
Il direttore della Fondazione Agnelli, Andrea Gavosto: «La didattica a distanza meglio del previsto, ma i ragazzi hanno molte lacune da colmare».Andrea Gavosto, torinese, 62 anni, è uno dei massimi esperti italiani di questioni scolastiche. Studi di economia completati alla London School of economics, esperienze professionali in Fiat, Confindustria e Telecom Italia, dal 2008 è direttore della Fondazione Giovanni Agnelli che si occupa prevalentemente di studiare il sistema educativo e formativo in Italia per contribuire a migliorarlo.Al Senato lei ha parlato di «caduta dell'apprendimento»: sono mesi di conoscenze perdute?«In parte sì. Nonostante gli sforzi fatti per la didattica a distanza, gli studenti dei vari livelli non hanno imparato quanto avrebbero appreso in condizioni normali. Alcune categorie hanno perso ancora di più: i disabili, chi è senza Internet, chi non è spronato e aiutato dalle famiglie».C'è stata troppa fretta nel decidere di non prolungare le lezioni fino a luglio?«La didattica a distanza è andata oltre le aspettative: almeno un 80% dei docenti non aveva nessuna dimestichezza con le tecnologie. Dovere imparare rapidamente come operare sulle piattaforme online per gestire le classi ha avuto una risposta molto positiva e generosa. Nelle ultime settimane, poi, le scuole hanno cominciato ad acquistare con il fondo del ministero i device per gli studenti che non li avevano e a distribuirli. Proprio perché si stava migliorando, non era il caso di interrompere tutto all'inizio di giugno. Bisognava recuperare la perdita di conoscenze che questa generazione rischia di trascinarsi per tutto il ciclo scolastico e sfruttare il tempo il più possibile».Non saranno comunque vacanze di sogno quelle dell'estate prossima.«Appunto: non vedo tutta questa necessità di chiudere le scuole. Però la cosa non è mai stata presa in considerazione».Problemi con i sindacati? Il ministro Azzolina non voleva?«La Fondazione Agnelli ne ha parlato in vari contesti, ma in effetti il ministro ha subito scartato questa soluzione. Da un lato c'era la volontà di procedere con gli esami di maturità e molti docenti sarebbero stati impegnati lì. Un altro vincolo immagino siano state le difficoltà con i sindacati».I docenti di ruolo non devono prestare lavoro fino al 31 luglio?«Sì, ma di solito dopo la maturità si chiude. C'è anche un problema legato ai circa 150.000 supplenti, molti dei quali hanno contratti in scadenza il 30 giugno. Estenderli avrebbe comportato un onere per le finanze pubbliche».Di quanto?«Sui 600-700 milioni di euro per un prolungamento di due mesi, luglio e agosto. Una cifra importante, ma di fronte alla perdita di capitale umano in questa fase era un costo che si poteva sostenere».In ogni caso il problema dei supplenti si riproporrà ad agosto.«E sarà molto peggio. Se il ministero non prenderà misure straordinarie, a settembre sarà un delirio. Per l'inizio dell'anno scolastico va definita la mobilità dei docenti di ruolo: queste richieste sono decine di migliaia e bisognerà capire quante potranno essere soddisfatte e come. Poi ci sono le assunzioni e i pensionamenti. A quel punto le cattedre rimaste vuote andranno riempite con i supplenti. In genere questi avvicendamenti interessano un quarto del corpo docente».E per coprire tutto si arriva a novembre.«Già non sappiamo come avverrà la fase 2, quando e come si ripartirà: se a settembre un quarto delle cattedre sarà vuoto, chi terrà i corsi di recupero?».Avete proposto di sospendere la mobilità degli insegnanti. «Finché siamo in emergenza, i docenti dovrebbero restare dove sono oggi, con il blocco dei trasferimenti e la proroga per qualche mese delle supplenze in corso, diciamo fino a dicembre. La situazione è già complicata, meglio evitare la caccia al supplente. Gli studenti hanno diritto a una continuità didattica ed è giusto che a guidare il recupero siano gli stessi insegnanti di quest'anno».Come verranno svolti questi corsi?«Sono già obbligatori per gli studenti con insufficienze, ma mi auguro che possano essere estesi a tutti per recuperare le parti di programma che non è stato possibile fare ora. Sapremo i dettagli dalle ordinanze che il ministero emetterà dopo la conversione in legge del decreto».La pandemia impone distanze e vieta assembramenti. Che conseguenze ci saranno nelle scuole?«Le nostre aule hanno una dimensione media di 45 metri quadrati e oggi ospitano una media di 20-21 studenti, ma volendo tenere 2 metri di distanziamento sociale non potranno accogliere più di 10-12 ragazzi. A questo punto bisognerà pensare a turni».Mattina e pomeriggio?«Le formule possono essere molteplici. Si potrebbero anche fare 3 giorni a casa con la didattica a distanza e altrettanti in aula. I francesi sono orientati a portare a scuola gli studenti che non hanno il computer o la connessione Internet, lasciando a casa gli altri. I danesi vogliono sfruttare gli spazi esterni mettendo tendoni in giardini e cortili, come per i terremoti. Sicuramente bisogna cominciare a sfruttare di più le palestre, gli spazi delle mense, le aule magne, gli atri. Tutti interventi che comportano costi organizzativi».Gli ingressi vanno scaglionati?«È un tema da affrontare. Il rischio di contagio non c'è soltanto dentro gli edifici scolastici, ma anche sui mezzi pubblici, sugli scuolabus, negli assembramenti che si creano davanti ai cancelli. Bisognerà fare molta attenzione».Non conveniva riaprire almeno le scuole elementari come all'estero?«I francesi ci proveranno. I danesi già lo fanno: i bambini corrono meno rischi di infezione e i genitori possono andare a lavorare. In più, per i più piccoli la didattica a distanza è molto difficile e meno efficace. Il rovescio della medaglia è riuscire a tenere le distanze. Spiegare a un bambino di pochi anni che deve stare lontano dal compagno di giochi è complicato. I danesi hanno deciso che ogni educatrice nei nidi seguirà 2 bambini e nelle scuole dell'infanzia 6: non lo vedo tanto semplice».Si dovranno aumentare ancora gli organici?«I sindacati si sono già fatti sentire. Io però chiederei ai docenti un maggiore sforzo in questa fase di emergenza. Con i turni gli orari di lavoro dovranno essere rimodulati e penso sarà inevitabile anche ridurre la durata delle lezioni dagli attuali 60 minuti. Oggi i docenti delle elementari hanno 24 ore di insegnamento in presenza, 18 quelli di medie e superiori: forse in prima battuta si potrebbe chiedere loro qualcosa in più».Le mense vanno chiuse?«Sono luoghi di assembramento con particolari esigenze di igiene e sanificazione anche nel trasporto dei pasti a scuola. Credo che bisognerebbe evitare».Come intervenire sugli edifici scolastici, già in ritardo nell'adeguarsi alle norme di sicurezza e antisismiche?«Le aule non sono pensate per i numeri limitati dell'emergenza sanitaria, però negli edifici scolastici molti spazi sono male utilizzati. Cittadinanzattiva ci dice che un terzo dei cortili è usato come parcheggio. All'estero, per esempio, i corridoi sono attrezzati con lavagne e sedili per lavori di gruppo. Da noi invece la scuola si fa solo in aula, mentre dovremmo cercare di recuperare più spazi possibili per distribuire meglio i ragazzi». Chi dovrebbe prendere l'iniziativa di questa riorganizzazione? Il ministero? I provveditorati? I presidi? «Tasto molto dolente. Gli edifici scolastici hanno proprietà diverse: i Comuni possiedono elementari e medie, le Province e le Città metropolitane le superiori. Parlo dei muri. Il responsabile della sicurezza e dell'organizzazione è invece il preside, che è il datore di lavoro. Mi sembra ragionevole che il ministero emani linee guida, per esempio su distanziamento, mascherine e sanificazione, che dovranno essere applicate dal dirigente scolastico con il coinvolgimento degli enti locali se si richiedessero opere come ammodernamenti o tensostrutture. Sarà un lavoraccio mettere assieme tutti questi soggetti».I prof dovranno abituarsi a fare lezione davanti a una telecamera?«Diciamo che un insegnante dovrà avere tra le sue competenze professionali anche la didattica a distanza. La formazione alle nuove didattiche, in presenza o digitali, dovrebbe essere obbligatoria».Per gli studenti è più semplice abituarsi?«Non come si crede, nemmeno per i nativi digitali che sono abituati ad altre tecnologie e ai social, non a restare ore davanti a computer o tablet. Di sicuro la didattica a distanza non è lo scambio di compiti su Whatsapp o limitarsi a caricare le slide sul registro elettronico».Scuole paritarie: 1 alunno su 9 le frequenta, con una percentuale più alta nella scuola dell'infanzia. Hanno bisogno di aiuti?«Sicuramente. Svolgono un servizio pubblico a fianco delle scuole statali e comunali. Hanno anch'esse costi aggiuntivi da sostenere, dalla sanificazione all'aumento del numero di educatori nel rispetto delle linee guida. Devono adeguarsi a obblighi collettivi, quindi dovrebbero essere trattate come le altre, anche con un aumento delle detrazioni».In questi due mesi il ministero ha perso tempo?«Ha agito bene all'inizio, imponendo da subito la didattica a distanza con una scelta corretta. Forse c'è stata un po' troppa enfasi sull'esame di maturità, ma fa parte del dibattito del Paese. Adesso però l'opinione pubblica ha bisogno di indicazioni chiare su dove si vuole arrivare: quando si parte, le classi di quali età rientrano per prime, con quali numeri si fanno le classi, come si fanno i turni, eccetera. Le famiglie vogliono sapere in quale direzione si andrà».
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