Giustizia, i tanti impegni extra dei magistrati: in un anno il Csm ha autorizzato 768 incarichi
2022-05-21
Verità e Affari
Per la prima volta da quando, poco meno di quattro anni fa, Elliott ha acquistato il Milan, i manager dell’hedge fund americano stanno valutando seriamente la cessione del club. La Reuters parla di trattative in esclusiva con il fondo del Bahrein, Investcorp, di un affare che sta procedendo in maniera spedita per una valutazione che si aggira intorno al miliardo. Ma a Verità&Affari non risultano esclusive così come non risulta che sia stata fatta una due diligence sul club. C’è una lettera di interesse, ma sembra anche che ci siano altri soggetti che hanno manifestato il loro interesse per acquisire il club.
Come rivelato da questo giornale pochi giorni fa, i continui stop al progetto per il nuovo stadio hanno avuto un ruolo decisivo nel disamoramento dei Singer (il fondatore Paul e il figlio Gordon) per il club che avevano rilevato nel 2018 dal sedicente uomo d’affari cinese Yonghong Li. Il colosso degli investimenti avrebbe voluto proseguire il suo progetto con i rossoneri dopo averli riportati in Champions e aver ripianato il bilancio, ma senza la possibilità di aumentare i ricavi, qualsiasi piano di crescita si rivelerebbe insostenibile.
QUESTIONE STADIO
A questo proposito val la pena ricordare le parole di Giorgio Furlani, il Portfolio Manager di Elliott e consigliere di amministrazione del Milan, al recente Football Summit 2022: «Il nuovo stadio? È un progetto che va avanti da tempo, da quando abbiamo preso la proprietà del Milan. Quando abbiamo mostrato l’opzione stadio a New York ci dicevano di non preoccuparci perché erano convinti che Milano non fosse una città come Roma: sfortunatamente Milano ha dimostrato di essere un po’ come Roma, più di quanto ci sarebbe piaciuto... Cosa ci blocca? C’è una spinta politica limitata perché alcuni stakeholders non vogliono andare avanti». E qui si inserisce l’interesse di Investcorp e di altri gruppi.
Certo a Elliott i conti tornerebbero. Secondo l’ultimo bilancio il fondo attraverso la scatola di controllo Project Redblack ha immesso nel club finanziamenti per 130 milioni che si aggiungono ai circa 400 degli anni precedenti. Se si somma il costo dell’operazione di acquisto circa 300 milioni ai quali però va sottratto il debito da 128 milioni che il Milan ha rimborsato a Elliott, siamo intorno ai 700 milioni di investimento complessivo. Il guadagno sul miliardo di cui si parla sarebbe di circa 300 milioni che è poi il ritorno classico che gli investitori di Elliott si aspettano da qualsiasi investimento, poco sopra il 10% annuo. Ma chi è Investcorp? Parliamo di un fondo di investimento fondato nel 1982 per aiutare le facoltose famiglie del Medio Oriente negli investimenti nei mercati più sviluppati.
ATTIVO IN ITALIA
Un asset manager alternativo con sede in Bahrein che gestisce circa 40 miliardi di asset lungo sei linee di business: dal private equity fino alle infrastrutture alla gestione del credito e al comparto immobiliare, e impiega 430 persone in 43 Paesi diversi. Da New York a Londra fino a Bahrain, Abu Dhabi, Riyadh, Doha, Mumbai e Singapore.
Negli anni Investcorp è stato molto attivo in Italia. Quasi sempre con delle classiche operazioni da private equity che prima acquistano, poi risanano e cedono con un ritorno importante. È successo prima con Gucci, quindi con Dainese, passato al private Carlyle e infine con Ceme il gruppo del pavese leader mondiale nella produzione di pompe e valvole per il caffè monodose passato a Investindustrial di Andrea Bonomi. Se adesso tocca al Milan lo sapremo a breve.
Antonio Balsamo è presidente del tribunale di Palermo. Riveste un ruolo prestigioso ed è proprio per questo che lo scorso anno ha tenuto lezioni di diritto per la Lumsa, l’università privata di ispirazione cattolica di Roma, per un totale di 80 ore. Lezioni ovviamente retribuite. E anche bene: 5.600 euro. Nello stesso periodo Damiano Spera, altro presidente di tribunale, questa volta di Milano, forniva «lezioni e coordinamento in convegni seminariali sulle “Nuove tabelle milanesi - Edizione 2021”» per la società editoriale e di consulenza Giuffrè Francis Lefebvre spa.
Un impegno circoscritto: 16 ore. E una retribuzione di riguardo: 4.500 euro. Non c’è d’altronde da sorprendersi: la società, nell’ultimo anno a disposizione (novembre 2020 - novembre 2021), ha commissionato consulenze a magistrati in ben 38 casi. Ma ovviamente non è l’unica: tra università, scuole di specializzazione e società di consulenze, fioccano incarichi extra-giudiziari per i giudici che, così, spesso devono dividersi tra l’attività ordinaria e quella straordinaria. E parliamo, come abbiamo visto, di cifre di tutto rispetto, anche più alte (e in alcuni casi non di poco) di un normale lavoratore, che si aggiungono a stipendi già di per sé significativi: secondo i dati più recenti, rispetto alla media delle retribuzioni lorde annue del pubblico impiego, la magistratura si colloca al top con 137.294 euro e 45 giorni di ferie, seguita a distanza dalla carriera prefettizia, con 94.293 euro.
È però doveroso, dicono alcuni, che autorevolezza e competenza vengano pagate il giusto. Principio sacrosanto. Il dubbio però è che, nonostante le regole del Csm – che autorizza i vari magistrati a tenere corsi, lezioni o consulenze – siano abbastanza stringenti, ci sia un ricorso eccessivo ai cosiddetti “incarichi extra-giudiziari” in un periodo peraltro in cui i tribunali, dopo lo stop delle attività dovuto al Covid-19, rischiano un pesante ingolfamento. Nell’ultimo anno (novembre 2020-novembre 2021) gli incarichi autorizzati sono stati ben 768. E in molti casi l’impegno orario, al di là delle retribuzioni, è stato imponente: abbiamo già detto del dottor Balsamo (80 ore). Ma stesso discorso si potrebbe fare anche per Pier Paolo Lanni, giudice a Verona, il quale tra il 2021 e il 2022 ha lavorato per 80 ore per l’Avvocatura dello Stato. L’incarico riguarda lo «studio ed elaborazione giurisprudenza Cedu».
E anche in questo caso il compenso non è male: 20 mila euro. In pratica, 250 euro a ora. Curioso anche il caso di Paolo Spaziani, magistrato presso la Corte di Cassazione: per 80 ore nel 2020, 80 nel 2021 e 80 nel 2022, però, lavora come «assistente di studio a tempo parziale del giudice costituzionale Giovanni Amoroso» (retribuzione di 27 mila euro). Senza dimenticare un altro aspetto non secondario: c’è anche chi nel tempo colleziona incarichi su incarichi. Ad oggi, secondo i dati pubblicati dal Csm, il record-man delle consulenze extra-giudiziarie è Giovanni Russo, procuratore aggiunto all’Antimafia, nell’ultimo triennio ha collezionato la bellezza di 26 incarichi. Solo nell’ultimo anno sono stati quattro. Non è andata male, però, neanche al giudice di Cassazione Giuseppe Pavich (23 incarichi dal 2018) e al collega Alessio Scarcella (19).
Per questa ragione in più occasioni in passato si è parlato di “rischio doppio lavoro”. E, stranamente, è un tema di cui, nonostante i referendum sulla giustizia e la riforma Cartabia, nessuno parla. Anche perché, se nella maggior parte dei casi a commissionare gli incarichi sono enti pubblici, in altri sono società private. Nel lungo elenco consultato da Verità&Affari spuntano vari atenei privati (dalla Luiss alla Bocconi fino alla Kore di Enna); società attive nell’editoria giuridica, come la Altalex Consulting o la già citata Giuffrè Editore; sindacati (in passato incarichi sono stati conferiti anche dall’Anaao Assomed, che raccoglie i medici dirigenti, e dalla Fedir, la Federazione dirigenti); società di assicurazioni e aziende attive nel mondo della sanità. O, ancora, multinazionali come la Wolters Kluwer, che si occupa di formazione professionale, esattamente come la Euroconference o la Liquid Plan. Non a caso c’è chi chiede da tempo una regolamentazione più vincolante. Uno su tutti è il parlamentare di Azione, Enrico Costa, che in più circostanze ha sottolineato come siano necessarie norme più chiare e stringenti. Senza dimenticare che si rischia di sottrarre tempo anche all’attività giudiziaria. I dati, d’altronde, parlano chiaro: a fine 2021 i processi pendenti nei vari gradi di giudizio erano 1.566.722 i penali, e 3.046.755 i civili (dati ministero della Giustizia).
Ciononostante la pianta organica dei magistrati ordinari conta 10.433 unità, di cui 1.431 sono posti vacanti. Costa in tempi non sospetti ha presentato vari atti parlamentari per chiedere una soluzione, vista la mole di arretrato, relativa a un altro fenomeno che, specie in questo periodo, potrebbe arrecare non pochi problemi: quello dei magistrati fuori ruolo. Accanto, infatti, agli incarichi extra-giudiziari, secondo l’ultimo aggiornamento del Csm sono ben 225 i giudici che, o perché collocati al Csm o alla Cassazione, o perché chiamati da altre istituzioni pubbliche o perché eletti (dal governatore pugliese Michele Emiliano fino all’onorevole di Italia Viva, Cosimo Maria Ferri) di fatto non prestano servizio in tribunale. Anche perché c’è chi pare non si accontenti e assomma la posizione fuori ruolo all’incarico extra-giudiziario, in una sorta di combo impazzita. Un esempio? Giovanni Tartaglia Polcini, dal 2014 consulente giuridico al ministero degli Esteri. Ma l’anno scorso ha chiesto anche di essere autorizzato dal Csm per due incarichi extra, uno con la Link University e uno con l’Università Telematica Fortunato. Sicuramente non si sarebbe potuto fare altrimenti.
È corso un brivido prima sulla schiena di molti ministri, ieri pomeriggio quando alle 17,27 la portavoce del presidente del Consiglio Mario Draghi ha inviato nella chat dei giornalisti che seguono Palazzo Chigi tre righe improvvise: «Consiglio dei ministri convocato alle ore 18.00. All’odg Comunicazioni del Presidente». Perfino le maiuscole messe un po’ a capocchia hanno contribuito all’agitazione: nessuno dei convocati ne sapeva nulla, e c’è stato anche chi ha temuto un fulmine a ciel quasi sereno: le dimissioni del presidente del Consiglio.
O ancora peggio in questi tempi di guerra. Il mistero si è chiarito nel giro di una mezzoretta: Draghi per la prima volta dopo molto tempo ha voluto battere un colpo da Draghi. Davanti ai ministri è apparso un premier irritato e anche un po’ stufo delle liturgie e dei freni messigli da una strana e litigiosa maggioranza. Così Draghi ha voluto fare vedere a tutti che quando vuole sa battere i pugni. Non sulla guerra, non sul gas e sul petrolio, ma a sorpresa su un argomento che non sembrava in questo momento proprio in cima all’agenda politica: il ddl concorrenza che starebbe andando un po’ troppo per le lunghe per via della norma sui balneari che non passa in Senato con il centrodestra che frena la liberalizzazione delle spiagge.
Può fare simpatia ed essere anche popolare il Draghi che batte i pugni, e può trovare non pochi sostenitori anche sul punto delle concessioni sulle spiagge. Certo, avere fatto correre un brivido non solo ai ministri (che nulla sapevano prima che iniziasse il consiglio), ma pure ai mercati per una vicenda che onestamente sembra minore rende un po’ più difficile capire questa enfasi. Può essere che i partiti stiano stufando chi li deve tenere insieme. Ma che il suo compito non potesse essere una passeggiata doveva essere noto a Draghi le due volte (un anno fa e pochi mesi fa) in cui ha accettato l’incarico datogli da Sergio Mattarella. Ed è anche giusto in un paese normale che sia faticoso tenere insieme una maggioranza politica innaturale, che rappresenta due Italie diverse e spesso contrapposte negli interessi e nelle idee.
L’anomalia in un sistema democratico è un governo di questo tipo, non che fatichino a stare insieme Lega e Pd, Forza Italia e Cinque stelle: questo è naturale che accada. Se Draghi quella fatica voleva risparmiarsi doveva porsi il problema nel giorno stesso in cui ha fatto la lista dei ministri, scegliendo uomini e donne che voleva lui senza passare attraverso i vertici dei partiti. Ora diventa una fatica in più per il presidente del Consiglio: se i ministri di Forza Italia - per fare un esempio - dicono ok, questo non comporta affatto che i gruppi parlamentari seguano l’accordo, anzi. Quindi per portare a casa i provvedimenti tocca fare due giri: quello inutile in consiglio dei ministri, e poi i lunghi incontri con i leader di partito a cui Draghi non si sottrae, vivendoli però con lo stesso piacere di uno a cui si chiede di passare a gambe nude in mezzo a un sottobosco di ortiche. Ieri sera c’è stata la dimostrazione plastica di questa situazione: Draghi ha fatto minacciare la fiducia sul ddl concorrenza, che in effetti risale al dicembre scorso ed è ancora in prima lettura in commissione, sostenendo che l’approvazione è necessaria per ottenere i miliardi del PNRR e che questa era la missione primaria del suo esecutivo.
Gli hanno risposto con una cortese pernacchia i capigruppo di Forza Italia e Lega in Senato che in un comunicato hanno rivendicato la loro difesa dei balneari, aggiungendo ipocriti e pungenti allo stesso tempo: «Siamo ottimisti che si possa trovare un accordo positivo su un tema che, peraltro, non rientra negli accordi economici del PNRR». Il centrodestra vuole lo stralcio della norma, il governo non lo concederà e metterà la fiducia sul testo come è oggi convinto delle sue ragioni, che sono identiche a quelle della procedura di infrazione europea verso l’Italia e quelle con cui il Consiglio di Stato italiano ha bocciato ipotesi alternative. Chi vincerà il braccio di ferro? Se devo scommettere un euro in questo momento lo punto su Draghi, perché dallo sfogo di ieri non tornerà indietro e in questo momento una crisi politica danneggerebbe di più chi la va a provocare. Le spiagge interesseranno di sicuro i 100 mila che vi lavorano, ma agli altri milioni di italiani interessa solo potere trovare una sdraio e un ombrellone dove tirare il fiato qualche giorno con le proprie famiglie la prossima estate. Vincerà Draghi, e poi si metterà a posto in qualche modo per salvare la faccia a tutti. Ma questa giornata resterà come una ferita importante a pochi mesi dalla fine della legislatura. Passata la buriana sulla concorrenza resterà un governo davvero balneare a trascinarsi fino alla imminente fine...
«Definito Fab figlio de p*** madre». «Minkia. In spagnolo? Sapevano che l’ho revocato?». «No. Detto io. N. 1 e Sostituto entusiasti». E ancora: «Tu per loro sei l’amministratore di Classe A». Il 22 dicembre del 2018, poco prima delle 19, l’avvocato Manuele Intendente riferisce a Gianluigi Torzi dell’incontro da poco terminato con Papa Francesco e il Sostituto della Segreteria di Stato Edgardo Pena Parra.
E’ la dimostrazione che il Vaticano fin dal 22 dicembre del 2018 sapeva, ai livelli più alti, che i suoi funzionari erano stati esautorati dalla gestione del palazzo di Londra e che l’immobile era in mano al solo Torzi. Gli stessi vertici che hanno di fatto avallato questa decisione. Un passaggio importante, che permette di inquadrare lo scandalo dei fondi vaticani, a tre anni e mezzo di distanza, sotto una luce nuova.
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