2018-09-25
«Mi credevano “sfigato”, ho deciso di diventare il killer dello sci nautico»
Pietro De Maria, fresco campione d'Europa, si racconta. Dalla disgrazia che lo rese paraplegico 23 anni fa ai tanti trionfi: «Non toglierei una sola delle lacrime che ho versato».Gemma dorme con la guancia appoggiata al suo petto abbronzato da guerriero. Ha meno di un mese ed è già un sole che non tramonta mai per Pietro De Maria, 46 anni, due volte campione del mondo, tre volte campione d'Europa, tre record mondiali nello sci nautico, «slalom, accelerazione fino a 70 km/h perché la velocità è la mia dolce maledizione». C'è un dettaglio, la sua potenza è tutta di testa e di braccia perché le gambe non funzionano, sono un'appendice quasi inerte, simbolo di un destino problematico, di una vita a ostacoli, di una lunga traversata del deserto per arrivare fin qui a sorridere pacificato, qualche centimetro dagli occhi chiusi di sua figlia.Davanti a noi, in una casa di Tremezzina inondata dai riverberi del lago di Como, c'è un campione felice di avere lottato e vinto, di avere trasformato il dramma in opportunità, di avere spostato le montagne col pensiero. Perché De Maria ne ha dovuti sgretolare di massi, simili a quello che lo aspettava dietro un guardrail della statale fra Albenga e Alassio una sera di agosto del 1995 per provare a rovinargli la vita. Alex Zanardi è un eroe celebrato, un testimonial della disabilità che vince sul pregiudizio; ma i tanti piccoli Zanardi nascosti nelle pieghe del dolore e della riscossa valgono ancora di più. «Gemma è nata il 28/8/2018, all'ottavo tentativo di fecondazione assistita e lì sulla sedia c'è il pettorale che avevo a Roquebrune 20 giorni fa quando ho vinto l'Europeo. Numero otto. Poi dicono che le coincidenze numeriche non hanno senso. I miei incubi cominciarono una notte di marzo di tanti anni fa. L'otto marzo».Cosa accade in quel giorno lontano?«Piove, siamo in quattro in auto, una Fiat Ritmo Abarth, con un programma da ragazzi spensierati: andare in pizzeria e poi al bowling di Porlezza. Si buca una gomma, sollevo la macchina senza il cric; facevo canottaggio agonistico. Ripartiamo, non stiamo andando forte, ma l'auto sbanda sul bagnato, finisce nel fossato sul ciglio della strada, si ribalta tre volte. Con noi c'è anche la mia amica del cuore, seduta dietro, avevo insistito perché venisse. Mi giro e non la vedo più, sbalzata fuori. Morì, si chiamava Sara come la mia futura moglie. Non guidavo io, ma non me lo sono mai perdonato».Quando la vita presenta il conto a 19 anni è un terremoto.«Leggo la compassione negli occhi di tutti, non riesco a superare lo shock, lo metto solo da parte. Mi diplomo in ragioneria, suono il corno nella banda del paese, aiuto i miei genitori nel panificio di famiglia. Poi lo Stato chiama: un anno di militare in Marina, altri due nella Guardia di finanza, motorista navale di stanza a Savona. Un periodo appagante in cui tutto ruotava attorno allo sport».In che senso?«Nei momenti liberi prendo il brevetto di bagnino, di salvamento a nuoto, di sub. E poi rampichino, moto da cross, una Yamaha che è un missile. Ho sempre avuto confidenza con la velocità. Cinque giorni prima dell'incidente che mi toglierà l'uso delle gambe, davanti all'orizzonte al tramonto, faccio l'inventario. Penso a Sara e dico a me stesso: tutto questo non me lo merito».Arriva il giorno del giudizio.«Ero di servizio alla cerimonia del Cristo del Mare a Bergeggi. Alla fine prendo la moto e su quel tratto maledetto fra Albenga e Alassio, vicino a una cava di ghiaia dove c'erano stati altri incidenti, un'auto mi taglia la strada. Per evitarla vado dritto, oltre il guardrail ho un incontro ravvicinato con un masso. Rottura delle costole, della scapola, dello sterno, cassa toracica schiacciata, trauma cranico, due giorni in coma. Paraplegia da politraumatismo. Quando avvisano i miei, i carabinieri dicono: non affrettatevi, potrebbe essere già morto».E invece no, c'è qualcuno lassù che la prende per i boccoli.«Quando mi sveglio dal coma non ricordo niente. Vedo il viso di mia mamma Agostina e le faccio una sola domanda: ero da solo? Lei risponde sì e io sussurro: meno male. Avevo ancora il senso di colpa».Quando le annunciano che non potrà camminare?«Te ne accorgi da solo. Non sento nulla, non avverto più la presenza del braccio sinistro e delle gambe. Capisco subito di essere nella cacca. Chi veniva a trovarmi piangeva o sveniva ed ero io a dover raccontare le barzellette agli altri per tenerli su di morale».Il momento più difficile?«Qualche tempo prima, partendo per Sabaudia in moto, avevo detto a mia madre che mi faceva le raccomandazioni sulla velocità: non preoccuparti, se faccio un incidente mi sparo. I miei vanno a cercare la pistola d'ordinanza e la trovano al suo posto. Mai pensato neanche per un attimo di cavarmela così. Dovevo ricominciare da sottozero, l'avrei fatto».Da dove arrivava la forza interiore?«Dall'abitudine alla fatica. Mio fratello e io ci alzavamo alle due di notte per dare una mano nel forno e alle otto andavamo a scuola. Mai avuto paura di rimboccarmi le maniche. Ho fatto in quattro mesi d'ospedale la rieducazione che si solito si completa in un anno, ero l'orgoglio della fisioterapista. Per favore continuiamo a parlare in giardino, voglio fare dieci minuti di parallele».Perché proprio adesso?«Perché chi è condannato a guardare il mondo da un metro e venti centimetri su una carrozzina, ogni tanto sente il bisogno di guardarlo da uno e settanta. Questione di autostima».Cosa significa ripartire da sottozero?«Significa fare i conti con una nuova condizione. Il disagio che la paraplegia crea negli altri mi dava fastidio. Avvertivo tenerezza nelle parole, ma ipocrisia negli occhi; forse avrei fatto meno fatica a ripartire dall'estero. È inevitabile, per gli amici c'è un prima e un dopo. Gli stessi che il giorno prima piangevano, il giorno dopo mettevano l'auto nel parcheggio disabili destinato a me. E io chiamavo i carabinieri. Una guerra».La svolta è nello sport e in un'altra Sara, biologa.«Sono ripartito dallo sci alpino, un guscio in fibra di vetro con le stampelle che finiscono con piccoli sci. Anche qui per il fascino della velocità. E un giorno sul bordo di una piscina ho incontrato la donna della mia vita. Ci siamo lasciati e ritrovati più volte, con lei tutto è magia. Ma nel 1998 ci fu un altro colpo di scena».Quale?«L'università, un'interfacoltà di agraria e farmacia alla Statale di Milano: tecniche erboristiche. Coda cavallina, salvia, rosmarino: era come fare gli esami su me stesso, mi curavo come un secolo fa. Una vita senza farmaci, non ho più visto un ospedale. Mi cambiò l'esistenza, tranne che per le barriere architettoniche. Arrivai in Statale e mi caddero le braccia».Cosa vide?«I corsi si tenevano in una sede staccata, in un'aula in cima a una scala senza ascensore. Protestai, i docenti mi risposero candidi: ma lo va a dire lei agli altri che le lezioni non partono per colpa sua? Per colpa mia. Alla fine del braccio di ferro trovarono un'aula al pianterreno».Comincia la risalita. Dove ha trovato la forza di volontà?«Sta dentro di te, talvolta ben nascosta. Ma da solo non ce l'avrei fatta. Sono stato in Brasile da João de Deus, un guaritore che ha creato un ospedale spirituale di meditazione e preghiera. In un periodo di crisi sono andato in India da Sai Baba e ho visto persone vivere in povertà assoluta, magari senza gambe, che si muovevano su una tavola di legno con le rotelle sotto. Lamentarmi per la mia condizione sarebbe stato folle. Infatti quando sono tornato ho fatto 18 esami in 12 mesi e mi sono laureato».Poi lo sci nautico, la lunga stagione da campione.«Cominciai per mantenere in forma i muscoli, è meno costoso dello sci. Un ragazzo paraplegico, durante un evento benefico a Cattolica con il comico Paolo Cevoli, dal palco mi presentò come un “amico sfigato". Mi ha fatto male. E io, che volevo solo essere un turista dello sci nautico, da quell'istante sono diventato l'assassino dello sci nautico».Cosa rappresenta Gemma per voi?«Dire l'arrivo in porto, la vittoria più bella, è ancora troppo poco. Dopo i due incidenti per me la razionalità era tutto, esisteva solo l'oggi, emotività zero. Lei mi ha restituito la dolcezza, mi ha fatto capire che la traversata del deserto è finita. Voglio guarire, tornare a camminare. Ma il mio vivere quotidiano è già in armonia col mondo».Gli incidenti, i drammi. Poi le vittorie nello sport e nella vita. Tutto questo ha un senso?«Ventitré anni dopo non toglierei neppure una delle lacrime che ho versato. È la mia, è la nostra vita, e sono orgoglioso di viverla ogni giorno. Oggi sento il cambio di temperatura nelle gambe in piscina, ho di nuovo un obiettivo. E so che Gemma può darmi la forza per raggiungerlo».
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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