2019-07-13
Manca la formazione sull’ascolto dei piccoli. E così si arriva a strapparli ai genitori
Secondo Angelo Zappalà, psicologo forense e criminologo, i magistrati minorili talvolta sono carenti di competenze: «Servono studi specifici».Parla Francesco Morcavallo, l'ex giudice che lasciò il suo ufficio al Tribunale per i minorenni di Bologna perché «strappavano i bambini alle famiglie». «Spesso i miei colleghi prendono decisioni sugli allontanamenti basandosi sulle relazioni dei servizi e senza ulteriori controlli».Lo speciale contiene due articoli.Angelo Zappalà parla stando seduto su una montagna di titoli accademici. È psicologo, specialista in psicoterapia cognitiva comportamentale e criminologo clinico. Ha tenuto corsi all'università, scrive libri, ha ideato e diretto il Festival della criminologia. E, soprattutto, conosce molto bene il sistema di gestione dei minori attivo nel nostro Paese. È lui che ci aiuta a compiere un altro passo - piuttosto importante - nel nostro percorso all'interno dell'«orrore dei bimbi» che abbiamo raccontato nelle ultime settimane. Fino ad oggi, infatti, ci sono occupati dei servizi sociali e del modo in cui lavorano. Abbiamo raccontato il sistema delle cooperative e delle Onlus che - proprio come avviene con gli immigrati - stanno in piedi e fanno soldi grazie alla presa in carico di bambini. Abbiamo anche parlato degli psicologi e dei metodi che utilizzano per intervistare i piccini, talvolta facendo emergere ricordi non veri e affermazioni pesanti e forzate. Di fronte a tutto questo, ogni volta, ci siamo sempre posti la stessa domanda: ma nessuno controlla? O, meglio, non dovrebbe spettare ai giudici l'ultima e definitiva parola? Perché permettono che certe situazioni giungano all'estremo? L'ho chiesto al professor Guglielmo Gulotta, un'autorità in materia, e la sua risposta è stata piuttosto diretta: «Nella mia esperienza, che è vasta, anche magistrati intelligenti, preparati e attenti in questa materia abbassano la guardia», ha detto. «In questo ambito il senso critico, come il coraggio per don Abbondio, se non ce l'ha non se lo può dare. Bisogna mettersi in una prospettiva quasi darwiniana: la tutela dei cuccioli è fondamentale. I bambini vengono difesi a oltranza, l'ipotesi diventa una certezza. Ho visto persone intelligenti e preparate perdersi in questa materia». Ma davvero è tutto qui? Davvero è solo una questione di difesa a oltranza dei più piccoli? Probabilmente, in realtà, c'è anche dell'altro. Ed è qui che interviene Zappalà. Di esperienza sul campo ne ha parecchia: «Io ho fatto per quasi 20 anni il magistrato onorario. Per la precisione: 9 anni il magistrato onorario al tribunale di sorveglianza e 9 anni al tribunale dei minori». Ne ha viste tante, insomma. «In questi giorni», spiega, «si sta parlando tanto di assistenti sociali e di psicologi. Ma le sentenze non le scrivono psicologi e assistenti sociali. Alla fine, dunque, dobbiamo arrivare a questo punto, che è quello centrale. L'affidamento e l'adottabilità dei minorenni dipendono da provvedimenti scritti da un giudice. Dobbiamo attribuire un pezzo di responsabilità a i giudici. Perché il terminale di tutto questo meccanismo è una sentenza». E allora, per quanto l'argomento sia delicato, cerchiamo di affrontarlo. «Per prima cosa», spiega Zappalà, «dobbiamo considerare che nei casi di presunto abuso sessuale su minore molto spesso i processi si basano quasi esclusivamente sulle parole della presunta vittima. Anche perché, in queste vicende, non sappiamo se sia successo qualcosa, che cosa sia successo e chi sia stato. Però abbiamo la vittima. E allora tutti pensano: basta chiedere, no?». Già, basta chiedere alla presunta vittima, cioè al bambino. Il problema, però, è che talvolta i bambini non dicono la verità, per mille motivi. «Questi processi», continua lo studioso, «sono per lo più fatti di parole. E queste parole sono quelle della presunta vittima. C'è un momento molto importante: l'incidente probatorio. Si ascolta subito il minore, e in questo modo si cristallizza la prova». Ed è qui che sta il punto. «Raccogliere il racconto del minore è come prendere un campione di Dna sulla scena del crimine. Si tratta di una prova che sarà veramente regina. Anche perché se il bimbo dice qualcosa e il giudice lo ritiene credibile, il processo è praticamente finito. Ma troppo spesso sia i giudici sia gli avvocati si dimenticano di quanto sia difficile ascoltare un minore». Le difficoltà possono essere tanti. «Come per raccogliere un campione di Dna ci vogliono tecnici esperti, anche qui abbiamo bisogno di elevate competenze tecniche. Abbiamo bambini che spesso sono traumatizzati, che hanno uno spazio di attenzione molto basso. Ci vogliono abilità che uno psicologo abilitato, subito dopo laurea e tirocinio, al 99% non ha. E se non le ha uno psicologo abilitato, come possono averle giudici o avvocati che non hanno magari mai studiato un volume di psicologia forense? Io ho fatto anni e anni di studi a livello internazionale prima di accumulare una esperienza sufficiente». Secondo Zappalà, «non basta fare qualche corso di formazione ogni tanto. E non basta ripetere tante volte la stessa cosa - cioè sentire tanti minori - per avere esperienza. Bisognerebbe sviluppare le competenze tecniche. E allora probabilmente certi casi mostruosi si eviterebbero».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/manca-la-formazione-sullascolto-dei-piccoli-e-cosi-si-arriva-a-strapparli-ai-genitori-2639176608.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="le-toghe-nelle-mani-degli-assistenti-sociali" data-post-id="2639176608" data-published-at="1758063846" data-use-pagination="False"> «Le toghe nelle mani degli assistenti sociali» Il Tribunale per i minorenni di Bologna, in cui ha lavorato tra il settembre 2009 e il maggio 2013, è quello che sta trattando i casi finiti nell'inchiesta Angeli e demoni. E, infatti, l'ex giudice Francesco Morcavallo, che ha lasciato la toga proprio perché nell'ufficio al quale era stato assegnato «strappavano i bambini alle famiglie», non è sorpreso per quanto ha scoperchiato l'inchiesta condotta dalla Procura di Reggio Emilia. Lui ha ben a mente il punto cardine in cui s'inceppa il meccanismo giudiziario. Sa che un ruolo lo svolgono i servizi sociali, che tra i protagonisti ci sono gli psicologi con le loro consulenze ma, lo dice a chiare lettere, la puleggia su cui si regge tutto l'ingranaggio è la toga. Finora abbiamo parlato di assistenti sociali, di psicologi, di case famiglia. Mancava l'ultimo tassello. «Quello principale, direi. È il giudice che dispone gli allontanamenti, che emana quei provvedimenti per i minori, che dovrebbero essere temporanei ma che troppo spesso si protraggono oltre la durata massima consentita, e che io definisco di internamento». Cioè sono i giudici che, secondo lei, li scippano alle famiglie. «Spesso in base a una semplice relazione che mette in cattiva luce i genitori e che viene presa come oro colato dal giudice». Quindi il giudice non fa un'istruttoria per casi così delicati? Non verifica se la relazione contiene delle notizie vere? «La accetta e toglie i bambini alle famiglie e spesso lo fa per anni, così i bimbi finiscono negli istituti e nelle comunità, sotto l'egida dei servizi sociali, ma controllati da cooperative e anche da onlus religiose». Parliamo di cooperative rosse ed enti della Chiesa cattolica? «Esatto. Il cerchio si chiude con queste entità che hanno relazioni politiche e che riescono a influenzare le nomine dei giudici. Ecco perché poi nei Tribunali per i minorenni quella che è la squallida patologia che denunciai a suo tempo si trasforma in una prassi». E torniamo agli allontanamenti senza istruttoria. «Proprio così. Il giudice, che seguendo la legislazione dovrebbe controllare se effettivamente quanto segnalano servizi sociali e consulenti rappresenti la realtà, si limita, invece, solo a costruire il provvedimento che, nella maggior parte dei casi, è il più estremo: cioè l'allontanamento del minore con una motivazione che deriva da valutazioni assolutamente generiche e addirittura in certi casi basata sulle opinioni personali degli interessati. E invece dovrebbe essere tutto basato su fatti e prove». È possibile quindi emettere anche altre misure? «Ci sono delle misure molto più leggere, come l'affido ai parenti o ai nonni. L'allontanamento è previsto solo per casi di pericolo grave, nei quali è d'obbligo verificare. Mi spiego meglio. La prima misura è di tipo assistenziale (articoli 30 e 31 della Costituzione e articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo), poi eventualmente di tipo autoritativo, e comunque non riguardante l'allontanamento. Una volta rimasti inattuabili questi rimedi, solo se è constatata la permanenza di un pericolo grave, concreto e provato di permanenza del bambino o del ragazzo nell'ambito della propria famiglia, è consentito ricorrere all'allontanamento». E questo che cosa dovrebbe comportare? «Questa graduazione di criteri comporta, o dovrebbe comportare, stando alla legislazione, anche una graduazione dei momenti di accertamento, cioè su cosa succede, su quali rimedi si possono porre in essere, su quali rimedi diventano inattuabili e se permane il pericolo. Tuttavia gli accertamenti sostanzialmente non vengono compiuti mai. E assistiamo a bambini che vengono allontanati perché la mamma è disoccupata o povera». Ma perché togliere un bimbo a una famiglia? «C'è un business enorme. Gli unici dati risalgono al 2010: il ministero del Lavoro e delle politiche sociali calcolava che i bambini e i ragazzi portati via dalle famiglie fossero in totale quasi 40.000. Solo in Emilia erano 4.000. Ma la vera domanda è quanto c'è di sommerso?». Quindi non c'è una vera statistica? «Avevo chiesto alla Commissione parlamentare per l'infanzia e l'adolescenza di preparare una proposta di legge per istituire un registro degli affidi. Hanno fatto di tutto per respingere la proposta. Su questo tema c'è un muro, perché ci sono, come dicevo, grandi interessi». Il business di cui parlava? «I giudici onorari che partecipano alle decisioni sono psicologi, sociologi, medici, assistenti sociali. E spesso hanno fondato o hanno aperto istituti privati. Parliamo di miliardi che ogni anno finiscono alle strutture che si occupano dell'accoglienza, senza alcun controllo». Ma a chi spetta il controllo? «Il Garante dell'infanzia, ad esempio, ha piena conoscenza di quanto accade. Ma ha come unici interlocutori le associazioni tipo Cismai, che sono coinvolte poi puntualmente nelle varie inchieste. Ma, ripeto, è il giudice che ha un ruolo di garanzia e se facesse il proprio mestiere, basandosi solo ed esclusivamente su fatti e prove, applicando le normative previste dal legislatore, non si arriverebbe a casi eclatanti come quello di Reggio Emilia. I Tribunali per i minorenni in Italia sono 29, uno per ogni distretto di Corte d'appello. Controllare sarebbe facile. Finora non c'è stata una volontà».