2022-01-28
Morta dopo il parto. Cure negate perché senza siero?
Il sospetto dei famigliari di Adriana Tanoni: «Tenuta al freddo col pancione perché (su consiglio medico) non era vaccinata».Tra meno di un mese avrebbe compiuto 29 anni. Sarebbe stata una gran festa in famiglia, con la piccola Cloe di ventiquattro mesi e con Noah, nato prematuro al Policlinico Umberto I di Roma dove Adriana Tanoni invece è morta, lo scorso 20 gennaio. Per complicanze legate ad una infezione polmonare derivante dal Covid-19, ma forse anche per cure non ricevute, per il disinteresse mostrato verso la sua gravidanza avanzata e per le condizioni di «infetta non vaccinata», come chiedono di sapere i genitori e il compagno di Adriana. Attraverso il loro legale hanno presentato denuncia, l’ipotesi di reato è omicidio colposo. «Il sospetto è che quando Adriana arrivò all’Umberto I, la sera del 7 gennaio, la situazione a livello polmonare fosse già pesantemente compromessa», spiega l’avvocato Sebastiano Russo, «in seguito a gravi carenze nell’assistenza sanitaria, anche al rifiuto di assisterla. La giovane poteva essere salvata, vogliamo vedere le cartelle cliniche ma già tanti elementi ci fanno capire che forse è stata abbandonata al suo destino». Forse perché non vaccinata? Il sospetto è atroce, leggendo la denuncia presentata alla Procura di Roma. Lunghe attese fuori da ospedali in pieno inverno non sono giustificabili per nessuno, tanto meno per una donna all’ottavo mese di gravidanza che ha la febbre e fatica sempre più a respirare. «I genitori sospettano che sia stato un trattamento differenziale perché non si era vaccinata», ribadisce il penalista. In attese delle indagini, ripercorriamo il calvario di Adriana. La giovane viveva ad Aprilia con il compagno, Donavan Cavazza, accanto alla casa dei genitori, Paola Ciccone e Rinaldo Tanoni. In questo Comune, provincia di Latina, il quarto «dell’Agro redento» da Mussolini, dopo Littoria, Sabaudia e Pontinia e prima di Pomezia, la giovane coppia era felice dell’arrivo del secondogenito. Una nuova vita, a dispetto di tanta paura ed emergenza sanitaria. I familiari raccontano che al terzo mese di attesa, non sapendo se vaccinarsi o meno conto il Covid, Adriana avesse chiesto consiglio alla ginecologa, Nadia Toscana «che le prospettò una serie di rischi per la sua gravidanza». La gestazione prosegue senza problemi, il piccolino cresce bene, però subito dopo Natale la mamma comincia a avere tosse, febbre, raffreddore. Chiede al suo medico di base, Lidia Scorretti, di prescriverle il tampone, scopre che si è presa il Covid. Il 30 dicembre la febbre non diminuisce, ma la dottoressa suggerisce «il solo uso di tachipirina, riservandosi semmai a seguire la prescrizione di altri due farmaci ossia Deltacortene e Zimox», come si legge dai messaggi intercorsi con la paziente e allegati alla denuncia. Il 3 gennaio la situazione diventa critica e, su consiglio del medico curante, Adriana si fa portare dal compagno all’ospedale Gemelli. Le dicono che non c’è personale medico, che l’attesa sarà lunga e la lasciano fuori al freddo. La coppia cambia Pronto soccorso, vanno al Policlinico Umberto I, altre ore di attesa, preferiscono rientrare a casa. Il giorno seguente Adriana chiama l’ambulanza e viene trasportata all’ospedale dei Castelli, fuori Roma, che si rifiuta di accettarla. «Lasciata all’esterno della struttura», la signora all’ottavo mese non ha potuto far altro che «accasciarsi su uno degli scalini in attesa dell’arrivo del padre». Non c’era posto o non la volevano perché non vaccinata? Come fa una struttura sanitaria a respingere una donna malata e quasi prossima al parto? Intanto le sue condizioni fisiche peggiorano, dai messaggi con il medico è evidente che continua con la sola tachipirina. Il mattino del 5 gennaio viene chiamata un’altra autoambulanza, ma gli operatori si sarebbero rifiutati di entrare in casa. «L’hanno fatta sedere su una sedia in giardino, al freddo, malgrado febbre elevata, tosse e difficoltà respiratoria, denunciano i familiari», spiega l’avvocato Russo. Gli operatori «contestano anche il valore di saturazione prossimo all’89, rilevato dalla signora e se ne vanno. Non c’era urgenza». Il 7 gennaio Adriana bussa alla porta dell’ennesimo Pronto soccorso, quello dell’Ospedale Santa Maria Goretti di Latina e i medici finalmente diagnosticano «l’esistenza di una polmonite bilaterale interstiziale in stato ormai avanzato, causa di una insufficienza respiratoria conclamata da un livello di saturazione dell’84%», denuncia il legale incaricato dalla famiglia di presentare l’esposto. Non crediate che l’incubo sia finito. Dopo averla fatta aspettare dalle 7 del mattino alle 4 del pomeriggio, a Latina dicono di non poterla curare e la trasferiscono all’Umberto I. Quale altra tortura poteva essere imposta a una giovane mamma quasi partoriente, e che si era presa un Covid forse curabilissimo se trattato per tempo? Il girone ultimo infernale la aspettava al Policlinico romano, come testimoniano i messaggi disperati della giovane sottoposta a ventilazione meccanica assistita, attraverso il cosiddetto «casco». Scrive ai genitori «suono il campanello ma nessuno viene a vedere come sto», dice di avere paura per la creatura nel grembo, le manca il respiro e implora «mamma, aiuto». Era ansia incontrollata? Fosse anche, una persona sbattuta di qua e di là senza essere curata e che capisce di stare molto male, che forse non rivedrà più i suoi cari, quali altre reazioni poteva avere? Il 13 gennaio le condizioni di Adriana diventano gravissime e si decide di sottoporla a parto cesareo d’urgenza. Nasce Noah, pesa 1,8 chilogrammi ma a dispetto del suo nome non «allevia o consola» la sua mamma. Pochi giorni dopo la giovane donna morirà, senza averlo potuto vedere. Per fortuna che siamo un Paese che vorrebbe più figli e quindi più mamme. Ma solo se vaccinate contro il Covid.