La pulizia etnica raggiunge lo scopo. Il Nagorno Karabakh non esiste più

- Il presidente della Repubblica separatista ha firmato il decreto che ne sancisce la dissoluzione dal 2024. Quasi 80.000 gli armeni in fuga. Neanche la Chiesa si schiera coi cristiani perseguitati dall’Azerbaijan.
- Il Pd, che ha strumentalizzato il caso Alan Kurdi e polemizzato sullo spot Esselunga, perde la voce davanti all’attacco di Baku.
Lo speciale contiene due articoli.
Le vittime della pulizia etnico religiosa che sta avvenendo in queste ore nel Nagorno Karabakh sono già 76.000. Probabilmente quando questo articolo andrà in stampa saranno oltre le 80.000 unità. Nel silenzio della comunità internazionale stiamo accettando che una Repubblica che ospita i cristiani armeni già dal primo secolo dopo Cristo venga spazzata via e cancellata sotto le bombe del governo azero di Ilham Aliyev e dagli incroci geopolitici che hanno imposto al governo di Yerevan l’allontanamento dalla Russia senza poter trovare nel frattempo l’ombrello di qualche Paese occidentale. O almeno un Paese occidentale, visto che gli altri (incluso il nostro) hanno troppi incroci economici ed energetici con l’Azerbaijan.
Il 19 settembre le forze armate di Baku hanno effettuato quella che è stata definita una operazione speciale anti terrorismo, culminata con l’arresto-sceneggiata dell’ex premier dell’enclave Ruben Vardanyan. Lo schema era semplice. Fare irruzione nella Repubblica separatista, azzerare quella minima resistenza militare e aprire la strada ai reparti di polizia che a loro volta hanno acceso e alimentato l’esodo che riempie le strade verso la capitale dell’Armenia. La Commissione europea ha pensato bene di donare 5 milioni di euro diffondendo la notizia con un tweet ai limiti dell’offensivo. I rifugiati armeni sono stati definiti come coloro i quali hanno deciso di lasciare le loro case. Nessun riferimento alle bombe azere. E pure il documento sottostante, diffuso tramite link, si è limitato a un generico conflitto. Invece qui a soccombere è un pezzo di cristianesimo sotto gli scarponi di uno Stato che fa dell’islam un proprio simbolo. In queste ore nel Nagorno spariscono secoli di storia e tradizioni. Nemmeno dalla Chiesa non si alzano grida di allarme. Il cardinal Zuppi non è stato avvistato in Armenia né a Baku. Non ci sono mosse serie di sostegno. Eppure è chiaro che non si tratta nemmeno più del diritto di autodeterminazione per cui gli ucraini sono sostenuti con bandierine e aiuti economici e militari. Si tratta della sopravvivenza di un popolo e del disfacimento di una regione intera. Perché, anche se da gennaio l’area sarà inglobata nel territorio azero, il vuoto di quella popolazione e le piaghe dovute alla fuga improvvisa resteranno. Saranno vive e muteranno il terreno come una faglia tettonica. Riprendendo una conversazione con l’ex ambasciatore Bruno Scapini, ci viene da concordare in toto con le sue osservazioni. La «soluzione azera», cui tutti i Paesi occidentali hanno aderito, non tiene in alcun conto della realtà storico culturale del popolo armeno. Anzi, la esclude senza eccezione, al punto da indurre a credere che la posizione delle genti del Nagorno sia stata migliore al tempo dell’Urss quale semplice «oblast sovietico», ma con autonomia. La reintegrazione del Karabakh nei confini dell’Azerbaijan senza che venissero considerate nella gestione del conflitto le legittime aspirazioni delle sue genti di vivere su una terra di insediamento storico millenario, difficilmente potrà restituire al Caucaso ordine e stabilità.
Il riassetto territoriale è avvenuto, infatti, ma non quello degli animi. Il vuoto profondo che contraddistingue i rapporti tra i due popoli, non solo in termini religiosi, ma anche culturali e sociali, non potrà mai essere colmato da una soluzione capace di scavare ancor più i solchi delle divergenze. Tradotto: seguiranno altre persecuzioni. Il passo successivo sarà probabilmente un nuovo attacco all’Armenia. Magari al fine di conquistare la striscia di terra del Syunik per realizzare l’idea di unire il popolo azero ai fratelli turchi tramite l’enclave del Nakhijevan. Il nome di questa terra magari dice poco, ma basti pensare che si riferisce direttamente alla discendenza dell’Arca di Noè. In ballo ci sono le radici legate al Dna di quel popolo, ma anche l’assetto geopolitico dell’area. Dopo l’Ucraina qui ci sarà un altro fronte caldo. Purtroppo di fronte a tali drammi consideriamo solo le distanze chilometriche che ci separano senza pensare che l’onda lunga dei fatti arriva a colpire pure noi, che stiamo comodi nelle nostre case.
Ma la sinistra stavolta si dimentica di difendere i diritti dei bambini
I bambini che vedete nelle immagini pubblicate in questa pagina non esistono. Non esistono i loro genitori, profughi di serie B, e non esistono loro. Sono armeni e cristiani che vivono, anzi, vivevano, nell’enclave del Nagorno Karabakh, sottoposta da 20 giorni a una dura operazione militare dell’Azerbaijan. Che è uno Stato formalmente laico, ma a maggioranza sciita ed è sostenuto dalla Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Se fossero ucraini, certo, il discorso sarebbe diverso. Invece questi bambini stanno nel posto sbagliato al momento sbagliato e le loro foto, sui giornali di casa nostra, non hanno cittadinanza. E non le vede neppure la sinistra italiana, distratta dalla polemica sul presunto utilizzo a sproposito di quella bambina del famoso spot di Esselunga.
Due numeri solo per inquadrare la gravità della crisi, innescata da quella che il governo di Baku ha definito una semplice «operazione antiterrorismo». L’Armenia ha reso noto ieri di aver accolto 65.036 rifugiati dal Nagorno Karabakh, dove fino a qualche settimana fa vivevano in 120.000. I morti sono oltre 200, tantissimi i feriti e non si contano le case incendiate dai soldati azeri. Ci sono stati anche bombardamenti notturni. Le foto sono state scattate nella capitale Stepanakert la scorsa settimana e documentano la distruzione di alcuni palazzi, i letti con i bambini feriti piazzati nei corridoi di un ospedale, l’arrivo continuo di barelle scaricate dalle ambulanze e la corsa di medici e infermieri a organizzare le cure d’urgenza. In uno scatto, si vede un adolescente prono su una lettiga con la canottiera tirata su e una ferita appena medicata in mezzo alla schiena. In un’altra immagine, ecco un bambino di circa 8 anni, anche lui su un letto di ospedale, con un grande cerotto bianco che corre dalla tempia alla fronte e uno sguardo di una tristezza infinita. Su un altro lettino c’è una bambina con il piede mezzo fasciato, una copertina verde a fiori e lo sguardo dritto sull’obiettivo, ma semichiuso. Sembra buttata sul letto come certi peluche con le gambe e le braccia troppo lunghe.
Certo, dal punto di vista mediatico questi bambini armeni non «valgono» quanto il famoso bimbo siriano morto su una spiaggia turca nel settembre 2015. L’immagine di Alan Kurdi, 3 anni soltanto, è stata usata dai media di tutto il mondo per «smuovere le coscienze» e, in Italia, per animare il dibattito sull’immigrazione clandestina. Il problema, vedendo l’uso che fa la sinistra dei bambini, è di decidere una volta per tutte come tutelarli.
Se passiamo a scenari meno drammatici, proprio in questi giorni si discute dello spot di Esselunga che vede una bambina come protagonista. Giorgia Meloni lo ha definito «molto bello e toccante». Ma un padre nobile del Pd come Pier Luigi Bersani ha ribattuto: «Mi sembra davvero sbagliato, in questo e in altri casi, mettere in mezzo la sofferenza dei bambini su temi delicati per scopi commerciali». Chissà se avrebbe detto lo stesso in caso di spot con famiglia fluida.
I bambini, si sa, per fortuna fanno ancora simpatia e così capita che ogni volta che c’è in giro un presidente della Repubblica, le maestre li portino in piazza ad applaudire con tanto di bandierine tricolore. Per esempio, è successo lo scorso mese di ottobre ad Alba, nelle Langhe, per acclamare Sergio Mattarella, accolto dai pupi che urlavano «Presidente, presidente!». Nessuno ha detto nulla, ci mancherebbe. Però lo scorso 28 marzo, alla festa dell’Aeronautica militare, quando i bambini di alcune scuole hanno fatto la stessa cosa con la Meloni, da sinistra hanno parlato di strumentalizzazione degli infanti e scene da Ventennio. E non si contano gli episodi del genere con al centro Matteo Salvini. Ne ricordiamo uno del febbraio 2020: un manifesto del Pd laziale con un bambino migrante aggrappato a una rete metallica e lo sguardo spento. Lo slogan era: «Anche lui vuole ballare al Papeete».
Chissà, forse il problema dei piccoli feriti armeni è che sono cristiani e poveri. E che in questa fase molti governi sono in affari con l’Azerbaigian per il suo gas e per il suo petrolio. Però, anche nell’uso politico delle immagini dei bambini, ci vorrebbe un minimo di coerenza.









