani. Di Pietro si infuriò perché questi stava per iniziare a collaborare sul versante delle tangenti alla politica e quel nostro arresto, secondo lui, danneggiava le sue indagini. Di Pietro, imbufalito, e Caselli si affrontarono a muso duro in una riunione di coordinamento. Ma alla fine Borrelli riuscì a mediare e io e Di Pietro andammo insieme a interrogare Lodigiani. La sera fummo invitati per una “cena della pace” a casa del procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli. E da allora i due uffici collaborarono, con ottimi risultati».Perché è emersa solo negli ultimi anni la storia della guerra che è stata fatta a Borsellino all’interno della Procura di Palermo?«Che i rapporti di Borsellino con il procuratore Pietro Giammanco e i suoi “fedelissimi”, Pignatone in testa, fossero pessimi e di reciproca diffidenza non è una scoperta. Lo denunciammo io e altri magistrati della Procura di Palermo all’indomani della strage di via D’Amelio. E lo dichiarammo in alcune drammatiche audizioni al Csm. C’erano due Procure, quella di Giammanco e quella di noi “ribelli”, definiti nei corridoi del palazzo dei veleni con disprezzo i “falconiani”. E rischiammo di essere sottoposti a procedimento disciplinare proprio noi che avevamo osato ribellarci al capo del tempo. Invece, alla fine, vincemmo. Fu Giammanco a essere trasferito. E dopo qualche mese arrivò Caselli e fu un’altra Procura, la Procura dei “falconiani”, che proseguì, con i nostri limiti, la linea tracciata da Falcone e Borsellino».
Roberto Occhiuto (Imagoeconomica)
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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