2021-01-12
        Merkel e Macron non ci stanno a finire zittiti come Trump
    
 
        Donald Trump (Getty images)
    
Germania e Francia contro la censura al presidente degli Usa La linea dei big Ue manda in crisi gli intellò integralisti nostraniParler, la piattaforma di condivisione alternativa a Facebook e Twitter usata dai fan di The Donald, rimossa dalla Rete Whatsapp farà incetta di dati sensibili per aumentare la pubblicità. Sospesi i finanziamenti a chi ha votato contro Joe BidenLo speciale contiene due articoliL'Europa, a sorpresa, si schiera contro la brutale censura decretata dai social network nei confronti di Donald Trump. A difendere il diritto di parola del presidente degli Stati Uniti, anche online, ieri Angela Merkel ha criticato la decisione di Twitter, così come quella di Facebook e di Instagram, che avevano stabilito di «sospendere l'account di Trump almeno fino al 20 gennaio», il giorno in cui passerà le consegne al successore Joe Biden. Forte probabilmente di quei primi 35 anni di vita trascorsi sotto il regime comunista della Germania Est, la cancelliera ha dichiarato che «la libertà di opinione è un elementare diritto fondamentale», e «spetta soltanto al legislatore, quindi allo Stato, definire il quadro all'interno del quale la comunicazione sui social media possa aver luogo». La Merkel ha ammesso che «le grandi piattaforme digitali non possono non agire di fronte a contenuti che incitano all'odio e alla violenza», ma poi ha aggiunto che «la possibilità d'interferire nella libertà di espressione è possibile solo nei limiti definiti dalle leggi, e non può venire dalla decisione autonoma e opaca di un'impresa privata». La presa di posizione della Merkel è tanto più significativa se si considera l'avversione che la Kanzlerin ha manifestato nei confronti del presidente americano, cui non ha mai espresso vicinanza politica, né stima personale. Ma ieri non è stata la sola ad alzarsi e parlare. Anche il ministro francese dell'Economia Bruno Le Maire ha criticato lo stop imposto dai social network alla Casa Bianca: «Mi sconvolge», ha detto Le Maire, «perché la regolamentazione dei giganti del Web non può essere fatta dalla stessa oligarchia digitale». Poi ha lanciato quasi un anatema: «L'oligarchia digitale è una delle grandi minacce che gravano su Stati e democrazie». E subito dopo anche le istituzioni europee si sono schierate. Il commissario Ue al mercato interno, Thierry Breton, ha bollato il blocco dei social media come «privo di controllo legittimo e democratico» e sostenuto sia «sconcertante» che i loro azionisti, da Mark Zuckerberg a Jack Dorsey, possano «staccare la spina dell'altoparlante del presidente degli Stati Uniti senza alcun controllo: questa non è solo una conferma del potere delle piattaforme online, ma mostra anche profonde debolezze nel modo in cui la nostra società è organizzata nello spazio digitale». E Manfred Weber, capogruppo del Partito popolare nell'Europarlamento, ha chiesto che l'Unione europea «non lasci che Facebook e Twitter decidano cosa rientri nei limiti dell'accettabile», perché «non possiamo permettere siano loro a decidere come discutere e non discutere, o che cosa si possa e cosa non si possa dire in un discorso democratico».È evidente che questo coro di voci negative ha un retroterra ideale nel tentativo europeo, fin qui abortito, d'imporre il giusto carico fiscale ai giganti statunitensi dell'online, che pagano tasse in misura indecorosamente bassa: da anni, a Bruxelles e nelle principali capitali del Vecchio continente, si discute a vuoto di una «Web tax» che ponga un limite alla colossale evasione tributaria dei social network, e alla loro concorrenza sleale. Che succederebbe se, magari in disaccordo per un provvedimento di questo tipo, gli stessi social agissero contro l'accout dell'Eliseo o della Cdu? Nel frattempo, le tante voci europee che ieri si sono levate hanno intanto avuto l'effetto di zittire d'un colpo la canea dei commentatori anti-Trump e pro-censura. Mentre al Nasdaq il titolo di Twitter è piombato dai 51,50 dollari dell'8 gennaio ai 48 di ieri (-6,8%), e quello di Facebook è sprofondato da oltre 267 dollari a 260 (-2,6%), da ieri sono in crollo anche le quotazioni dei tanto esaltati sostenitori della ghigliottina mediatica. Forse spiazzati dalle giuste perplessità europee, sono scomparsi, svaniti, evaporati. E sono tanti. Come Gianni Riotta, che sulla Stampa aveva giustificato la censura di Twitter e Fb addirittura come «tardiva azione di autodifesa, per evitare ulteriori tragiche violenze e conseguenze dirette agli azionisti». O Riccardo Luna, che su Repubblica aveva scritto: «Espellere Trump non salverà il mondo, ma servirà a dire che i social network non possono essere usati per attentare alla democrazia». Per non parlare dei cronisti dei tg Rai, generalmente inclini allo spellamento di mani per il silenziatore imposto al presidente. O di Wired, la rivista di tecnologia che passa come «la Bibbia di Internet», impancatasi a decretare che «le misure prese da Facebook e Twitter non sono censura, ma la tardiva e insufficiente reazione contro un uomo che ha infranto ogni regola possibile». È un fronte che ha dimenticato come Fb e gli altri social network siano stati e restino il più denso brodo di coltura del terrorismo islamico, cui hanno garantito una vetrina per l'indottrinamento, il reclutamento e l'addestramento di migliaia di fanatici e kamikaze. Né che online possano parlare impunemente gruppi terroristici come Hamas, o l'ayatollah iraniano Seyyed Ali Khamenei, che ogni giorno predicano la distruzione dello Stato di Israele. O che decine di dittatori, dal presidente venzuelano Nicolas Maduro al «caro leader» nordcoreano Kim Jong-un, siano liberi di dire la loro, senza filtri. Un fronte che non s'è certo sognato di zittire i grillini, quando su internet minacciavano di «circondare il Parlamento», o che l'avrebbero «aperto come una scatola di tonno». E non ha silenziato Davide Casaleggio, che del Parlamento postula l'inutilità. Eppure, almeno quanto a parole sparse online, nessuno tra loro sembra meno pericoloso di Trump.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/merkel-e-macron-non-ci-stanno-a-finire-zittiti-come-trump-2649879396.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="solo-affari-dietro-la-finta-liberta-di-pensiero" data-post-id="2649879396" data-published-at="1610405445" data-use-pagination="False"> Solo affari dietro la finta libertà di pensiero Sparisce dalla rete il social network «alternativo» Parler, approdo negli ultimi tempi di milioni di sostenitori del presidente uscente Donald Trump. Negli scorsi giorni, in seguito alla pubblicazione di messaggi a sostegno dei personaggi che hanno fatto irruzione a Capitol Hill, Apple e Google avevano rimosso la piattaforma dai rispettivi store, rendendone di fatto impossibile l'installazione da qualsiasi smartphone. Ieri è arrivata la batosta definitiva: Amazon ha staccato la spina dei server che ospitavano Parler, cancellandolo di fatto da internet. Un colpo durissimo per una piattaforma che si definisce il «social media della libertà di pensiero» nato per ospitare contenuti «senza pregiudizi, senza violenza e senza censura». Ma la scomparsa di Parler non può e non deve preoccupare solo i 12 milioni di utenti iscritti, 8 milioni dei quali solo negli Stati Uniti. Gli interrogativi che sorgono a seguito della sua cancellazione sono molteplici. Prima di tutto il nodo della concorrenza. Viviamo tempi nei quali la libertà di mercato, sulla quale si basa anche buona parte del sogno americano, viene considerata alla stregua di un dogma di fede. E nei quali la monetizzazione basata sui comportamenti sui social non scandalizza nessuno. Proprio in questi giorni, Whatsapp ha modificato l'informativa privacy per consentire l'interscambio dei dati con Facebook. Una modifica che grazie al Gdpr non ha effetti in Ue, ma lancia un segnale molto chiaro. Possibile che un'azienda venga letteralmente spazzata via nell'arco di pochi giorni senza che nessuno sollevi obiezioni, tra l'altro a seguito della decisione unilaterale di tre giganti del web? Una vicenda che, messa così, sempre più simile al meccanismo «pesce grande mangia pesce piccolo». C'è poi la spinosissima tematica relativa alla liceità dei contenuti. Ammesso e non concesso che Parler abbia autorizzato la pubblicazione di messaggi che incitano all'odio, basta questo per chiudere a tempo indeterminato i battenti della piattaforma? Chiunque abbia una minima confidenza con i social network sa perfettamente con quale facilità ci si possa imbattere in ogni tipo di messaggio. Si va dai canali di pedofili su Telegram, alla pornografia su Twitter, ai suicidi in diretta su Facebook, fino ai cartoni animati «fake» pubblicati su Youtube per il semplice gusto di spaventare i bambini. Paradossalmente, gran parte del «lavoro sporco» viene scaricata sui singoli utenti, chiamati a segnalare al gestore la presenza di materiale inappropriato o di utenti che non rispettano le regole. Senza nessuna garanzia sul fatto che vengano presi provvedimenti. Spesso e volentieri, infatti, tocca all'iscritto bloccare i fastidiosi troll – in gergo, utenti che si divertano a insultare per provocare la discussione – che poi possono proseguire indisturbati la loro attività a danno di altri malcapitati. Se è sufficiente schiacciare un tasto per spegnere su internet la voce di milioni di persone, quando invece esistono luoghi ben più «libertini» di Parler, a cosa sono serviti i lunghissimi discorsi e gli interminabili dibattiti sulla sicurezza delle piattaforme tenuti al Congresso e al Parlamento europeo? E qui veniamo all'argomento più controverso, vale a dire la capacità dei colossi del tech di influenzare la politica. Un antipasto lo abbiamo avuto a seguito della decisione di Twitter di contrassegnare i post nei quali Donald Trump criticava l'esito delle elezioni. Il blocco del suo profilo da una piattaforma che, volenti o nolenti, si è salvata da una lenta quanto inesorabile agonia anche grazie ai suoi popolarissimi tweet, è solo una naturale conseguenza degli eventi dei mesi scorsi. Se è vero – e nessuno può negarlo – che i social media sono gestiti e regolati da privati liberi di fare come gli pare, che senso ha dunque parlare di libertà di pensiero? C'è di più, perché non si tratta semplicemente di censura. L'approccio dei Zuckerberg, dei Dorsey e dei Bezos ha pesanti ricadute anche sulla vita quotidiana e sul dibattito pubblico. Proprio in questi giorni è in atto un imponente boicottaggio a danno degli esponenti politici che si sono espressi contro la certificazione dell'elezione presidenziale di Joe Biden. Alcune importanti realtà come la catena alberghiera Marriott e l'associazione Blue cross blue shield, consorzio dell'assistenza sanitaria, hanno stabilito con effetto immediato di interrompere le donazioni a favore dei legislatori che si sono opposti alla ratifica della nomina di Biden. «Siamo convinti che gli eventi del Campidoglio siano stati organizzati per minare un'elezione legittima e giusta», ha dichiarato un portavoce di Marriott, «e per questo motivo sospenderemo i trasferimenti ai politici che hanno votato contro la certificazione».
        
    (Ansa)
    
«Alla magistratura contabile voglio dire che sono rimasta francamente un po’ incuriosita di fronte ad alcuni rilievi, come quello nel quale ci si chiedeva per quale ragione avessimo condiviso una parte della documentazione via link, perché verrebbe voglia di rispondere “perché c’è internet”. Dopodiché il governo aspetta i rilievi, risponderà ai rilievi, sia chiaro che l’obiettivo è fare il ponte sullo Stretto di Messina, che è un’opera strategica, sarà un’opera ingegneristica unica al mondo». «Noi siamo eredi di una civiltà che con i suoi ponti ha meravigliato il mondo per millenni – ha aggiunto Meloni – e io non mi rassegno all’idea che non si possa più fare oggi perché siamo soffocati dalla burocrazia e dai cavilli».
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        (Ansa)
    
«È bene che la magistratura, come io auspico, esponga tutte le sue ragioni tecniche e razionali che possono meditare contro questa riforma. Ma per l’amor del cielo non si aggreghi – come effettivamente ha già detto, ammesso, e io lo ringrazio, il presidente Parodi – a forze politiche per farne una specie di referendum pro o contro il governo. Questo sarebbe catastrofico per la politica, ma soprattutto per la stessa magistratura». «Mi auguro che il referendum sulla separazione delle carriere venga mantenuto in termini giudiziari, pacati e razionali e che non venga politicizzato nell’interesse della politica ma soprattutto della magistratura. Non si tratta di una legge punitiva nei confronti della magistratura, visto che già prospettata da Giuliano Vassalli quando era nella Resistenza e ha rischiato la vita per liberare Pertini e Saragat».
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