
Che triennio di promesse quello tra il 2014 e il 2017. I tempi d’oro di Matteo Renzi quando da premier prometteva di smaltire con il semplice utilizzo degli sms un milione di contenziosi fiscali. È stato sempre Renzi a coniare il termine «Fisco amico». L’uovo di Colombo politico. L’amministrazione finanziaria si sarebbe dovuta evolvere sul modello anglosassone. Meno burocrazia, risposte anticipate per agevolare o evitare i contenziosi e poi massima disponibilità a fronte della massima severità di fronte agli evasori. Il tutto preceduto da sanatorie e condoni, per tirare una linea. Al di là del fatto che le promesse nel 90% dei casi sono rimaste tali. Nel 2014, Ernesto Maria Ruffini viene chiamato a far parte del tavolo permanente per l’innovazione, nel 2015 è nominato ad di Equitalia e nel 2017 diventa per la prima volta direttore dell’Agenzia delle entrate. Renzi lo vuole proprio per lanciare lo slogan «Fisco amico». Quando si insedia, Ruffini manda una lunga lettera ai dipendenti per annunciare: «Meno burocrazia, carta e timbri, meno adempimenti, ingiustizie, meno distacco dalla vita reale di chi produce, meno distanza dalla lingua italiana e, se saremo bravi, anche meno balzelli». Il direttore dell’Ade e Renzi diventano la coppia perfetta, d’altronde si frequentavano già dalla prima Leopolda. Anche se tra i due è il primo che riesce a superare il governo Gentiloni intatto e a farsi riconfermare dall’attuale esecutivo a guida centrodestra.
Fino allo scorso anno, lo slogan «Fisco amico» è passato un po’ in cavalleria. Sostituito da quello degli algoritmi e dell’Intelligenza artificiale. Le Entrate ne hanno fatto un punto d’orgoglio. Peccato che, al momento, l’uso dei software non sembra aver risolto i problemi della burocrazia. Anzi. Il grande progetto dei documenti precompilati non è quel successo che sarebbe dovuto essere. L’Agenzia punta a usare l’Intelligenza artificiale per scovare gli evasori ma fa fatica a dialogare correttamente con i software informatici di base per inviare le comunicazioni di irregolarità ai contribuenti. Dopo la rivelazione che il 95% dei 730 precompilati presenta errori, sempre prima dell’estate è arrivato un altro allarme. Secondo fonti legate al mondo dei commercialisti di Milano, Roma e Pistoia anche gli avvisi bonari inviati dal Fisco presentano un altissimo livello di errori; fatte dieci le irregolarità inviate, sette risultano essere sbagliate. Parliamo di errori ricorrenti che riguardano il non riuscire a intercettare il ravvedimento operoso fatto dal contribuente, il non riuscire ad abbinare l’F24 all’Irpef corrispondente, oppure a proroghe fiscali non riconosciute.
Questo è il tipico caso di quando una scadenza fiscale viene spostata più avanti e l’Agenzia delle entrate si «dimentica» di avvisare il sistema operativo di accettare anche i pagamenti che vengo fatti entro la data stabilita dalla proroga (situazione che ha caratterizzato la gestione Covid e di conseguenza anche i recenti avvisi di pagamento inviati a tutti quei contribuenti che avevano, secondo le scadenze, provveduto a saldare i propri debiti fiscali).
Si tratta dunque di errori materiali, dovuti al fatto che il processo di gestione è legato a degli automatismi informatici evidentemente ben poco controllati. Il fattore umano entra infatti in campo solo quando si chiamano gli operatori dell’Agenzia delle entrate o ci si rivolge al Civis, servizio che fornisce assistenza sulle comunicazioni di irregolarità, sugli avvisi telematici e sulle cartelle di pagamento, per segnalare l’arrivo di una comunicazione di irregolarità sbagliata. Civis che tra l’altro, quando si presentano casi complessi o particolari - sottolineano i commercialisti - rimanda il richiedente agli uffici dell’Agenzia delle entrate, con tutte le complicazioni legate al riuscire a prendere un appuntamento e a parlare con chi di dovere. Ruffini dovrebbe conoscere la situazione dell’Agenzia ma sembra sfuggirgli che, ormai da molti mesi, gli uffici sono praticamente chiusi al pubblico, prendere un appuntamento è una chimera e, ovviamente ottenere risposte spesso impossibile. Le Pec - sostengono decine di commercialisti - sono sistematicamente ignorate. Sulle difficoltà di trattare alla pari con la Pubblica amministrazione delle Entrate potremmo scrivere dei libri e, quindi, non ci sorprende che domenica, parlando alla Versiliana, il direttore abbia pubblicamente ammesso che «il Fisco non può mai essere amico del contribuente. Gli amici ce li scegliamo, non me li può dare una legge, il Fisco deve essere un equo e corretto interlocutore», ha detto, aggiungendo: «Io non vorrei avere un Fisco amico ma un fisco con cui interloquire in modo corretto».
È chiaro che le parole di per sé non sono sbagliate. Il problema è che oltre a rinnegare quanto di buono aveva promesso Renzi ai tempi, esse rinnegano anche la colonna portante della legge di delega fiscale che mira a riformare proprio i rapporti con il Fisco. Nessuno pensa né vuole che le Entrate si mettano a fare differenze o chiudano un occhio di fronte agli evasori per cui la frase di Ruffini è un pleonasmo. Ci preoccupa invece che diventi la scusa per sostenere una digitalizzazione che invece di risolvere i problemi aggiungerà errori e soprusi spersonalizzando ancora di più la controparte pubblica. Bene che partano i controlli incrociati con i conti correnti e pure che sia facile bloccare i soldi di chi fa il furbo. Ma a quel punto lo Stato non potrà permettersi di sbagliare un colpo. Questo è il «Fisco amico» che ci aspettiamo. E non ci interessa il parere di Ruffini, ma del governo che l’ha appena riconfermato.





