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2021-07-31
McCarrick incriminato per pedofilia. Le domande di Viganò tornano attuali
Theodore McCarrick (Ansa)
E alla fine arrivò la giustizia civile. L'ex cardinale americano Theodore McCarrick, che papa Francesco dopo un lunga e torbida vicenda ha spretato nel 2019, dovrà comparire davanti a un tribunale il prossimo 26 agosto perché sotto indagine penale per pedofilia. McCarrick, oggi 91 anni, è chiamato in causa perché avrebbe molestato sessualmente un ragazzo di 16 anni durante un ricevimento di nozze del 1974 al college di Wellesley, nel Massachusetts.
Per la prima volta l'ex porporato, già arcivescovo di Washington e potentissimo uomo di chiesa (per gestione di denari e diplomazia internazionale), si trova a dover rispondere di un'accusa che in qualche modo il processo canonico ha già riconosciuto: McCarrick è stato trovato colpevole, nel processo condotto dall'ex Sant'Uffizio che ha portato appunto alla laicizzazione del prelato, di «peccati contro il sesto comandamento con minori e con adulti, con l'aggravante dell'abuso di potere». Ma tutto ciò si è verificato solo dopo che il celebre memoriale che l'ex nunzio negli Stati Uniti, monsignor Carlo Maria Viganò, pubblicò proprio sulla Verità il 26 agosto 2018, un memoriale in cui, tra l'altro, Viganò diceva che a Newark «era voce ricorrente in seminario che l'arcivescovo “shared his bed with seminarians“», ovvero condivideva il letto con i seminaristi. Emergeva piano piano una serialità di abusi di potere di natura sessuale condotti da McCarrick con adulti, e poi si scoprirà anche con minori, come appunto il caso di cui si occuperà ora anche un tribunale civile. Questa la melma che verrà fuori sfondando un muro di omertà che, indubbiamente, il primo memoriale Viganò ha aiutato a sgretolarsi.
Che McCarrick sia condotto ora alla sbarra per rispondere di quest'accusa in qualche modo dimostra ancora una volta che le voci che da decenni si rincorrevano sulla sua condotta erano ben più di chiacchiere malevole. In fondo, le affermazioni dell'ex nunzio Carlo Maria Viganò sul fatto che molti sapevano (nunzi apostolici, prefetti di curia, segretari di Stato e persino, secondo Viganò, i Papi), al di là del merito nelle singole circostanze, sembrano così trovare una ulteriore indiretta conferma. E soprattutto rafforzano l'interrogativo fondamentale del memoriale Viganò: esiste forse una lobby che permette a personalità come McCarrick di arrivare a posizioni così decisive all'interno del potere ecclesiastico? Secondo quello che scrisse Viganò si tratterebbe di «reti di omosessuali, ormai diffuse in molte diocesi, seminari, ordini religiosi, ecc., che agiscono coperte dal segreto e dalla menzogna con la potenza dei tentacoli di una piovra e stritolano vittime innocenti, vocazioni sacerdotali e stanno strangolando l'intera Chiesa». Difficile dire come stiano davvero le cose, anche perché il tema sembra scomparso dai radar ecclesiali, nonostante le voci che seguirono il famoso faldone che Benedetto XVI consegnò al successore Francesco, e che avrebbe dovuto contenere il dossier redatto da tre cardinali incaricati da papa Ratzinger nel 2012, all'epoca del primo Vatileaks.
Sta di fatto che McCarrick è stato uomo chiave della chiesa americana e punto di riferimento di molti prelati che sono stati o sono ancora ai vertici di quella chiesa e anche della Chiesa universale. Lo è stato per decenni e in maniera decisiva dal 2000, quando venne nominato arcivescovo di Washingotn. Ebbe poi un appannamento nel 2008 con le sanzioni restrittive informali a lui comminate da Benedetto XVI, proprio per quel rincorrersi di voci sulla sua condotta, ma poi ritornò in piena attività dopo l'elezione di Francesco nel 2013, viaggiando in tutto il mondo a nome della Chiesa e concentrando la sua attività su due ambiti: i rapporti con la Cina e il dialogo con l'islam. Fino almeno al 2018 l'attività di Theodore McCarrick è stata importante, pur avendo su di sé un ombra che era sotto gli occhi di molti.
Peraltro in questi giorni proprio dagli Stati Uniti sono arrivate notizie che, in un certo senso, ripropongono ancora quella domanda. Sono state annunciate le dimissioni del segretario generale della Conferenza episcopale a stelle e strisce, monsignor Jeffrey Burrill, in quanto, ha dichiarato il capo dei vescovi Usa, monsignor Josè Gomez, si è venuti a conoscenza di suoi «possibili comportamenti scorretti». Secondo un'inchiesta giornalistica del sito The Pillar, pur non essendoci evidenze di condotte con minori, il monsignore avrebbe frequentato bar gay e residenze private con l'ausilio di una popolare app per incontri, Grindr, sul suo smartphone durante lo svolgimento dei suoi uffici (tra l'altro è stato incaricato anche per aiutare a coordinare una risposta dei vescovi Usa allo scandalo di abusi sessuali).
Anche se ciò non fosse confermato, resta la domanda. Com'è possibile che a questi livelli di potere ecclesiale possano arrivare sacerdoti con condotte sessuali in contrasto con la loro condizione di preti? Esiste quella rete di protezione fra religiosi in posizioni di autorità che si cooptano e si coprono a vicenda?
Il Vaticano fa un dispiacere alla Cina
La Santa Sede inizia ad allontanarsi dalla Cina? Papa Francesco ha nominato come membro della pontificia Accademia delle scienze il professore taiwanese Chen Chien jen: epidemiologo attivo presso l'Accademia Sinica a Taipei e formatosi negli Stati Uniti, è stato ministro della Salute ai tempi della Sars e vicepresidente di Taiwan dal 2016 all'anno scorso. In particolare, soprattutto da quando è scoppiata la pandemia del Covid-19, ha espresso delle posizioni non poco severe nei confronti della Cina.
A maggio 2020, Chen Chien jen accusò infatti la Repubblica popolare di aver bloccato la partecipazione di Taiwan, in qualità di osservatore, all'assemblea dell'Oms. «Sfortunatamente, per ragioni politiche, i 23 milioni di persone di Taiwan sono diventate orfane nel sistema sanitario globale», dichiarò. «L'Oms», aggiunse, «presta troppa attenzione alla politica e ha dimenticato la propria professionalità e neutralità. Questo è abbastanza deplorevole». Una posizione, quella di Chen Chien jen, che, a ben vedere, non si discostava poi molto dalle tesi all'epoca sostenute dall'allora presidente americano, Donald Trump. Inoltre, come accennato, l'epidemiologo è stato per quattro anni il vice dell'attuale presidente taiwanese, Tsai Ing wen: donna notoriamente battagliera nei confronti della Repubblica popolare.
Alla luce di questi elementi, è difficile considerare la nomina di Chen Chien jen una questione squisitamente tecnica. Ricordiamo infatti che, nonostante l'opposizione dell'amministrazione Trump, la Santa Sede avesse deciso, lo scorso ottobre, di rinnovare il controverso accordo sulle nomine dei vescovi, siglato nel 2018 con il governo cinese. Un accordo che, almeno finora, non ha portato grandi miglioramenti alla condizione dei cattolici in Cina. E proprio tale distensione con la Repubblica popolare ha continuato a preoccupare gli Stati Uniti anche dopo l'uscita di Trump dalla Casa Bianca.
In questi mesi, Joe Biden ha più volte criticato il Dragone sulla questione dei diritti umani e ha anche adottato alcune misure severe (come la blacklist di 59 aziende cinesi stilata a giugno). Attriti tra Washington e Pechino continuano poi a registrarsi anche sul tema dell'origine del Covid-19. Un eccessivo avvicinamento del Vaticano alla Cina turba d'altronde gli americani sotto due punti di vista. A livello generale, temono che Pechino possa incrementare il proprio prestigio politico e (conseguentemente) il proprio soft power. A livello particolare, ritengono che la Repubblica popolare possa esigere delle contropartite, facendo magari pressioni sul Vaticano per spingerlo a rompere diplomaticamente con Taiwan. Del resto, proprio il Vaticano, secondo Asia News, avrebbe fatto ultimamente mancare il suo sostegno a Taipei in sede di assemblea dell'Oms.
Per quanto dunque all'inizio la Santa Sede probabilmente sperasse che con Biden alla Casa Bianca la linea statunitense su Pechino si ammorbidisse, gli eventi hanno preso alla fine un altro corso. In tal senso, la Reuters rivelò che, durante la sua visita in Vaticano a giugno, il segretario di Stato americano, Tony Blinken, avesse discusso di «diritti umani e libertà religiosa in Cina». Argomenti che sarebbero da lui stati affrontati non solo nel colloquio con il segretario di Stato, Pietro Parolin, e l'arcivescovo Paul Gallagher, ma anche in quello con il Pontefice. Non si può quindi escludere che, proprio in quella visita, Blinken abbia spinto per un (almeno parziale) riposizionamento della politica estera vaticana.
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L'ex cardinale Usa dovrà rispondere pure alla giustizia civile. Il muro di omertà era caduto grazie al memoriale pubblicato dalla Verità. In cui l'ex nunzio ipotizzava anche l'esistenza di una lobby oscura tra ecclesiastici.Bergoglio porta nella pontificia Accademia delle scienze il taiwanese Chen Chien jen. Ex ministro e vicepresidente del suo Paese, da sempre critico verso il Dragone.Lo speciale contiene due articoli.E alla fine arrivò la giustizia civile. L'ex cardinale americano Theodore McCarrick, che papa Francesco dopo un lunga e torbida vicenda ha spretato nel 2019, dovrà comparire davanti a un tribunale il prossimo 26 agosto perché sotto indagine penale per pedofilia. McCarrick, oggi 91 anni, è chiamato in causa perché avrebbe molestato sessualmente un ragazzo di 16 anni durante un ricevimento di nozze del 1974 al college di Wellesley, nel Massachusetts.Per la prima volta l'ex porporato, già arcivescovo di Washington e potentissimo uomo di chiesa (per gestione di denari e diplomazia internazionale), si trova a dover rispondere di un'accusa che in qualche modo il processo canonico ha già riconosciuto: McCarrick è stato trovato colpevole, nel processo condotto dall'ex Sant'Uffizio che ha portato appunto alla laicizzazione del prelato, di «peccati contro il sesto comandamento con minori e con adulti, con l'aggravante dell'abuso di potere». Ma tutto ciò si è verificato solo dopo che il celebre memoriale che l'ex nunzio negli Stati Uniti, monsignor Carlo Maria Viganò, pubblicò proprio sulla Verità il 26 agosto 2018, un memoriale in cui, tra l'altro, Viganò diceva che a Newark «era voce ricorrente in seminario che l'arcivescovo “shared his bed with seminarians“», ovvero condivideva il letto con i seminaristi. Emergeva piano piano una serialità di abusi di potere di natura sessuale condotti da McCarrick con adulti, e poi si scoprirà anche con minori, come appunto il caso di cui si occuperà ora anche un tribunale civile. Questa la melma che verrà fuori sfondando un muro di omertà che, indubbiamente, il primo memoriale Viganò ha aiutato a sgretolarsi.Che McCarrick sia condotto ora alla sbarra per rispondere di quest'accusa in qualche modo dimostra ancora una volta che le voci che da decenni si rincorrevano sulla sua condotta erano ben più di chiacchiere malevole. In fondo, le affermazioni dell'ex nunzio Carlo Maria Viganò sul fatto che molti sapevano (nunzi apostolici, prefetti di curia, segretari di Stato e persino, secondo Viganò, i Papi), al di là del merito nelle singole circostanze, sembrano così trovare una ulteriore indiretta conferma. E soprattutto rafforzano l'interrogativo fondamentale del memoriale Viganò: esiste forse una lobby che permette a personalità come McCarrick di arrivare a posizioni così decisive all'interno del potere ecclesiastico? Secondo quello che scrisse Viganò si tratterebbe di «reti di omosessuali, ormai diffuse in molte diocesi, seminari, ordini religiosi, ecc., che agiscono coperte dal segreto e dalla menzogna con la potenza dei tentacoli di una piovra e stritolano vittime innocenti, vocazioni sacerdotali e stanno strangolando l'intera Chiesa». Difficile dire come stiano davvero le cose, anche perché il tema sembra scomparso dai radar ecclesiali, nonostante le voci che seguirono il famoso faldone che Benedetto XVI consegnò al successore Francesco, e che avrebbe dovuto contenere il dossier redatto da tre cardinali incaricati da papa Ratzinger nel 2012, all'epoca del primo Vatileaks.Sta di fatto che McCarrick è stato uomo chiave della chiesa americana e punto di riferimento di molti prelati che sono stati o sono ancora ai vertici di quella chiesa e anche della Chiesa universale. Lo è stato per decenni e in maniera decisiva dal 2000, quando venne nominato arcivescovo di Washingotn. Ebbe poi un appannamento nel 2008 con le sanzioni restrittive informali a lui comminate da Benedetto XVI, proprio per quel rincorrersi di voci sulla sua condotta, ma poi ritornò in piena attività dopo l'elezione di Francesco nel 2013, viaggiando in tutto il mondo a nome della Chiesa e concentrando la sua attività su due ambiti: i rapporti con la Cina e il dialogo con l'islam. Fino almeno al 2018 l'attività di Theodore McCarrick è stata importante, pur avendo su di sé un ombra che era sotto gli occhi di molti.Peraltro in questi giorni proprio dagli Stati Uniti sono arrivate notizie che, in un certo senso, ripropongono ancora quella domanda. Sono state annunciate le dimissioni del segretario generale della Conferenza episcopale a stelle e strisce, monsignor Jeffrey Burrill, in quanto, ha dichiarato il capo dei vescovi Usa, monsignor Josè Gomez, si è venuti a conoscenza di suoi «possibili comportamenti scorretti». Secondo un'inchiesta giornalistica del sito The Pillar, pur non essendoci evidenze di condotte con minori, il monsignore avrebbe frequentato bar gay e residenze private con l'ausilio di una popolare app per incontri, Grindr, sul suo smartphone durante lo svolgimento dei suoi uffici (tra l'altro è stato incaricato anche per aiutare a coordinare una risposta dei vescovi Usa allo scandalo di abusi sessuali). Anche se ciò non fosse confermato, resta la domanda. Com'è possibile che a questi livelli di potere ecclesiale possano arrivare sacerdoti con condotte sessuali in contrasto con la loro condizione di preti? 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In particolare, soprattutto da quando è scoppiata la pandemia del Covid-19, ha espresso delle posizioni non poco severe nei confronti della Cina. A maggio 2020, Chen Chien jen accusò infatti la Repubblica popolare di aver bloccato la partecipazione di Taiwan, in qualità di osservatore, all'assemblea dell'Oms. «Sfortunatamente, per ragioni politiche, i 23 milioni di persone di Taiwan sono diventate orfane nel sistema sanitario globale», dichiarò. «L'Oms», aggiunse, «presta troppa attenzione alla politica e ha dimenticato la propria professionalità e neutralità. Questo è abbastanza deplorevole». Una posizione, quella di Chen Chien jen, che, a ben vedere, non si discostava poi molto dalle tesi all'epoca sostenute dall'allora presidente americano, Donald Trump. Inoltre, come accennato, l'epidemiologo è stato per quattro anni il vice dell'attuale presidente taiwanese, Tsai Ing wen: donna notoriamente battagliera nei confronti della Repubblica popolare. Alla luce di questi elementi, è difficile considerare la nomina di Chen Chien jen una questione squisitamente tecnica. Ricordiamo infatti che, nonostante l'opposizione dell'amministrazione Trump, la Santa Sede avesse deciso, lo scorso ottobre, di rinnovare il controverso accordo sulle nomine dei vescovi, siglato nel 2018 con il governo cinese. Un accordo che, almeno finora, non ha portato grandi miglioramenti alla condizione dei cattolici in Cina. E proprio tale distensione con la Repubblica popolare ha continuato a preoccupare gli Stati Uniti anche dopo l'uscita di Trump dalla Casa Bianca. In questi mesi, Joe Biden ha più volte criticato il Dragone sulla questione dei diritti umani e ha anche adottato alcune misure severe (come la blacklist di 59 aziende cinesi stilata a giugno). Attriti tra Washington e Pechino continuano poi a registrarsi anche sul tema dell'origine del Covid-19. Un eccessivo avvicinamento del Vaticano alla Cina turba d'altronde gli americani sotto due punti di vista. A livello generale, temono che Pechino possa incrementare il proprio prestigio politico e (conseguentemente) il proprio soft power. A livello particolare, ritengono che la Repubblica popolare possa esigere delle contropartite, facendo magari pressioni sul Vaticano per spingerlo a rompere diplomaticamente con Taiwan. Del resto, proprio il Vaticano, secondo Asia News, avrebbe fatto ultimamente mancare il suo sostegno a Taipei in sede di assemblea dell'Oms. Per quanto dunque all'inizio la Santa Sede probabilmente sperasse che con Biden alla Casa Bianca la linea statunitense su Pechino si ammorbidisse, gli eventi hanno preso alla fine un altro corso. In tal senso, la Reuters rivelò che, durante la sua visita in Vaticano a giugno, il segretario di Stato americano, Tony Blinken, avesse discusso di «diritti umani e libertà religiosa in Cina». Argomenti che sarebbero da lui stati affrontati non solo nel colloquio con il segretario di Stato, Pietro Parolin, e l'arcivescovo Paul Gallagher, ma anche in quello con il Pontefice. Non si può quindi escludere che, proprio in quella visita, Blinken abbia spinto per un (almeno parziale) riposizionamento della politica estera vaticana.
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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