2021-05-26
Minacce, querele e persino un pugno. Alla Casta non piace farsi raccontare
Da oggi con «La Verità» e «Panorama» la raccolta dei più graffianti ritratti di vip e politici scritti da Giancarlo Perna. Dalle sberle annunciate da Giorgio Napolitano ai peones grillini immortalati al loro esordio Scrivere un ritratto è segno di ottimismo. Significa che si crede nelle persone, come sono e cosa pensano. È stare dalla parte del detto: la storia cammina sulle gambe degli uomini. Non è scontato oggi in cui tutto è tecnologia, a guidarci sono entità mondialiste, le multinazionali dettano legge, gli algoritmi organizzano le nostre vite, la realtà è virtuale. E la carne e le ossa, i singoli caratteri, i sentimenti, le convinzioni, gli impulsi? Perduti, per fare posto ai robot. E no, vivaddio. Se, come me, non siete d'accordo avete qui a disposizione una galleria di esseri a sangue caldo, bravi e meno bravi, perfino cialtroni, ma che si mettono in gioco sul palcoscenico della vita. La maggiore parte sono politici. Non mancano però gli intellettuali, i personaggi tv e in genere quel che passa il convento della nostra contemporaneità. Se i tipi parevano un po' mosci, ho cercato di ravvivarli. Scavando nelle pieghe, si rianima anche un ectoplasma. Uno come Sergio Mattarella, per esempio, tutto casa e chiesa, ha però anche umanissime cadute che, alla fine, ce lo rendono più vicino. Giudicate voi se ci sono riuscito. L'Italia, che per molti versi non è un Paese serio, ha però il culto della seriosità appena si tratta di mettere nero su bianco. Scrivendone, non si parla male dei vivi, perché sono vivi e si mortificano; dei morti idem perché sono morti e se ne oltraggia la memoria. E poi, parlarne male. Solo dire le cose come stanno, restituendo un po' di verità a gente che, se lasci fare agli adulatori, appare scolpita nella pietra, ma vale un sasso. Al liceo avevo un prof di Lettere, un crociano perso (seguace di don Benedetto), il quale ripeteva che per gli scrittori e i poeti contavano solo le opere. Ogni dettaglio biografico - aggiungeva - era una sovrapposizione cacofonica alla melodia dei loro versi e prose. Diceva proprio così. Ora ditemi voi se non è molto più chiaro, per inquadrare la petulanza con cui Giacomo Leopardi pone i suoi continui interrogativi - «che di quest'anni miei?», «che di me stesso?», «questo è quel mondo?», ecc. - sapere di lui almeno il nocciolo. Da ragazzino fu viziato e capriccioso. Da giovanetto, divenne indisponente e amareggiò l'esistenza di Monaldo, l'eccellente padre, che metteva continuamente una pezza ai guai che combinava il rampollo malmostoso. Da adulto, incapace di mantenersi, faceva debiti continui che il papà appianava senza aspettarsi dall'ingrato nemmeno un grazie. Non serve altro. Adesso sono lampanti le scaturigini di quel pessimismo, appunto leopardiano, dei Canti, delle Operette morali e delle continue querimonie «o natura, natura perché di tanto inganni i figli tuoi?», e solfa varia. Lo stesso vale per Giosuè Carducci. Se uno scrive senza vergogna un Inno a Satana o 12 sonetti intitolati Ça ira, grido in uso tra i sanculotti che con le teste dei nobili facevano il sapone, vorrai pure sapere se esce da una parrocchia o da un lupanare. Anche qui, con buona pace del mio insegnante, sovviene il ritratto. Il soprannome del giovane Giosuè era Pinini, dal greco pinein, che significa bere. Cioè, beone. Di giorno, certo, studiava e, all'Università di Bologna, era anche bravo. Ma la sera bisbocciava nelle taverne al motto «bere il più spesso possibile, giocare, amare, dire male del prossimo e del governo». Una sera di venerdì santo, per sfregio, comandò a un oste: «Portami una costola di quel p…co di Gesù Cristo». Ed ecco che esce limpida come acqua di fonte, la spiega sull'inno al demonio e ai senzadio francesi. Scrivere un ritratto è anche un atto di coraggio. Tutti i profili dei personaggi qui raccolti sono stati redatti per dei quotidiani. Ho cominciato su Il Giornale, poi Libero, infine La Verità. Un certo numero di essi hanno suscitato reazioni negli interessati. Lasciamo andare le querele o le minacce di farle. I querelatori, che cercano soldi e non chiarimenti sui contenuti, sono come gli spioni a scuola che ti indicano al maestro frignando: «Mi ha slacciato il fiocco». Di loro non mi curo. Il punto è che nessuno si riconosce nel ritratto che gli dedico. Tutti immaginano di meritare di meglio. Anche se poteva andare peggio, perché spesso mi è capitato di scoprire sesquipedali magagne del «ritrattato» a pubblicazione avvenuta. Con ciascuno mi sono comportato nello stesso modo. Non ho mai interpellato l'interessato per chiedergli chiarimenti o fatti della sua vita. Una cosa è l'autoritratto e per quello c'è l'intervista in cui è libero di farsi passare per Napoleone. Altro è il ritratto per il quale servono i testimoni: l'intimo, l'amico, il simpatizzante, l'avversario, il nemico, l'equidistante. Dal frullato dei giudizi, esce l'uomo. Io, come Mosè, porto le tavole e scrivo sotto dettatura. Alcune proteste che ho ricevute, o che ho raccolte, sono pittoresche. Non riguardano i ritratti pubblicati qui, giacché sarebbe indelicato da parte mia. Ne parlo, perché sono cose lontane e, sopite le animosità, resta il divertimento. Un quarto di secolo fa, dedicai uno dei primi medaglioni a Vittorio Sbardella, morto ormai da anni. Era un dc romano, legato a Giulio Andreotti. Sedeva ingrugnato su un divano del Transatlantico, quando mi vide. Scattò in piedi ed esclamò: «E mo' che t'ho da fa? Te pijo a pugni?». Sbardella era imponente come un armadio e quella volta pareva due. Giocai le mie carte atteggiandomi a serafico. «Rileggi l'articolo», dissi, «e vedrai che sotto sotto c'è della simpatia. Un uomo del tuo calibro deve riflettere sulle critiche e non reagire d'impulso. Dove andrebbe a finire allora la dialettica tra controllore e controllato? Che ne sarebbe della libertà di stampa?» ecc. Sbardella, che in fondo era un buono, finse di farsi infinocchiare, e finì che ci stringemmo con foga le mani. Del tutto imprevedibile fu l'atteggiamento che assunse Giorgio Napolitano di fronte al suo ritratto. Successe dieci anni prima che salisse al Quirinale. Mi pare fosse, all'epoca, presidente della Camera. A un amico comune, disse: «Se incontro Perna lo insulto. Se replica, lo prendo a sberle». Bè, per un uomo così distinto da sembrare un principe di casa regnate - era detto Umberto II per la somiglianza - il linguaggio era davvero vigoroso. Mi dette soddisfazione averglielo suscitato. A volte, vola anche un pugno. Avvenne con il già missino, Teodoro Buontempo, arrabbiato per un'inezia - giuro un'inezia - che lo riguardava, in un ritratto di Alessandra Mussolini. Un colpo secco, il suo, allo sterno, mio, seguito da un: «Così impari!». Anche questo accadde in Transatlantico, attirando capannelli di curiosi. Un anno dopo, come niente fosse, facemmo insieme una bella intervista. Nel grosso delle insoddisfazioni, succede solo che l'offeso ti toglie il saluto. Vi incrociate, e sei trasparente come vetro. Ma la riconciliazione è alle porte. Il tempo che esca il ritratto del collega che gli sta sugli zebedei e quello ti viene incontro a braccia aperte, esclamando: «Bravissimo. Ma potevi anche andarci giù più pesante». Pace fatta. […] Al piede di ogni ritratto di questo libricino, sono segnati l'anno e il mese in cui è uscito il relativo articolo sul quotidiano. I medaglioni sono perciò datati. Dei protagonisti più anziani, molto in là nella carriera o con quella già conclusa, avrete un quadro d'insieme. Altri, sono fotografati per le gesta compiute fino al giorno in cui ne ho scritto. Diversi hanno poi galoppato, passando da pivelli imbranati a ministri o personaggi di grido. È il caso di tanti politici grillini. Io ne ho scritto al debutto, e voi questo leggerete, perché erano agli inizi e se ne era curiosi. Il resto manca. Non siatene delusi e, soprattutto, non prendete questa scusa per non leggerlo. Col materiale grezzo, che oggi nessuno ricorda più, capirete più a fondo il personaggio odierno. Perché la vera natura di ogni uomo è quella dei suoi primi passi, quando ignora molto di sé e si muove come gli viene. Il resto, quel che verrà, le cariche e le medaglie, sono come le barbe dei babbi Natale: posticce. C'è, per intenderci, molto più Perna nei temi strapazzati del Ginnasio che in quella corona di spine dei Grandi ritratti del medesimo. Buona lettura.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)