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2021-07-29
Un caso di misoginia tollerata per antirazzismo: la cultura hip hop
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Hip Hop evolution (Netflix)
Basta vedere il video di un qualsiasi rapper americano per notare una sovrabbondanza di corpi femminili sculettanti. E anche i meno avvezzi con la lingue inglese, tendendo l'orecchio, potranno comunque notare nei testi un uso smodato di termini come «bitch», «slut», «whore», parole che vogliono tutte dire più o meno la stessa cosa e cioè, per esprimerlo con un eufemismo, «prostituta».
In realtà in America in certo dibattito sull'argomento c'è da tempo, anche se pare restato confinato nelle riserve indiane dei sociologi o degli addetti ai lavori, mentre si cercherebbe invano una campagna in stile Me too che investa la cultura hip hop come fatto ad esempio con Hollywood. Gli studiosi che se ne sono occupati hanno certificato che una percentuale tra il 22 e il 37% dei testi rap contiene una certa dose di misoginia. Recentemente, un giornalista ha contato nell'album di 21 Savage & Metro Boomin, composto da sole 15 canzoni, l'occorrenza della parola «pussy» per 83 volte, mentre «bitch» viene detto 33 volte e «hoe» (altra variazione sul tema) viene pronunciato 6 volte. Inoltre, tempo fa, quando oltre 6,7 milioni di fan hanno votato una classifica dei «più grandi rapper di tutti i tempi», solo tre artiste su 100 erano donne.
Lo scenario tipico descritto in video e canzoni è composto da uomini iper mascolini, interessati ai soldi e ai beni di consumo, laddove le donne sono solo oggetto di desiderio o, per il resto, scocciatrici infide da tenere a bada con le buone o con le cattive. La studiosa Melanie Marie Lindsay ha scritto che «i video presentano le donne afroamericane come avide, disoneste, meri oggetti sessuali senza alcun rispetto per se stesse o per gli altri, compresi i bambini a loro affidati. Le donne nei video sono disprezzate dagli uomini ed esistono per portare loro piacere».
Storicamente, uno dei primi gruppi rap ad avere problemi di questo tipo fu 2 Live Crew, autore di brani come «We Want Some Pussy» («Vogliamo un po' di f...»). In questo caso, le grane furono anche giudiziarie: nel 1987 un negozio di dischi in Florida fu denunciato dalle autorità per aver venduto un album del gruppo a una quattordicenne. Per evitare conseguenze, il gruppo decise di pubblicare due versioni, una con testi censurati e l'altra con versioni esplicite. E tuttavia, l'anno seguente un altro negozio di dischi in Alabama venne denunciato per aver venduto una copia non «pulita» del disco a un poliziotto in borghese. Nella seconda stagione del documentario Netflix Hip Hop Evolution, i protagonisti raccontano quell'episodio come una cruciale battaglia per la libertà di espressione, grazie alla quale si è evitato che l'intera cultura rap finisse sotto processo. Eppure, ha scritto il magazine di sinistra Jacobin, il caso «ha finito per rafforzare e giustificare una visione patriarcale del concetto di "libertà di espressione", una visione che risulta parziale anche nel documentario». La sensibilità contemporanea, così esacerbata su questo genere di questioni, si fa timidamente sentire. Recentemente, un gruppo storico come i Wu-Tang Clan ha proposto di riscrivere i propri vecchi testi per allinearli allo spirito del Me Too (dalla misoginia ostentata alla cancel culture, insomma, senza passare per alcuna reale elaborazione del tema).
Ma come si spiega questa persistenza di tematiche misogine nella cultura hip hop? Manco a dirlo, trattandosi di una cultura in larghissima parte nera, alla fine la colpa viene data al razzismo. Lo stereotipo del «selvaggio» ipersessualizzato e promiscuo è in effetti ricorrente sin dai primi resoconti delle spedizioni coloniali. Lo schiavismo, poi, ha separato crudelmente le famiglie degli schiavi e reso spesso le donne merce a disposizione del padrone. Trattandosi di un genere con forti radici di strada, inoltre, si tende spesso a scusare la scurrilità dei testi, rinviando ai gerghi suburbani e alla necessità di incarnare determinati schemi culturali per poter emergere in contesti che mal sopportano i linguaggi arcadici. Tutte tematiche reali, ma su cui poi si innesta il meccanismo della deresponsabilizzazione permanente, come se ogni nero destinato a nascere da qui all'eternità sia incapace di svincolarsi dall'ombra lunga di questi schemi relazionali.
Non è mancato chi ha fornito spiegazioni ancora più semplicistiche e colpevolizzanti per i bianchi. Secondo Margaret Hunter, per esempio, durante gli anni Novanta i dirigenti discografici iniziarono a sollecitare gli artisti hip hop affinché scrivessero testi più violenti e offensivi, dato che in quel momento l'hip hop cominciava a rivolgersi a un pubblico prevalentemente bianco. Insomma, poiché un bianco si aspetta questo tipo di contenuti da un prodotto culturale nero, l'industria discografica avrebbe intensificato lo stereotipo, creando una sorta di pregiudizio autoavverante. Di nuovo il «razzismo sistemico» come spiegazione a qualsiasi ingiustizia. L'impressione è che, dibattiti di nicchia a parte, la caccia alle streghe femminista che si sta affermando in molti altri settori della società per il momento intenda chiudere un occhio sugli eccessi dei «fratelli neri».
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In un'epoca ossessionata dalla correttezza politica, dalle questioni di genere e dal femminismo, esiste un comparto dell'industria culturale che curiosamente pare restare immune da critiche pur essendo denso di contenuti offensivi verso donne e omosessuali: l'hip hop.Basta vedere il video di un qualsiasi rapper americano per notare una sovrabbondanza di corpi femminili sculettanti. E anche i meno avvezzi con la lingue inglese, tendendo l'orecchio, potranno comunque notare nei testi un uso smodato di termini come «bitch», «slut», «whore», parole che vogliono tutte dire più o meno la stessa cosa e cioè, per esprimerlo con un eufemismo, «prostituta». In realtà in America in certo dibattito sull'argomento c'è da tempo, anche se pare restato confinato nelle riserve indiane dei sociologi o degli addetti ai lavori, mentre si cercherebbe invano una campagna in stile Me too che investa la cultura hip hop come fatto ad esempio con Hollywood. Gli studiosi che se ne sono occupati hanno certificato che una percentuale tra il 22 e il 37% dei testi rap contiene una certa dose di misoginia. Recentemente, un giornalista ha contato nell'album di 21 Savage & Metro Boomin, composto da sole 15 canzoni, l'occorrenza della parola «pussy» per 83 volte, mentre «bitch» viene detto 33 volte e «hoe» (altra variazione sul tema) viene pronunciato 6 volte. Inoltre, tempo fa, quando oltre 6,7 milioni di fan hanno votato una classifica dei «più grandi rapper di tutti i tempi», solo tre artiste su 100 erano donne. Lo scenario tipico descritto in video e canzoni è composto da uomini iper mascolini, interessati ai soldi e ai beni di consumo, laddove le donne sono solo oggetto di desiderio o, per il resto, scocciatrici infide da tenere a bada con le buone o con le cattive. La studiosa Melanie Marie Lindsay ha scritto che «i video presentano le donne afroamericane come avide, disoneste, meri oggetti sessuali senza alcun rispetto per se stesse o per gli altri, compresi i bambini a loro affidati. Le donne nei video sono disprezzate dagli uomini ed esistono per portare loro piacere». Storicamente, uno dei primi gruppi rap ad avere problemi di questo tipo fu 2 Live Crew, autore di brani come «We Want Some Pussy» («Vogliamo un po' di f...»). In questo caso, le grane furono anche giudiziarie: nel 1987 un negozio di dischi in Florida fu denunciato dalle autorità per aver venduto un album del gruppo a una quattordicenne. Per evitare conseguenze, il gruppo decise di pubblicare due versioni, una con testi censurati e l'altra con versioni esplicite. E tuttavia, l'anno seguente un altro negozio di dischi in Alabama venne denunciato per aver venduto una copia non «pulita» del disco a un poliziotto in borghese. Nella seconda stagione del documentario Netflix Hip Hop Evolution, i protagonisti raccontano quell'episodio come una cruciale battaglia per la libertà di espressione, grazie alla quale si è evitato che l'intera cultura rap finisse sotto processo. Eppure, ha scritto il magazine di sinistra Jacobin, il caso «ha finito per rafforzare e giustificare una visione patriarcale del concetto di "libertà di espressione", una visione che risulta parziale anche nel documentario». La sensibilità contemporanea, così esacerbata su questo genere di questioni, si fa timidamente sentire. Recentemente, un gruppo storico come i Wu-Tang Clan ha proposto di riscrivere i propri vecchi testi per allinearli allo spirito del Me Too (dalla misoginia ostentata alla cancel culture, insomma, senza passare per alcuna reale elaborazione del tema). Ma come si spiega questa persistenza di tematiche misogine nella cultura hip hop? Manco a dirlo, trattandosi di una cultura in larghissima parte nera, alla fine la colpa viene data al razzismo. Lo stereotipo del «selvaggio» ipersessualizzato e promiscuo è in effetti ricorrente sin dai primi resoconti delle spedizioni coloniali. Lo schiavismo, poi, ha separato crudelmente le famiglie degli schiavi e reso spesso le donne merce a disposizione del padrone. Trattandosi di un genere con forti radici di strada, inoltre, si tende spesso a scusare la scurrilità dei testi, rinviando ai gerghi suburbani e alla necessità di incarnare determinati schemi culturali per poter emergere in contesti che mal sopportano i linguaggi arcadici. Tutte tematiche reali, ma su cui poi si innesta il meccanismo della deresponsabilizzazione permanente, come se ogni nero destinato a nascere da qui all'eternità sia incapace di svincolarsi dall'ombra lunga di questi schemi relazionali. Non è mancato chi ha fornito spiegazioni ancora più semplicistiche e colpevolizzanti per i bianchi. Secondo Margaret Hunter, per esempio, durante gli anni Novanta i dirigenti discografici iniziarono a sollecitare gli artisti hip hop affinché scrivessero testi più violenti e offensivi, dato che in quel momento l'hip hop cominciava a rivolgersi a un pubblico prevalentemente bianco. Insomma, poiché un bianco si aspetta questo tipo di contenuti da un prodotto culturale nero, l'industria discografica avrebbe intensificato lo stereotipo, creando una sorta di pregiudizio autoavverante. Di nuovo il «razzismo sistemico» come spiegazione a qualsiasi ingiustizia. L'impressione è che, dibattiti di nicchia a parte, la caccia alle streghe femminista che si sta affermando in molti altri settori della società per il momento intenda chiudere un occhio sugli eccessi dei «fratelli neri».
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Sempre la storia dimostra che questo tipo di progresso tecnologico è spesso seguito dallo sviluppo di contromisure, non a caso stiamo assistendo alla comparsa di armi anti-drone, queste sia di tipo convenzionale, con un proiettile che viene sparato contro di essi, ma anche del tipo a energia concentrata, ovvero laser. L’evidenza però è che l'uso dei droni abbia cambiato la natura della guerra, con la zona in cui le forze di terra sono vulnerabili ad attacchi letali da parte di mezzi a pilotaggio remoto che si estende tra dieci e sedici chilometri dietro la linea del fronte. Ciò ha reso trincee, posizioni fortificate e veicoli blindati molto più vulnerabili di quanto non lo fossero in precedenza, costringendo l’industria a sviluppare nuovi tipi di protezioni da installare a bordo. Così se inizialmente i droni hanno dimostrato il loro valore nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e ricognizione, poi in quello di effettori d’attacco, ora costituiscono anche una forza di difesa restando comunque utili per la raccolta di informazioni in tempo reale e per fornire consapevolezza della situazione del campo di battaglia, come anche a supporto della pianificazione e del comando, nel controllo e nella comunicazione come nell'avvistamento dell'artiglieria.
Un colpo deve costare meno di un proiettile
Uno dei problemi da risolvere per praticare un vero contrasto ai droni sono i costi: un sistema laser, oltre che costoso è anche difficilmente trasportabile e resta comunque vulnerabile a eventuali attacchi, dunque in Ucraina vengono usate le infinitamente più economiche reti che riducono l'efficacia dei droni imbrigliandone le eliche. La Marina britannica ha recentemente annunciato che impiegherà un'arma a energia diretta denominata DragonFire, sistema che come detto, sebbene presenti delle limitazioni, come il costo iniziale, le dimensioni, la necessità di alimentazione elettrica e il fatto di dover avere il bersaglio in vista per colpirlo, a ogni colpo costa soltanto l’equivalente di 12 euro. L’alternativa è usare la radiofrequenza, ovvero un’onda radio, che però in quanto a limitazioni si discosta di poco dall’altro: presenta l’indubbio vantaggio di poter colpire più bersagli contemporaneamente, ma non può distinguere tra i bersagli che ingaggia quali sono amici e quali nemici. Tradotto: nessun mezzo amico può volare quando viene usato tale sistema. Non si risolve il problema neppure con effettori come piccoli missili, che costerebbero più di altri droni: esistono, sia chiaro, ma se per neutralizzare un oggetto del valore di qualche migliaio di dollari se ne impiega uno che costa qualche milione, come è avvenuto nel Mar Rosso durante i primi attacchi dei ribelli Houthi alle navi commerciali, le contromisure si rivelano insostenibili.
Un nuovo problema, costruirli in fretta
A parte l’Ucraina, l’Iran e la Cina, nessuna altra nazione è in grado di produrre droni in modo sufficientemente rapido e puntuale per usarli in modo massiccio. Inoltre, l’evoluzione dei droni stessi è tanto rapida che nessuna forza armata può permettersi di tenere in magazzino un arsenale di unità che invecchierebbero in pochi mesi. Ciò ha creato una vulnerabilità critica nelle catene di approvvigionamento delle componenti dei droni, in particolare la dipendenza dell'Occidente da parti e materiali di origine cinese che presentano ovvi rischi per continuità di fornitura, possibili intrusioni software e quindi pericolo per conflitti futuri.
Un rebus tra materiali, costi e normative green
Per risolvere la situazione occorre una nuova corsa alla produzione protetta basandola sulla cooperazione internazionale, costruendo solide alleanze per la produzione di droni tra i membri della Nato concentrandosi sulla produzione coordinata e sempre sull'innovazione. Il tutto per realizzare catene di approvvigionamento sovrane: investire nella produzione nazionale di componenti critici, inclusi semiconduttori e sensori, per ridurre la dipendenza da materiali di origine asiatica. Ciò perché oltre Pechino, si è anche persa la certezza della continuità di produzione proveniente da Taiwan. Un altro metodo è standardizzare la produzione di droni concentrandosi sulla produzione scalabile. La chiamano resilienza ma si tratta di sicurezza della catena di approvvigionamento, partendo dal disporre di una riserva di terre rare e di materiali definiti critici. Questa strategia è però resa ancor più difficile dall’applicazione di severe direttive ecologiche da parte dell’Unione europea e degli Usa, dove già talune produzioni non possono essere più fatte con taluni materiali, con il risultato che un numero significativo di componenti risulta oggi non rispondente alle caratteristiche di quelli precedenti. Lo sa bene chi progetta, sempre più in lotta con dichiarazioni per le normative Reach, che comprende migliaia di sostanze chimiche in vari prodotti inclusi abbigliamento, mobili, ed elettronica), e RoHs, la specifica per i dispositivi elettrici ed elettronici che limita le sostanze pericolose come piombo, mercurio, cadmio e altre per proteggere l’ambiente. E si sa che la guerra non è certo ecologica.
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Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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