2021-10-25
Paola Mastrocola: «Scuola progressista, un fallimento»
La scrittrice ha pubblicato, con il marito Ricolfi, un saggio sul declino dell'istruzione: «La sinistra, da don Milani a Berlinguer, l'ha squalificata. Credeva di aiutare i ceti deboli, ma li ha danneggiati. E la destra non s'è opposta».Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza. Il titolo dell'ultimo saggio dei coniugi Luca Ricolfi e Paola Mastrocola parla da sé. Due professori - lui all'università, lei al liceo - raccontano 60 anni di decadenza dell'istruzione in Italia. Dimostrando, numeri alla mano, che le idee «illuminate» della sinistra, la crociata contro la scuola «classista» e per il «diritto al successo formativo», hanno finito per penalizzare i figli delle famiglie svantaggiate. Professoressa Mastrocola, il libro parte dalla sua intuizione di questo paradosso: quando ha capito che la «scuola progressista» danneggiava proprio i ceti bassi?«Quando insegnavo. Una decina d'anni fa mi è apparso in modo lampante che l'elemento fondamentale per riuscire negli studi è la preparazione, non le origini familiari».Sì?«Constatavo che anche i figli di famiglie di ceto alto faticavano, in primo liceo, perché evidentemente avevano frequentato scuole… diversamente efficienti».Lei individua due tappe cruciali del declino: la riforma della scuola media, nel 1963, e la riforma Berlinguer, nel 2000.«Aggiungo: fino al 1969, alla maturità si portavano tutte le materie degli ultimi tre anni di liceo».E ciò cosa indica?«Che, a un certo punto, non abbiamo più creduto che lo studio in dose così massiccia fosse utile. E oggi, che siamo una società tesa al piacere e al divertimento, lo studio è l'ultima cosa che cerchiamo. In fondo, a cosa serve conoscere le guerre puniche?».Se il criterio è «come userò un argomento nel mondo del lavoro», il 90% di ciò che si studia a scuola è destinato a essere cassato?«Esattamente».L'abolizione del latino alle medie, però, più che dall'utilitarismo, fu ispirata dal progressismo: come lamentava don Lorenzo Milani, che lei critica nel libro, quella materia umiliava i figli dei contadini.«Questo è il cardine del pensiero progressista. L'idea era che una scuola “alta", che fa cose difficili, come il latino o la letteratura antica, implica uno studio duro, cui i figli dei contadini, che erano gli alunni di don Milani, non arrivavano. Quindi, era meglio parlar loro degli alberi da frutto…».La sua tesi, al contrario, è che siano insegnamenti elevati a spingere l'ascensore sociale.«Lasciamo da parte don Milani. Dopo 60 anni, ci sono ancora classi deboli, ahimè. A questi ragazzi svantaggiati dobbiamo assolutamente garantire una scuola “alta", perché loro non hanno altre risorse, come i ceti elevati».A che risorse si riferisce?«Le famiglie di ceto elevato mandano forsennatamente i loro pargoli a lezione privata. Poi, in belle università all'estero. E quando ne escono, li aiutano con le loro conoscenze. Invece, i ceti bassi hanno bisogno di una scuola di qualità, che li prepari, non che li faccia giocare e divertire».Quali sono le colpe della riforma Berlinguer?«Aver introdotto il Piano per l'offerta formativa».Che male c'è?«Intanto, nel mondo della scuola è entrata la parola “offerta", che vedevamo solo nei supermercati».Dunque, è stata la sinistra a inoculare nell'istruzione la logica del mercato?«Certo, anche se ciò viene sempre negato. È un demerito che viene attribuito alla riforma Gelmini. Ma sa che vuol dire pensare che la scuola debba “offrire" qualcosa?».Che vuol dire?«Che la scuola ha svalutato le discipline “normali". Una scuola “si offre" non per quanto si occupa di Dante, di grammatica, o di algebra. Si offre per il corso di educazione alimentare, la gita nelle Langhe, l'educazione alla cittadinanza… La scuola ha abbandonato la sua sostanza culturale per diventare un'agenzia delle educazioni».In questo discorso, rientra anche l'alternanza scuola-lavoro, introdotta dal governo Renzi?«Questo fa parte dell'idea per cui la scuola deve essere “utile". E invece bisognerebbe rivendicare la sublime inutilità, immediata e non verificabile, dello studio».Si spieghi.«Quando studio filosofia, algebra, letteratura o arte, non so quanto e a cosa tutto ciò mi servirà. Sono d'accordo che la scuola debba preparare al lavoro, perché gli imprenditori non trovano gente che sappia far qualcosa. Ma non voglio che si sopprimano quelle parti di studio apparentemente non spendibili. La parola “spendibile" è una delle più atroci tra quelle che sono state introdotte a scuola».Lo ripete da anni.«Dal 2004, quando pubblicai La scuola raccontata al mio cane».E quando criticava la riforma Berlinguer, veniva osteggiata?«Eeeeeeh…» (Sorriso amaro). «A scuola, entrando in sala insegnanti, trovavo sul tavolo, appiccicate con il nastro adesivo, le lettere dei colleghi contro di me».Altro paradosso: se quella riforma l'avesse ideata un governo di destra, l'avrebbero bloccata?«Ma certo. Allora non si poteva parlar male di quella riforma. Io non capivo: era evidente che stavamo andando verso il disastro, ma quasi tutti mi davano contro».I genitori come si comportano?«Sono strenui paladini dei figli. Se l'insegnante dà un 4, si presenta la madre: “Non capisco questo voto, mio figlio ha studiato". L'imputato è l'insegnante, mai l'allievo».E quindi?«L'insegnante è molto solo: il preside dà ragione quasi sempre ai genitori».Come si fa a essere buoni insegnanti?«Con la passione per le cose che s'insegnano. Poi ci vogliono empatia e un profondo desiderio di andare in classe a trasmettere l'amore con cui uno “sa"».In che misura un buon insegnante può tamponare i difetti della scuola?«In una buona misura, secondo me. Ciò che ha salvato la scuola italiana è stata proprio la scollatura tra le riforme e quel che l'insegnante fa davvero in classe».Cioè?«Io, delle riforme, me ne sono sempre infischiata».Ad esempio?«La riforma Berlinguer abolì il tema, sostituendolo con articoli e saggi brevi, basati su pagine e pagine di fotocopie. Io ho continuato imperterrita a dare temi liberi».Perché?«Che i miei ragazzi imparassero a scrivere la consideravo una priorità. E se lei vuole insegnare a qualcuno a scrivere, gli deve mettere un foglio bianco davanti. Fine».Il ministro Patrizio Bianchi sostiene che si debba «andare oltre la lezione frontale», per «sperimentare forme alternative di didattica laboratoriale, condivisa, esperienziale, emotiva».«Mi viene da piangere».Ecco…«Tra tutti i ministri che potevamo avere, perché proprio un “invasato" di pedagogia?».Che ha di male la pedagogia?«I pedagogisti insegnano come s'insegna. Ma noi abbiamo bisogno di potenziare l'oggetto dell'insegnamento, non il metodo. È come se lei volesse preparare una torta di mele e io continuassi a inviarle ricette. Dammi gli ingredienti, fammi fare questa torta!».Nel libro ricorda che quando proponeva la traduzione dell'Iliade di Vincenzo Monti («Cantami, o Diva, del pelide Achille l'ira funesta…»), gli alunni erano estasiati.«Restavano a bocca aperta».Ancora un paradosso: gli studenti vogliono la didattica alta?«Sì, perché non sono stupidi come pensiamo! E capiscono la bellezza! La versione in prosa sarà pure semplice, ma è di una tristezza infinita. Vogliamo dare qualcosa di più ai ragazzi?».Non glielo stiamo dando?«La scuola progressista elimina la difficoltà: una poesia del Trecento è troppo difficile, non te la insegno. Nella scuola che vorrei io, siccome la poesia del Trecento è bellissima, io te la insegno. Magari ci metto un anno, ma alla fine di quell'anno, se mi segui, la saprai capire. Non è straordinario?».Perché il centrodestra non ha invertito la tendenza?«Me lo dica lei, perché me lo chiedo da anni. La destra poteva veramente cavalcare gli sbagli della sinistra sulla scuola, proponendo un modello diverso. Era nelle sue corde. Perché diavolo non l'ha fatto? Ha continuato tale e quale la riforma Berlinguer. Non ha mai preso sulle sue spalle il tema della cultura. E così alimenta il luogo comune che, con la cultura, essa non c'entri niente. Peccato».Non si può tornare al passato; lo riconoscete anche lei e il professor Ricolfi. E allora? Che si fa?«Niente».Niente?«Io e Luca abbiamo scritto questo libro per disperazione, ma anche per dovere: volevamo lasciare una testimonianza. Abbiamo raccontato 60 anni di scuola. Volutamente non abbiamo indicato una via, perché la via è stata già intrapresa: è la via europea, occidentale. È la via dello sfascio culturale».Ci lasciamo con questo finale pessimista?«Le parole del ministro Bianchi, che lei ha citato, rappresentano esattamente il futuro che attende la scuola. Anzi, sto rispondendo alla mia domanda di prima».Cioè?«Hanno nominato Bianchi perché è un esponente di questa visione pedagogistica, europeista e politicamente corretta».Arriverà la cancel culture?«È già arrivata. Viviamo sotto una cappa linguistica».Una rivoluzione dovrebbe partire dai genitori?«Be', io credo nella ribellione individuale. Possibile che un genitore, che si accorge che il figlio non sta imparando niente, non insorga?».
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)