2023-06-10
Damilano rivendica il finto scoop: «Così abbiamo affossato Salvini»
Marco Damilano (Getty Images)
Dopo giorni, l’ex direttore dell’«Espresso» rompe il silenzio. Ma non dice nulla sul trappolone al Metropol organizzato dai suoi cronisti e scoperto dalla «Verità». Cerca solo di ingraziarsi Fdi per blindarsi il posto.Marco Damilano ha aspettato quasi una settimana per rispondere alle nostre rivelazioni sull’inchiesta giornalistica contro la Lega che pubblicò quando era direttore dell’Espresso. Di certo, una settimana non trascorsa a riordinare le idee che, salvo nel titolo («Così il caso Metropol sancì il sorpasso di Meloni su Salvini»), nell’articolo pubblicato ieri sul Domani risultano assai confuse. Forse il conduttore del Cavallo e la torre, trasmissione Rai che gli venne gentilmente offerta insieme a un lauto stipendio un secondo dopo il suo addio al settimanale della sinistra radical chic, ha atteso che la tv pubblica gli confermasse il programma. In effetti, egli ha curiosamente ritrovato la voce solo dopo che da viale Mazzini è trapelata la notizia che per un altro anno gli spettatori avrebbero dovuto sorbirsi, dopo Blob e Via dei matti numero zero, i dieci minuti di Damilano. Tuttavia, a parte la perfetta coincidenza tra il rinnovo della trasmissione e la pubblicazione della cosiddetta replica, nel suo articolo colpiscono due aspetti. Il primo è evidente sin dalle prime righe: Damilano non sa cosa rispondere a nessuna delle rivelazioni contenute nella richiesta di archiviazione della Pocura sucosiddetto caso Metropol. Non c’è infatti alcun accenno al fatto che ben prima che si verificassero i fatti oggetto dell’inchiesta dell’Espresso, ovvero l’incontro in un hotel di Mosca a cui partecipò Gianluca Savoini, collaboratore della Lega, almeno un giornalista del settimanale fosse da tempo in contatto con l’uomo chiave del presunto scandalo, ovvero l’avvocato Gianluca Meranda. Costui è stato presentato sulle pagine dell’Espresso come un intermediario, colui che avrebbe dovuto stringere l’accordo con i russi per far arrivare una nave carica di petrolio in Italia e di conseguenza anche far guadagnare milioni al partito di Salvini. Ma il legale, oltre a essere sin dall’inizio un informatore del settimanale, al punto da aver accesso anche al libro che il giornalista del settimanale stava preparando, era un massone in contatto con personaggi alla ‘ndrangheta, e aveva anche aver qualche addentellato nei servizi. Dunque, smentiti dalla Procura i titoli con cui L’Espresso orchestrò per settimane una campagna contro l’allora ministro dell’Interno («Tre milioni per Salvini», «I buchi neri di Salvini», «Contratto di governo» e «Patto Russia-Lega, l’uomo segreto»), sono confermate solo le ombre intorno alla figura di Meranda e aleggiano gli inquietanti rapporti fra l’avvocato e i giornalisti di Damilano. Ovviamente, né sul ruolo del legale, né su quello del collega che fu informato sin da subito del trappolone che si stava allestendo (il giornalista si imbarcò per Mosca assieme a Meranda), l’ex direttore dell’Espresso ha nulla da dire.Molto invece ha da scrivere riguardo agli effetti che secondo lui provocò il suo scoop. Aver rivelato un incontro tra Savoini, cioè un collaboratore della Lega senza incarichi dentro il partito, e alcuni finti manager russi (uno di loro si rivelò un agente dell’ex Kgb) avrebbe secondo Damilano affossato l’ascesa di Salvini e favorito in qualche modo quella di Giorgia Meloni. Il conduttore ripercorre alcuni passaggi che risalgono alla fine del 2018 e arrivano fin quasi ai giorni nostri. Dai successi della Lega, che alle Europee del 2019 arrivò al 34 per cento, fino alla rimonta di Fratelli d’Italia, che dal suo misero 4,3 per cento cominciò una scalata per diventare primo partito a scapito dell’alleato. «Nel 2019 Salvini punta a buttar giù il governo Conte e andare a elezioni anticipate che nelle intenzioni dovrebbero catapultarlo a Palazzo Chigi», scrive Damilano, «ma inciampa di nuovo su Putin. Le conversazioni del Metropol di Mosca, pubblicate dall’Espresso e poi da Buzzfeed, significano disco rosso nel rapporto con gli Usa». Quando il settimanale della sinistra pubblica le prime indiscrezioni sull’incontro di Mosca siamo a marzo del 2019, ovvero prima delle elezioni europee che segnano il trionfo di Salvini. E a scalfirne la popolarità non pare sia servita neppure la pubblicazione delle registrazioni dell’incontro, visto che la Lega a fine luglio di quell’anno (sondaggio de La7) veniva data al 38 per cento. Ma prendendo per buona l’analisi di Damilano, ossia che il caso Metropol fermò la corsa di Salvini, e «sancì il sorpasso di Meloni», come ha titolato Domani, si giunge a due conclusioni. La prima, piuttosto evidente, è che l’ex direttore dell’Espresso, capito di essere un po’ in difficoltà, cerca santi in paradiso, ovvero pensa di attribuirsi qualche merito per l’ascesa di Giorgia Meloni, sperando così di ingraziarsi i favori del presidente del Consiglio. La seconda conclusione, un po’ più rilevante, è che con uno scoop alimentato da massoni in contatto con esponenti vicini alla ‘ndrangheta e con la collaborazione dei servizi segreti (per lo meno quelli di Mosca), la sua «inchiesta» contribuì far precipitare i consensi a favore della Lega. A tal proposito c’è da chiedersi se un reo confesso di aver alimentato un finto scoop («Tre milioni per Salvini»; «Contratto di governo»; «Patto Russia-Lega, l’uomo segreto»; «I buchi neri di Salvini» eccetera) sia compatibile con il servizio pubblico. Quanto saranno felici gli italiani di pagare, con il canone, un compenso di 200.000 euro lordi (fonte AdnKronos) per contribuire alla disinformatia? Credo che qui sia più facile avere una risposta, visto che a dover replicare non è Damilano con i suoi pistolotti, ma la dirigenza Rai.
Edoardo Raspelli (Getty Images)
Nel riquadro: Mauro Micillo, responsabile Divisione IMI Corporate & Investment Banking di Intesa Sanpaolo (Getty Images)
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