2025-10-03
Nel mare di lacrime affoga la politica
Nel riquadro un frame del video postato sui social dalla cantante Elisa Toffoli. Sullo sfondo alcune imbarcazioni della Global Sumud Flotilla (Ansa)
La cantante Elisa piange sui social per lo stop ai velisti e i «bambini che muoiono». Come lei, attivisti e parlamentari che usano il ricatto emotivo per avere il consenso.La cantante Elisa è seduta al piano nel suo studio di registrazione. Ha il volto contratto dai singulti, la voce rotta dal pianto, ma riesce comunque ad accendere la videocamera e a filmarsi, rivolgendosi a Giorgia Meloni. «Adesso che hanno bloccato la Global Sumud Flotilla», singhiozza, «portateli voi gli aiuti in poche ore. Portate voi gli aiuti, perché stanno morendo...». Questi pochi secondi di video sono la sintesi perfetta della politica dell’emozione che da qualche anno domina la scena internazionale, e non soltanto sulla questione palestinese. Da un lato, osservando il messaggio di Elisa, ci si sente toccati, si condividono la pena e il dolore per i bambini di Gaza, ci si commuove.Ma allo stesso tempo, se si riflette un secondo, si deve ammettere che l’argomento emotivo spazza via ogni discorso, delegittima ogni posizione che non sia quella della persona che piange o mostra sofferenza. Poiché quest’ultima esibisce il proprio dolore, e dunque si qualifica in qualche modo come vittima, ecco che ogni obiezione appare in un lampo spietata, indelicata, disumana dunque impresentabile. Nei fatti, la strategia dell’emozione è vagamente censoria, e in fondo intollerante, poiché costringe tutti a ragionare su una sofferenza (vera o presunta) e non sul vero argomento in questione. Anche per questo oggi è così sfruttata. Discutendo della Palestina e della Flotilla, è pressoché inevitabile che prima o poi qualcuno se ne esca con frasi strazianti sul fatto che a Gaza muoiono migliaia di bambini, e che di fronte a queste morti ci si può solo indignare. E può essere persino una argomentazione condivisibile, molto umana, indice di profonda sensibilità. Ma comunque deleteria ai fini del dibattito prima e della azione politica poi. Posto che siamo tutti dilaniati dalla condizione dei bambini (e non solo) palestinesi, come si può evitare che ne muoiano ancora? Piangendo o scrivendo sui social frasi a effetto? Certo che no. Per affrontare una questione politica serve la ragione, il cui utilizzo talvolta impone un minimo di distacco emotivo. L’empatia - come ha mostrato Paul Bloom in un bel saggio pubblicato da Liberilibri - è spesso cattiva consigliera. Sull’onda dell’emozione si agisce di impulso, si bloccano le considerazioni più approfondite e tendenzialmente ci si accontenta della risposta immediata. Prendiamo il caso della Flotilla. Trattavasi di missione politica, e lungi da noi giudicarla male per questo. Al contrario: solo la politica può risolvere la crisi, quindi ogni azione politica è benvenuta. Ma bisogna giudicarne gli effetti, valutarne i risultati. Ed eventualmente riconoscerne i fallimenti. Per questo la parata di navi è stata presentata come missione umanitaria: perché il gesto caritatevole suscita una risposta emotiva, ed è più difficile da analizzare e decostruire. E infatti a chi analizza e magari pone sul tavolo elementi di critica viene risposto: era un gesto necessario, a Gaza muoiono i bambini. Inutile obiettare che proprio perché ci sono vite in gioco occorre essere saggi, e prendere decisioni regionate e ragionevoli. Analoghi esempi si possono fare ormai per quasi tutte le questioni centrali nel discorso pubblico. Gli anni della pandemia ci hanno insegnato come la manipolazione delle emozioni sia una arma formidabile e possa spingere le persone ad agire a prescindere dalla realtà, immerse come sono nella bolla dei propri sentimenti. Paura e ansia hanno modellato i comportamenti dei più, facilitando l’impostazione di politiche totalitarie. Non molto diverso è il meccanismo messo in campo riguardo al cambiamento climatico. A prevalere è il ritornello secondo cui il pianeta sta morendo, siamo oltre la soglia dell’emergenza: o si cambia o si muore. Idem per quel che riguarda l’intricata matassa chiamata immigrazione di massa. Di nuovo, è inutile spiegare che le partenze delle barche fanno aumentare il numero dei morti o che regole più restrittive servono proprio a tutelare l’esistenza dei migranti oltre che degli autoctoni. A chi sostiene che a salvare vite sono i confini chiusi si replica con sdegno: sei privo di empatia per i piccoli morti, sei disumano. In un lampo, l’obiezione e la critica sono sterilizzate. Di questi tempi tutto funziona in questa maniera. Sono emotive le uscite sui social network, in un delirio narcisistico che attribuisce ai sentimenti di ciascuno valore universale e inscalfibile. Sono emotive le frasi dei politici, che infatti spesso piangono o parlano da padri o madri accorate. Ciò non significa, attenti, che una buona politica non debba tenere conto delle emozioni dei cittadini, anzi. Ma da queste emozioni bisogna partire per elaborare razionalmente una proposta di azione concreta. Così si fa l’interesse pubblico. Oggi dovremmo discutere di che cosa sarebbe utile fare per fermare il massacro a Gaza, e dovremmo avere l’onestà di dire che la Flotilla non ha fatto molto se non sollevare polemiche. Ma il pianto di Elisa e di molti altri occupa il terreno della discussione, e impedisce di guardare oltre. Il che, se ci pensate, è piuttosto curioso. Per anni si è detto che le destre sfruttavano i bassi istinti del popolo, che solleticavano il ventre molle degli elettori, cavalcandone le passioni sfrenate. Ma la strategia dell’emozione è oggi utilizzata soprattutto dai progressisti, e dalle élite che hanno ogni interesse a eliminare contestazioni e dissidenze. Sono queste ultime a favorire l’espressione emotiva, a patto che le emozioni siano quelle a loro gradite. Nel frattempo la politica - nobile arte di gestione della polis e delle vite di ciascuno di noi - scompare sommersa da un mare di lacrime.
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