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2022-09-15
Maigret torna al cinema: quel passato politico «sulfureo» del suo papà Simenon
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Gérard Depardieu nei panni del commissario Maigret (Ansa)
Esce oggi nelle sale Maigret, di Patrice Leconte, adattamento cinematografico del romanzo Maigret e la giovane morta, pubblicato nel 1954 dallo scrittore belga francofono Georges Simenon. Il commissario apparso su carta per la prima volta nel 1929 rivive quindi per l'ennesima volta sul grande schermo, questa volta con le fattezze pantagrueliche di Gérard Depardieu. Sono oltre 75 i romanzi dedicati Maigret, la cui tiratura complessiva supera i settecento milioni di copie, con traduzioni in oltre cinquanta lingue. A lui sono inoltre dedicati circa duecento tra telefilm, sceneggiati televisivi e film per la televisione (in Italia il personaggio fu interpretato da Gino Cervi negli anni Sessanta e da Sergio Castellitto nel 2004).
Una popolarità e una longevità impressionanti, che hanno saputo sfidare anche le insidie del politicamente corretto. Se i romanzi di Simenon sono tendenzialmente innocui, dal punto di vista ideologico, la biografia del romanziere belga non è priva di ambiguità, dal punto di vista del politicamente corretto.
Tanto per cominciare, nella famiglia Simenon c'era una pecora nera: si tratta di Christian, fratello di Georges. Nel 1940, durante l'occupazione tedesca del Belgio, aveva aderito al movimento rexista di Léon Degrelle, di cui fu anche capo di un dipartimento politico e della Corporazione Nazionale dell'Agricoltura e dell'Alimentazione. Degrelle era il leader del fascismo vallone, un giovane molto carismatico (si dice che il personaggio di Tintin sia ispirato a lui), poi arruolatosi volontario nelle fila delle Ss, dove si riempirà di decorazioni. Christian Simenon fu anche accusato di aver partecipato alla spedizione punitiva contro gli abitanti di Courcelles nell'agosto del 1944 che causò 20 morti, in rappresaglia dell'assassinio del borgomastro rexista di Charleroi e della sua famiglia uccisi da resistenti di Courcelles. Condannato a morte in contumacia nel giugno 1945 dal Consiglio di guerra di Charleroi, su invito del fratello Georges si arruolò nel giugno 1945 nella Legione straniera francese.
Questo Christian. E Georges? Il periodo della sua vita tra il 1940 e il 1945 è piuttosto misterioso. Le testimonianze si dividono tra chi lo ricorda come «collaborazionista» e chi dice che fu semplicemente un opportunista, un abitante della defeliciana «zona grigia». Sicuramente scrisse in testate di fatto controllate dai tedeschi. Almeno un racconto, «Minacce di morte», venne pubblicato, fra marzo e aprile del '42, su Révolution nationale, vale a dire l'organo ufficiale del regime del maresciallo Pétain. Del resto, come ricostruiranno in seguito i biografi, nel 1921, a 18 anni, aveva scritto su La Gazette de Liège una serie di 17 articoli tutti intitolati «Il pericolo ebraico», in cui riciclava gli stereotipi presenti nei Protocolli dei Savi di Sion. I primi articoli sono anonimi ma a partire dall' ottavo compare la sua firma «Georges Sim». Nel 1944 alcuni abitanti della Vandea lo denunciano per «intelligenza col nemico». Sta di fatto che, nel 1945, per sfuggire al Comité national d’épuration des gens de lettres, che indaga sui suoi successi negli anni dell'occupazione tedesca, egli si rifugia in Canada.
Del collaborazionismo di Simenon, il biografo Pierre Assouline ha detto in una vecchia intervista uscita su Repubblica: «Non s' era trattato di collaborazionismo attivo, ovviamente. Simenon non aveva né la voglia né il tempo di mettersi a collaborare con i nazisti. Ancora una volta però, come nel caso dei Savi di Sion, sottovalutò completamente l'aspetto politico della situazione e collaborò con gli occupanti nel senso che cedette i diritti di Maigret alla Continental che era una società di produzione e propaganda cinematografica che faceva capo direttamente a Goebbels. Naturalmente furono necessari una serie di contatti prima di firmare l' accordo e Simenon fu visto infatti entrare più volte nella sede della Kommandantur nazista, sinistramente famosa».
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Il famoso commissario di nuovo sul grande schermo, stavolta con le fattezze di Depardieu. Il personaggio gode ancora di grande successo, malgrado le accuse di collaborazionismo fascista mosse al suo inventore.Esce oggi nelle sale Maigret, di Patrice Leconte, adattamento cinematografico del romanzo Maigret e la giovane morta, pubblicato nel 1954 dallo scrittore belga francofono Georges Simenon. Il commissario apparso su carta per la prima volta nel 1929 rivive quindi per l'ennesima volta sul grande schermo, questa volta con le fattezze pantagrueliche di Gérard Depardieu. Sono oltre 75 i romanzi dedicati Maigret, la cui tiratura complessiva supera i settecento milioni di copie, con traduzioni in oltre cinquanta lingue. A lui sono inoltre dedicati circa duecento tra telefilm, sceneggiati televisivi e film per la televisione (in Italia il personaggio fu interpretato da Gino Cervi negli anni Sessanta e da Sergio Castellitto nel 2004). Una popolarità e una longevità impressionanti, che hanno saputo sfidare anche le insidie del politicamente corretto. Se i romanzi di Simenon sono tendenzialmente innocui, dal punto di vista ideologico, la biografia del romanziere belga non è priva di ambiguità, dal punto di vista del politicamente corretto. Tanto per cominciare, nella famiglia Simenon c'era una pecora nera: si tratta di Christian, fratello di Georges. Nel 1940, durante l'occupazione tedesca del Belgio, aveva aderito al movimento rexista di Léon Degrelle, di cui fu anche capo di un dipartimento politico e della Corporazione Nazionale dell'Agricoltura e dell'Alimentazione. Degrelle era il leader del fascismo vallone, un giovane molto carismatico (si dice che il personaggio di Tintin sia ispirato a lui), poi arruolatosi volontario nelle fila delle Ss, dove si riempirà di decorazioni. Christian Simenon fu anche accusato di aver partecipato alla spedizione punitiva contro gli abitanti di Courcelles nell'agosto del 1944 che causò 20 morti, in rappresaglia dell'assassinio del borgomastro rexista di Charleroi e della sua famiglia uccisi da resistenti di Courcelles. Condannato a morte in contumacia nel giugno 1945 dal Consiglio di guerra di Charleroi, su invito del fratello Georges si arruolò nel giugno 1945 nella Legione straniera francese. Questo Christian. E Georges? Il periodo della sua vita tra il 1940 e il 1945 è piuttosto misterioso. Le testimonianze si dividono tra chi lo ricorda come «collaborazionista» e chi dice che fu semplicemente un opportunista, un abitante della defeliciana «zona grigia». Sicuramente scrisse in testate di fatto controllate dai tedeschi. Almeno un racconto, «Minacce di morte», venne pubblicato, fra marzo e aprile del '42, su Révolution nationale, vale a dire l'organo ufficiale del regime del maresciallo Pétain. Del resto, come ricostruiranno in seguito i biografi, nel 1921, a 18 anni, aveva scritto su La Gazette de Liège una serie di 17 articoli tutti intitolati «Il pericolo ebraico», in cui riciclava gli stereotipi presenti nei Protocolli dei Savi di Sion. I primi articoli sono anonimi ma a partire dall' ottavo compare la sua firma «Georges Sim». Nel 1944 alcuni abitanti della Vandea lo denunciano per «intelligenza col nemico». Sta di fatto che, nel 1945, per sfuggire al Comité national d’épuration des gens de lettres, che indaga sui suoi successi negli anni dell'occupazione tedesca, egli si rifugia in Canada.Del collaborazionismo di Simenon, il biografo Pierre Assouline ha detto in una vecchia intervista uscita su Repubblica: «Non s' era trattato di collaborazionismo attivo, ovviamente. Simenon non aveva né la voglia né il tempo di mettersi a collaborare con i nazisti. Ancora una volta però, come nel caso dei Savi di Sion, sottovalutò completamente l'aspetto politico della situazione e collaborò con gli occupanti nel senso che cedette i diritti di Maigret alla Continental che era una società di produzione e propaganda cinematografica che faceva capo direttamente a Goebbels. Naturalmente furono necessari una serie di contatti prima di firmare l' accordo e Simenon fu visto infatti entrare più volte nella sede della Kommandantur nazista, sinistramente famosa».
Il ministro degli Esteri del Regno di Giordania Ayman Safadi
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi spiega la partecipazione di Amman all’operazione Usa in Siria contro l’Isis, il ruolo della comunità drusa nella stabilità interna e l’impegno della Giordania per la pace e la sicurezza nella Striscia di Gaza. «Questi terroristi vogliono ricostituire lo Stato Islamico», avverte.
Nell’attacco alle posizioni dello Stato Islamico in Siria Washington ha colpito 70 obiettivi, neutralizzando la cellula che agiva nella provincia orientale siriana di Deir Ezzor. Questi miliziani dell’Isis erano i responsabili dell’attacco di Palmira dove avevano perso la vita tre americani, due militari e un interprete civile ed erano noti per le continue offensive con droni in questa area. L’operazione, denominata Occhio di falco, si è estesa a diverse località della Siria centrale utilizzando caccia, elicotteri d'attacco e artiglieria e agendo insieme all’aviazione della Giordania. Amman ha confermato la sua partecipazione a questa azione militare ribadendo la propria volontà di sradicare lo Stato Islamico dal Medio Oriente. Ayman Safadi è vice primo ministro e ministro degli Esteri del Regno di Giordania da quasi 9 anni ed è un diplomatico di grande esperienza.
Ministro Safadi, la partecipazione delle vostre forze aeree all’operazione degli Usa dimostra il vostro interesse ad essere protagonisti in Medio Oriente.
«Abbiamo deciso di affiancare gli statunitensi del Centcom perché riteniamo l’Isis un pericolo per tutta la nostra area e soprattutto per la Giordania. Questi terroristi hanno già cercato di infiltrare la nostra nazione, ma la loro propaganda non ha mai attecchito. La Giordania è uno dei 90 paesi che compongono la coalizione globale contro l'Isis, a cui la Siria ha recentemente aderito e questa operazione è l’attuazione pratica dei nostri principi. La nostra aviazione ha agito per impedire ai gruppi estremisti come questo di sfruttare questa regione come una rampa di lancio allo scopo di minacciare la sicurezza dei paesi vicini alla Siria e del Medio Oriente in generale, soprattutto dopo che l'Isis si è riorganizzato e ha ricostruito le sue capacità nella Siria meridionale. In troppi hanno sottovalutato la rinascita di questo network del terrorismo che è proliferato in Africa, dove gestisce traffici di armi, droga e migranti. Con i guadagni di queste attività criminali vogliono ricostituire lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, quella creatura nefasta che aveva conquistato il nord dell’Iraq e tutta la Siria orientale».
Il Medio Oriente è una regione complessa per le diversità culturali e religiose. In Giordania la convivenza sembra funzionare: come vive la sua comunità drusa questo equilibrio?
«Noi drusi siamo un gruppo etno-religioso con una lunga storia e abbiamo sempre lottato per le nazioni dove viviamo. In Giordania la comunità è piccola, ma siamo fieri di essere giordani. In Siria la situazione è complicata per i drusi che sono stati attaccati dai beduini e probabilmente anche da elementi dello Stato Islamico, il nuovo governo di Damasco deve fare di più per difendere le minoranze. Il presidente siriano Ahmed al Shara ha pubblicamente dichiarato di combattere lo Stato Islamico, ma ci sono intere province del sud e dell’est che sono fuori controllo e ci sono ancora troppe armi in Siria».
Il governo israeliano ha dichiarato di non fidarsi del nuovo regime di Damasco, qual è la posizione di Amman?
«Il presidente statunitense Donald Trump ha voluto togliere tutte le sanzioni alla Siria, aprendo un grande credito al nuovo corso. Adesso al Shara deve dimostrare di meritare questa fiducia e lo deve fare pacificando la sua nazione, la Siria è un paese con tante anime: sunniti, sciiti, cristiani e drusi. Washington sta dedicando una grande attenzione al Medio Oriente e questo è positivo. Soltanto il presidente Trump può ottenere una pace duratura e un futuro per la Striscia, la Giordania segue con estrema attenzione ciò che accade a Gaza perché circa il 50% della nostra popolazione è di origine palestinese. Noi siamo totalmente contrari a una divisione della Striscia, il territorio dei palestinese non deve essere toccato ed i confini devono restare gli stessi. La cosa più importante è garantire la sicurezza di tutti, dei palestinesi, degli israeliani ed anche delle nazioni vicine. La Giordania ha sempre represso la presenza di Hamas sul suo territorio, chiudendone gli uffici ed esiliandone i funzionari nel 1999. Negli ultimi anni abbiamo aumentato la sicurezza alle frontiere per ostacolare il contrabbando di armi, collegato ad Hamas che nel passato ha tentato di destabilizzare la Giordania».
Quale futuro per la Striscia di Gaza?
«Dobbiamo difendere la pace e ricostruire un posto dove gli abitanti di Gaza possano vivere. Il nostro sovrano ed il nostro governo hanno più volte dichiarato di essere favorevoli ad un maggior impegno degli europei nella Striscia. La Giordania ha relazioni eccellenti con l’Italia. Sua Maestà il Re Abdullah II di Giordania a marzo ha incontrato Giorgia Meloni e ha espresso apprezzamento per la solida cooperazione tra le due nazioni nell’assistenza umanitaria a Gaza. Il presidente del Consiglio italiano ha voluto sottolineare ancora una volta il ruolo svolto dalla Giordania, come una forza di pace e di dialogo determinante per il futuro di tutta l’area».
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Getty Images
Nuove accuse tra Cambogia e Thailandia lungo il confine conteso. Phnom Penh denuncia bombardamenti con caccia F-16, Bangkok parla di attacchi notturni cambogiani. Oltre mezzo milione di sfollati mentre proseguono i negoziati.
La crisi tra Cambogia e Thailandia torna ad aggravarsi lungo il confine conteso. Phnom Penh accusa Bangkok di aver intensificato i bombardamenti con caccia F-16, mentre le autorità thailandesi parlano di attacchi cambogiani durante la notte. Le accuse incrociate arrivano mentre sono in corso negoziati per un cessate il fuoco e il numero degli sfollati supera il mezzo milione.
Secondo il ministero della Difesa cambogiano, l’aeronautica thailandese avrebbe impiegato caccia F-16, sganciando almeno quaranta bombe nell’area del villaggio di Chok Chey. L’episodio viene descritto come un’ulteriore escalation militare in una zona già colpita da ripetuti raid. La versione di Bangkok è opposta. I media thailandesi riferiscono che, durante la notte, le forze cambogiane avrebbero condotto attacchi massicci lungo il confine nella provincia sud-orientale di Sa Kaeo, provocando danni a diverse abitazioni civili.
Nel frattempo, le due parti hanno avviato un nuovo ciclo di colloqui, iniziato mercoledì e destinato a durare quattro giorni, con l’obiettivo dichiarato di porre fine ai combattimenti. L’incontro si svolge in territorio thailandese, presso un valico di frontiera nella provincia di Chanthaburi, secondo quanto riferito da funzionari di Phnom Penh. Sul piano diplomatico si registra anche un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Il primo ministro cambogiano Hun Manet ha reso noto di aver avuto un colloquio telefonico con il segretario di Stato americano Marco Rubio, durante il quale si è discusso di «come garantire un cessate il fuoco lungo il confine tra Cambogia e Thailandia».
Alla base delle tensioni c’è una disputa storica sulla delimitazione di circa 800 chilometri di confine, che affonda le radici nell’epoca coloniale. Il confronto armato si è riacceso con forza nel corso dell’anno. A luglio, cinque giorni di scontri avevano provocato circa 40 morti e costretto 300.000 persone ad abbandonare le proprie abitazioni, prima di una tregua che successivamente è fallita.
L’impatto umanitario resta pesante. Secondo le autorità cambogiane, oltre mezzo milione di persone è stato costretto a lasciare case e scuole nelle ultime due settimane di combattimenti. In una nota, il ministero dell’Interno di Phnom Penh ha parlato di 518.611 sfollati, denunciando che «oltre mezzo milione di cambogiani, tra cui donne e bambini, stanno soffrendo gravi difficoltà a causa dello sfollamento forzato dalle loro case e scuole per sfuggire al fuoco di artiglieria, ai razzi e agli attacchi aerei dei caccia F-16 thailandesi». In precedenza, Bangkok aveva indicato in circa 400.000 il numero degli sfollati sul proprio territorio. Il portavoce del ministero della Difesa thailandese, Surasant Kongsiri, ha affermato che il numero di persone accolte nei rifugi è in diminuzione, pur restando superiore alle 200.000 unità. Kongsiri ha inoltre invitato gli abitanti dei villaggi a rientrare con cautela, avvertendo che «potrebbero esserci ancora mine o bombe pericolose». Dal punto di vista militare, Phnom Penh ha sottolineato come le forze thailandesi abbiano continuato le operazioni dall’alba del 21 dicembre, segnalando combattimenti anche nei pressi del tempio khmer di Preah Vihear, risalente a 900 anni fa. La Cambogia ha inoltre ricordato il divario di risorse tra i due eserciti, a vantaggio di Bangkok. Secondo i dati ufficiali, il bilancio complessivo degli scontri è salito ad almeno 41 morti, di cui 22 thailandesi e 19 cambogiani. Le ostilità più recenti sono riprese il 12 dicembre, mentre una precedente ondata di violenze, a luglio, aveva causato 43 vittime in pochi giorni.
La crisi è ora all’attenzione dell’Associazione delle nazioni del sud-est asiatico. I ministri degli Esteri dell’Asean, compresi quelli di Thailandia e Cambogia, si riuniscono il 22 dicembre a Kuala Lumpur per discutere del conflitto. Entrambi i governi hanno espresso l’auspicio che l’incontro contribuisca a ridurre le tensioni. La portavoce del ministero degli Esteri thailandese, Maratee Nalita Andamo, ha definito il vertice «un’importante opportunità per entrambe le parti». Bangkok ha tuttavia ribadito alcune condizioni preliminari, chiedendo a Phnom Penh di annunciare per prima un cessate il fuoco e di cooperare nelle operazioni di sminamento lungo il confine. In un comunicato, il governo thailandese ha precisato che un accordo potrà essere raggiunto «solo se basato principalmente su una valutazione della situazione sul campo da parte dell’esercito thailandese».
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L’obiettivo è evitare la delocalizzazione della produzione e contrastare l’effetto dei costi energetici elevati sulla competitività europea. La misura riguarda principalmente i settori dell’acciaio, della chimica e dell’automotive, fortemente influenzati dalle bollette elettriche, che in Germania risultano quasi tre volte superiori rispetto agli Stati Uniti. Le autorità tedesche hanno già avviato le trattative con la Commissione Europea per ottenere la compatibilità con le norme sugli aiuti di Stato. Per la Slovacchia, strettamente integrata nelle filiere tedesche, la mossa può rappresentare una sfida competitiva: se le imprese tedesche recuperano tranquillità sui costi dell’energia, le aziende slovacche del comparto manifatturiero esportatrici potrebbero trovarsi a dover far fronte a maggiori pressioni sui costi. Lo stesso potrebbe accadere in Italia.
Prima della Germania il Regno Unito, dove un “price cap” è stato stabilito nel 2019 dall’allora governo May. Dal gennaio 2019 l’Ofgem (l’equivalente della nostra Arera) applica un tetto alla spesa massima dei consumatori di trimestre in trimestre. Ma attenzione: non a tutti i clienti, bensì solo ai sottoscrittori delle “standard variable tariffs”, cioè delle tariffe a prezzo variabile molto basilari, dedicate ai clienti meno abituati a cercare tariffe sul mercato libero, e per questo da anni con lo stesso operatore che a volte approfitta di questo immobilismo applicando prezzi piuttosto elevati.
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