
La morte di un genitore è un severo monito alla fugacità dell’esistenza, che a scuola tentano di farci capire con le opere di Dante o Foscolo. Ma poi, quando la vivi per davvero, ti rendi conto che le parole non bastano.Settimana scorsa ho cercato di mettere in parole lo sconquasso che rappresentava la recente scomparsa di un padre. Una parte di me si è sentita, e ancora si sente, inadatta a tentare di farlo. In parte, credo, poiché la vita di una persona ha diritto ai suoi segreti, alla sua privacy, a maggior ragione quando questa tocca momenti cruciali della propria esistenza; in parte invece poiché parlando degli ultimi giorni di un essere umano questi sono quanto mai «sacri», sempre che questo termine ancora rechi in sé un significato non retorico nella vita che conduciamo. Ovviamente le parole possono dire fino a un certo punto, abitiamo esperienze che spesso sono non pronunciabili, non del tutto esplicabili, irraggiungibili financo con le parole che usiamo magari per andare a fare la spesa, parlottare di calcio o di sport, o farci una tranquilla discussione con gli amici. Parole, e altre parole.Ogni giorno che passa mi allontano dallo sgomento di quei giorni, di quella settimana tragica. L’improvvisa scoperta di un padre che molto probabilmente questa volta non ce la farà. Ammetterlo, potete immaginarlo, è tanto banale e naturale quando inaudito. Mio padre, il padre, colui che mi ha messo al mondo, l’unica persona che poteva imporsi su di me, anche senza doverlo fare. L’insegnante padre, l’istruttore padre, il consigliere - spesso non richiesto - padre. Quanti ruoli si addossano in una stessa figura…Allontanandomi dal letto del dolore e della resa, da quel lettino stretto numero 12 in ospedale, inizio a ricordare dettagli distinti, e altri sicuramente già sono svaniti. Resteranno probabilmente pochi frammenti di immagine, forse addirittura ridisegnati dalla memoria, percettibilmente corrotti da quel che l’inconscio andrà a salvare, o forse tutto scomparirà? D’altronde è lecito domandarsi se quel che intendo ricordare del mio «babbo» siano anche quegli ultimi fatali giorni. In tv e al cinema quante volte abbiamo visto protagonisti e personaggi andare a visitare i propri morti alla morgue, e quei corpi sembrano sempre ricomposti, ordinati, perfetti, come se per finire con questa esistenza bastasse socchiudere gli occhi e dimenticarsi di respirare. Invece mio padre appariva in modo assai diverso: la sofferenza lo aveva attraversato, scosso, rimodellato. Mi sono domandato, in quegli istanti di resa totale, chi fosse, chi era quel corpo lì, chi era stato lo sapevo?Nei giorni scorsi sono tornato per poche ore al mare, in Liguria. Il solito calderone di incontri, lavoro, svago, libri, strette di mano, vicoli macchine persone, amici nuovi e amici vecchi. Mi rendo conto che quel padre me lo ritrovo spesso addosso: ad esempio ci siamo gustati una buona pastasciutta alle vongole veraci, a pranzo, e un piattone di trofie al pesto genovese la sera. A lui piaceva particolarmente il pesto, e io mi sono «sacrificato» per l’occasione… e poi siamo andati in spiaggia, quei tre passi, e lo senti il mormorio della risacca? L’infinito orizzonte piatto che ci circonda? Quella piccola imbarcazione che galleggia quasi sospesa per caso, i pescatori in attesa con le loro lunghe lenze che sembrano uscire direttamente dai loro occhi, invece che dalle canne poggiate e spinte con fiducia verso la vasta massa delle acque marine? Anche questa natura ci nutre e ci accoglie.Diversi amici e conoscenti mi hanno scritto o telefonato. Alcuni mi hanno parlato dei loro genitori, delle malattie che se li sono portati via. È un dolore che prima o poi tocca tutti, è uno di quei severi moniti alla fugacità dell’esistenza che a scuola i nostri insegnanti cercano di farci comprendere magari con le parole di Dante Alighieri o con la poesia crepuscolare di un Ugo Foscolo, invero senza riuscirci appieno poiché da ragazzi siamo troppo dentro la vita per sentire il peso di ciascuna parola, di ogni verso, di qualsiasi silenzio o pausa indovinata dal poeta di turno. E non a caso quando incontriamo un ragazzo come noi che purtroppo ha invece conosciuto lo spaesamento della perdita di un genitore lo rispettiamo, capiamo che lui o lei hanno dentro qualcosa di diverso, di unico, di dolente ma anche di prezioso. C’è un mistero che ci circonda ma che qualcuno ha ricevuto e altri non ancora, o forse mai.Ascoltando e leggendo questi racconti minimamente condivisi mi rendo conto che le parole sono goffe per dirlo. E per ascoltarlo. La voce agisce in tanti modi e non solo dicendo, ovviamente. Non è poi così tanto diverso dal limite di cui parlavo anche nel mio ultimo silvario, quell’Alberodonti d’Italia che dalla primavera sto pazientemente accompagnando in giro per festival; riconoscevo l’impossibilità di descrivere la natura con le parole, esiste sempre qualcosa, qualche aspetto, qualche insondabile manifesto dettaglio o condizione che sento, percepisco ma non trovo modo di rappresentare. Riceviamo più di quel che possiamo restituire, la natura ci fa questo effetto, il paesaggio, i boschi, le montagne, le isole, il mare stesso di cui sopra, ci nutre più di quel che possiamo assicurare. E così quando «usiamo» la voce, l’affetto, l’amicizia, e le parole per raccontarci questi momenti fondamentali della vita dei nostri cari che restano vivi in noi, ricostruiamo, riduciamo, sintetizziamo, e trasliamo quel che la realtà ci ha portato, e tentiamo di soppesarlo per condurlo ad altri. Ma è sempre, ogni singola volta, una sconfitta. Le parole proprio non bastano, i riassunti non bastano, brevi o dettagliati che siano. La scomparsa di un padre è irriducibile, e comunque a suo modo incomprensibile. Sebbene naturale, lo sappiamo, l’attendiamo. Sappiamo che avverrà, un giorno. O quando è avvenuto ti chiedi se sia mai davvero esistito.Mio padre mi raccontava, di tanto in tanto, che era certo che suo padre, il nonno, lo venisse a cercare, e che in certi momenti fosse lì con lui, a sorreggerlo, a indicare. Pensavo fossero storie, un modo semplicemente per far quadrare il cerchio, per mettere insieme razionalmente quel che conosciamo e tutto quel che non capiamo. In questi giorni invece mi pare di sentirlo, a mio modo.Fuori dalla finestra l’alba ai piedi delle Alpi inizia a manifestarsi. Un leggero venticello attraversa le chiome degli alberi in giardino e nei prati intorno. Siamo in piena estate, ieri il sole ha scottato la campagna e i gatti sono scomparsi per l’intero pomeriggio. L’arrivo della sera ce li ha restituiti, giocosi, affamati. Caro padre dove sei finito? Sei qui? Tra queste fronde? Sei nelle radici delle acacie in mezzo ai campi? Sei tra i fiori che stanno aprendosi, in quei petali bianchi e malva? O sei soltanto qui, nel mio cuore, a battere ogni tanto al posto mio?
La stazione di San Zenone al Lambro, dove il 30 agosto scorso un maliano ha stuprato una 18enne (Ansa)
Il maliano che a fine agosto ha abusato di una ragazza alla stazione di San Zenone al Lambro era stato fatto uscire dal Cpr da una toga di Magistratura democratica, nonostante le denunce di maltrattamenti in famiglia.
Il ministro degli Interni tedesco Alexander Dobrindt con il cancelliere Friedrich Merz (Ansa)
Chissà se c’è un giudice a Berlino. Se c’è, mi domando che tipo sarà. Avrà la faccia e le idee di Elisabetta Meyer, la toga che ha liberato Harouna Sangare, il maliano che poi ha stuprato una ragazza in attesa del treno a San Zenone al Lambro?
Massimo Cacciari (Getty Images)
Massimo Cacciari: «Purtroppo c’è sempre la moda di contrapporre morti di serie A e di serie B Se l’unica soluzione proposta per Kiev e Gaza è un altro conflitto, poi non stupiamoci».