2024-11-15
Manuali intrisi di marxismo. Uno spettro s’aggira (ancora) nelle aule delle nostre scuole
Tre professori, Andrea Atzeni, Luigi Marco Bassani e Carlo Lottieri, hanno passato ai raggi X una quarantina di testi adottati negli istituti della Penisola. Ma, più che a crescere la nuove generazioni, servono a indottrinarle.Quello che il lettore ha fra le mani è il frutto di un piccolo viaggio attraverso i libri di testo che hanno formato, negli ultimi decenni, quanti vivono e lavorano oggi in Italia. E, visto che amiamo quella piccola Elvezia di lingua italiana, anche i ticinesi. Abbiamo preso in considerazione ciò che è stato adottato nelle scuole dal 1989 in poi perché ci interessava verificare se il comunismo fosse davvero un episodio superato. Tutti e tre gli autori sono passati attraverso la scuola pubblica in un periodo appena precedente, quando l’ubriacatura di marxismo teorico, dentro e fuori i plessi scolastici, provocava miasmi che non di rado si traducevano in piombo. Questo viaggio dimostra che, dopo il crollo del muro di Berlino, almeno dal punto di vista ideologico, non è cambiato moltissimo. Gli autori di questo volumetto sono tre professori, il primo del liceo e gli altri due universitari, che insegnano materie di carattere storico-filosofico, vale a dire proprio quelle in cui i pregiudizi sono più facili da inoculare. [...] I testi scolastici italiani vivono perlopiù in un mondo dorato e intendono portare gli studenti verso una comprensione dei meccanismi sociali e politici in senso socialista, nelle loro versioni dolci o dure, a seconda delle preferenze degli autori. I manuali sono davvero perfetti per costruire nel corso del tempo una percezione naturalmente anti-mercato. [...] L’operazione intellettuale è proprio questa: criticare l’esistente nel passato e nel presente in modo continuo finché anche nella mente più refrattaria non si fanno strada solo due alternative che poi si riducono a una. Vale a dire o rovesciare i rapporti di produzione, o affidare le scelte non ai milioni di liberi individui che interagiscono liberamente nella società, ma a un gruppo di burocrati illuminati. In breve, affidare allo Stato la guida e la piena direzione di una società incapace di svilupparsi autonomamente. Intendiamoci, non tutti coloro che dovrebbero addestrare la gioventù di lingua italiana a riflettere criticamente sulla storia e la filosofia occidentale sono marxisti di varia estrazione, ma l’esaltazione acritica del «dispositivo politico della modernità» (lo Stato) e degli uomini che meglio ne hanno interpretato lo spirito è, comunque, il passatempo preferito degli estensori dei manuali. [...] il nemico da abbattere Questi libri sono le fonti alle quali si abbeverano le generazioni postcomuniste di lingua italiana. Se il periodo da noi considerato copre quasi gli ultimi quarant’anni, questo è anche l’arco di tempo che vede un triste primato italico nel mondo: l’Italia è il Paese che è cresciuto meno sul pianeta. [...] Le cause che hanno condotto una generazione e mezzo alla crescita zero sono tipicamente riconosciute nel peso dello Stato (tassazione altissima, regolamentazione folle, spesa pubblica fuori controllo), nella burocrazia incapace e invasiva, nella scarsa produttività del lavoro dovuta a una struttura industriale inadeguata (il capitalismo molecolare).Crediamo di aver individuato quelle che sono le radici più profonde del nostro lento e inesorabile declino in termini di prosperità nella mentalità anticapitalista, che il grande economista austriaco Ludwig von Mises associava al risentimento intellettuale per le ambizioni frustrate, istillata nei giovani fin dalla più tenera età. Si tratta di cause ideologiche ben difficili da misurare, ma non per questo meno reali. Abbiamo documentato solo una piccola frazione di quei fumi ideologici che annebbiano le menti giovanili. Quale volume di storia pubblicato in questo Paese non sorvola o minimizza i misfatti delle utopie criminali comuniste? Chi era al liceo negli anni Settanta ricorda perfettamente che, quando e se si arrivava alla storia contemporanea, tutti i manuali ci raccontavano che l’Unione Sovietica aveva ogni sacrosanto diritto di annettersi mezza Europa ed estendere il proprio glorioso sistema economico sociale anche a protezione delle sue ripetutamente violate frontiere. La dottrina del «socialismo in un solo Paese», ma in espansione continua, era fatta propria da tutti gli storici «seri», che non volevano narrare la storia come un insieme di fattarelli senza un filo conduttore.Ma le cose sono davvero cambiate oggi? Ricercare la mentalità anticapitalistica nei libri di testo delle scuole italiane dà risultati veramente sconcertanti. In volumi pubblicati e scritti dopo il Duemila viene ammannita ai poveri giovani italofoni la fola del «liberismo selvaggio» come causa di tutti i mali del mondo. E non mancano manuali, anche recentissimi, nei quali viene semplicemente esaltata la comune maoista. [...] Gran parte degli intellettuali, allora, non riconosce i crimini comunisti perché li ritiene null’altro che un eccesso di legittima difesa di fronte al male in Terra, vale a dire il capitalismo e il libero mercato.doppia morale Politicamente la cosa è nota da decenni. A chi fu fascista si spalancarono (giustamente) due sole alternative: ammettere i propri errori o essere come minimo ghettizzato nel dibattito intellettuale. Di contro, chi è stato comunista ha avuto davanti due strade parimenti rispettabili: rivendicare tutto, «alla Luciano Canfora», oppure chiedere e ottenere l’oblio e una tacita assoluzione sulle proprie passate farneticazioni. In breve, i fascisti hanno dovuto fare i conti col fascismo e i comunisti più che i conti si son fatti sconti. Le ragioni sono molteplici e assai dibattute, giacché il problema si ripresenta in forme diverse in tutto l’Occidente. In Italia si è sempre parlato di «egemonia culturale», tattiche gramsciane, corteggiamento degli intellettuali da parte del partito comunista. Tutto vero, ma non basta.Il fatto è che il prodotto culturale «marxismo» era ed è un manufatto altamente sofisticato, imparagonabilmente più sottile dei rozzi regimi e degli uomini che lo hanno messo in pratica. Per smontarlo e liberare le prossime generazioni dai suoi cascami ideologici ci vuole ben più che l’improvviso crollo di un muro e qualche vaga parola d’ordine. Ci vorrebbe un movimento sia politico sia culturale disposto a puntare tutto sulla battaglia delle idee. Occorrerebbe estrarre dal cilindro la merce più scarsa del mondo: intellettuali ben preparati a diffondere l’idea della legittimità morale, prima ancora che politica, del mercato. Proprio quello che manca in Italia. Quello che abbiamo fatto, ci piace pensare, non è l’ennesima e sempre riaffiorante polemica sui libri di storia. Qui abbiamo indagato qualcosa di più complesso che va ben oltre il giudizio strabico sugli orrori dei totalitarismi rossi e neri.La quarta «i» Oggi stiamo attraversando una crisi che secondo molti osservatori si appresta a creare un divario tecnologico e produttivo fra l’Italia e gli altri Paesi sviluppati. Le giovani generazioni non conoscono abbastanza «inglese, informatica e impresa», le «tre i» senza le quali non si dà sviluppo. Ci sembra di poter dire di aver individuato un altro grande fattore di ritardo culturale che pesa come un macigno sul futuro dell’Italia, inizia per «i», ma non è una carenza, bensì una sovrabbondanza: ideologia. [...] Nei volumi grazie ai quali si formano culturalmente le nuove generazioni (e da cui quindi traggono le loro informazioni di base sulla realtà economica e sociale) emerge con chiarezza la tradizionale avversione della cultura italiana verso la società industriale e soprattutto verso la cultura dell’impresa privata, del mercato e della concorrenza. [...] Insomma, se per l’inglese e per l’informatica possiamo sperare che i giovani italiani si debbano solo dar da fare su testi essenzialmente inappuntabili, per quanto riguarda la trasmissione generale della «cultura» non è lecito alimentare alcun ottimismo. Persino i libri di geografia che abbiamo scelto di scandagliare, infatti, sono quasi sempre strumenti di propaganda di tutte le più fruste superstizioni in tema di ambiente, così che le nozioni propriamente geografiche sono subordinate a discorsi fortemente ideologizzati e orientati ad accreditare ogni dottrina indimostrata dell’ecologismo più radicale. Mentre l’orizzonte ideologico più propriamente marxista sembra assai lentamente declinare, prende corpo una radicale contestazione delle imprese produttive e del mercato che poggia sul radicalismo verde.Il radicalismo «green» Se la condanna del sistema industriale è una costante, ad essere oggi maggioritarie sono le concezioni che insistono ossessivamente sulla limitatezza delle risorse naturali, sul carattere inevitabilmente inquinante della tecnologia, sulla necessità di mettere sotto controllo la demografia e limitare (o bloccare) lo sviluppo. In un’area che non ne conosce alcuno da quasi quarant’anni la cosa può apparire addirittura criminale. [...] Il punto sembra il seguente: mentre negli anni Settanta i docenti si trovavano studenti marxistizzati consapevolmente altrove, oggi i professori, tenacemente abbarbicati a un armamentario ideologico del quale sono pieni anche i loro testi, indottrinano studenti che per lo più sono disinteressati alla politica. Se i giovani di mezzo secolo fa erano dei «marxisti immaginari», quelli di oggi sono resi dai loro professori, così come dai libri di testo adottati, marxisti (ed ecologisti) loro malgrado e inconsapevoli.Nel delineare questo saggio, in primo luogo si è proceduto a individuare le materie di insegnamento più direttamente coinvolte da questo genere di considerazioni e cioè storia, geografia, filosofia e diritto, esaminando alcuni tra i volumi più utilizzati dagli studenti medi. Dopo aver selezionato i testi si è quindi proceduto a una loro attenta analisi, con l’obiettivo di comprendere nel migliore dei modi come essi presentino la realtà industriale e il mondo dell’economia di mercato. Per favorire e razionalizzare questa analisi s’è adottata una griglia di temi, individuati tra i più adatti a fare emergere l’impostazione di fondo delle opere esaminate, dall’origine della società industriale alla lettura assolutoria del marxismo e del comunismo reale, passando per l’ecologismo, il divario tra Nord e Sud del mondo divenuto nel tempo una vera e propria battaglia ideologica, la «crociata terzomondista», per arrivare alla concezione generale dello Stato come ineliminabile e naturalmente buono. I due elementi critici individuati, la forte ideologizzazione e l’ignoranza, sono connessi anche al poco spazio dedicato alle scienze sociali. Nei corsi di filosofia, ovviamente, le tesi filosofico-politiche di autori come John Locke o Immanuel Kant sono molto subordinate alle loro analisi gnoseologiche, né vi può essere spazio adeguato per un grandissimo economista come JeanBaptiste Say o per uno storico-sociologo della qualità di Alexis de Tocqueville. Perfino Max Weber, che pure su vari punti potrebbe portare acqua al mulino degli autori di questi manuali, non è mai in grado di sfidare il primato incontestabile detenuto da Karl Marx. [...] Le analisi economiche, giuridiche e sociologiche che potrebbero permettere una migliore comprensione della società industriale e post-industriale sono, in linea generale, del tutto assenti dal cursus studiorum dei giovani italiani, che in questo modo possono essere facilmente conquistati da ogni sorta di pregiudizi, luoghi comuni, ragionamenti illogici e semplici falsità.industrie, vade retro Nei libri di testo, non solo di storia, la nascita del mondo industriale è generalmente presentata enfatizzando gli aspetti negativi. Quella che emerge in Inghilterra nel corso del XVIII secolo e in seguito anche in Francia, in Germania, in America o in Italia è insomma una vera e propria catastrofe sociale, che ha gravemente danneggiato le condizioni di vita della povera gente. Gli unici a migliorare la propria condizione sarebbero stati, naturalmente, i capitalisti. [...] Per ovvi motivi, agli studenti non viene spiegato per quale strano motivo tanti contadini abbiano deciso di lasciare (senza deportazioni) il paradiso terrestre della loro vita rurale per accedere all’inferno delle officine urbane, né viene detto quali fossero i futuri clienti (loro stessi) di una produzione di massa che permetteva di realizzare gli stessi beni a costi notevolmente più bassi. [...] Perfino quando si parla di guerre e nazionalismo la colpa viene data non allo Stato, ma all’economia concorrenziale. La tesi davvero curiosa - e resa celebre anche da Lenin - secondo la quale i capitalisti sarebbero i veri responsabili dei disordini e delle guerre continua a trovare spazio nelle ricostruzioni della storia otto-novecentesca. E se il capitalismo è la causa delle guerre, perché non dovrebbe essere anche la causa dell’inquinamento? L’economia industriale diventa così distruttrice e catastrofica.In molti testi di storia e ancor più di geografia emerge in modo molto netto l’immagine di un mondo naturale sempre più minacciato dalla modernità industriale. Inferto il colpo mortale al capitalismo industriale, si passa a ridimensionare la portata dei crimini e degli errori del socialismo. Nella ricostruzione della storia contemporanea, la tesi secondo la quale il socialismo «reale» ha rappresentato una forma di terribile sfruttamento non è del tutto assente. I dirigenti dei Paesi socialisti sono stati spesso criminali, hanno comunque commesso gravi errori e ne hanno certo ritardato la crescita culturale, civile ed economica. È pur vero, però, che in più circostanze anche il totalitarismo comunista viene spiegato a partire dalle pretese ingiustizie della società aperta e dagli esiti «anti-sociali» del capitalismo. Per di più, se certo non è facile trovare un’esplicita apologia del regime sovietico, è invece normale trovare aperti elogi per quelle esperienze di socialismo reale estranee all’Europa. Significativo, in questo senso, è il trattamento di favore riservato alla Cina e, ad esempio, come già accennato, alle comuni popolari imposte da Mao, considerate capaci «di conseguire risultati di una certa importanza nella lotta alla fame».il vero pericolo La lezione più pericolosa, tuttavia, che attraversa tutti gli altri errori emersi nel nostro studio, è l’idea che lo Stato sia il difensore della società di fronte alle minacce delle imprese. Questa è una tesi tanto presente nei libri di testo quanto poco tematizzata, più implicitamente lasciata intendere che apertamente espressa e, dunque, più subdola. [...] La convinzione è che lo Stato costituisca la soluzione a tutti i mali del mondo e, in particolare, un suo sviluppo teorico e pratico viene sbandierato come una conquista insindacabile di civiltà: il welfare State. Nonostante in Marx lo Stato sia semplicemente il comitato di affari della borghesia, per molti suoi cantori di formazione post-marxista lo Stato semplicemente coincide con il progresso. La lenta, ma inesorabile, affermazione degli ideali di libertà, secondo l’antica lezione kantiana, sarebbe racchiusa nel progetto della modernità, ossia nell’ascesa del diritto pubblico quale principio riassuntivo di tutte le relazioni politiche all’interno di una comunità umana.Perché tutto questo costituisce una sfida per l’Italia? Perché il nostro Paese è solo all’avanguardia nel declino dell’Occidente e per alcuni versi ne prefigura i destini. Quando il 60% del reddito prodotto viene intercettato e gestito dai funzionari pubblici per mezzo della tassazione e del debito, il disastro non è più annunciato [...], ma sta accadendo nel nostro vivere quotidiano. Fingendo di rispondere a domande e sollecitazioni provenienti dalla «società civile», la lunga storia di insignorimento della società da parte dello Stato è arrivata al capolinea: questo assetto crea ormai più problemi di quanti non ne risolva Se da una marcia era nato il Ventennio fascista (che altro non è stato che il tentativo estremo di forgiare una nazione da Capo Passero alle Alpi), la lunga marcia dello Stato proseguiva imperterrita nel dopoguerra. Il grande sforzo fascista della costruzione nazionale, seppur incompiuto, andava di fatto accantonato a fronte delle minacce che giungevano dal mercato, ossia dalla libertà dei singoli di amministrare il loro patrimonio e di negoziare accordi con altri individui. [...]Gli intellettuali italiani erano già nella loro stragrande maggioranza convinti che il mercato fosse la radice di tutti i problemi, anziché della loro possibile soluzione. Il fascismo in questo senso ha compiuto solo un’operazione di definitivo accantonamento della cultura liberale sulla quale nessuno è riuscito a far compiere una retromarcia alle classi dirigenti. [...] Oggi lo Stato riveste il ruolo di principale attore e si trova ad essere il socio di maggioranza di ogni impresa, famiglia e individuo. E questo disegno istituzionale è sostenuto da un’ideologia secondo la quale le decisioni collettive prese dai funzionari pubblici sono sempre migliori di quelle dei singoli individui sul mercato. Il vero punto di arrivo di questo sistema è una tassazione che è la più alta del mondo e quindi dell’intera storia umana.Non bastasse questo, ogni singolo aspetto della nostra esistenza deve svolgersi secondo regole arbitrariamente fissate dal ceto politico. Il vaso di Pandora dello statalismo più sfrenato, quindi, è stato scoperchiato almeno dall’Ottocento, ma le sue infauste conseguenze sono state a lungo procrastinate. Fino a oggi. Il risultato è che viviamo in una società dominata da un ceto politico-burocratico parassitario e caratterizzata da una pressione fiscale che, in chiaro, è mediamente del 57%, con il 68,3% nei confronti delle piccole e medie imprese. [...] Come fedeli sacerdoti di un culto laico, gli intellettuali italiani hanno predisposto libri di testo che hanno l’evidente funzione di produrre docili cittadini e contribuenti fedeli. Lo spirito critico nei riguardi delle istituzioni presenti non è in alcuno modo premiato.lo stato panacea Questo è quanto è emerso dal nostro viaggio nei libri di testo. Il mito della scuola pluralista non può reggere di fronte a una realtà così univoca e conformista, nella quale le voci sono tutte orientate allo stesso modo. I pregiudizi sull’impresa, sul mercato e sull’economia libera che in modo particolarmente pesante caratterizzano i libri adottati nelle scuole medie italiane (inferiori e superiori) appaiono comunque con grande evidenza. Poiché l’impresa per sua natura può sfruttare, inquinare, cospirare, mentire ed agire in mille altri modi contro la società e i diritti dei singoli, l’antidoto costantemente evocato per fare fronte a questi pericoli è lo Stato.Il tratto più caratteristico di questo (inquietante) civismo pedagogico è da rinvenire nel fatto che gli stessi uomini che sono presentati come sempre potenzialmente aggressivi quando operano nel mercato, diventano miracolosamente quasi incapaci di fare del male nel momento in cui assumono una funzione pubblica. Se da un lato le imprese produttive vengono ripetutamente demonizzate, fa da contraltare a tutto questo una visione «angelicata» della politica e dei meccanismi rappresentativi, della legislazione e del modo in cui la giustizia viene fatta applicare. Si tratta di un progetto pedagogico fondato su di un’ingenuità colossale - Hegel, che di statalismo se ne intendeva, almeno sosteneva la moralità superiore del pubblico funzionario in sé e per sé - ma che studenti inesperti difficilmente possono cogliere. [...] Se ormai è chiaro a tutti che l’unica vera «ricchezza delle nazioni» risiede nella loro popolazione, è anche evidente che quest’ultima deve avere buone conoscenze e una corretta rappresentazione della realtà. Perché mai i nostri studenti si dovrebbero preparare a partecipare da protagonisti su una scena, quella economica, descritta invariabilmente come la sede dello sfruttamento e dell’impoverimento (morale e materiale) del genere umano? È solo naturale che essi bramino un posto pubblico: oltre agli indubbi benefici in termini di «sicurezza», imparano fin da piccoli che lo Stato rappresenta l’esercito della virtù, in prima linea nella battaglia alle oscure forze del capitale. [...]
L'ex amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (Imagoeconomica)