2019-12-08
L’unica, eterna «nera» di cui si può parlare senza essere razzisti
Omicidi e delitti tirano sempre, anche dopo la scomparsa dei quotidiani del pomeriggio. E malgrado la velocità del Web.Sono passati nove anni da quando il 26 novembre 2010 la tredicenne Yara Gambirasio scomparve, per essere poi ritrovata morta nel febbraio successivo. E proprio in occasione dell'anniversario, i legali di Massimo Bossetti (condannato all'ergastolo in via definitiva per l'omicidio) hanno annunciato una denuncia per frode processuale, collegata alla vexata quaestio del Dna rilevato sulla scena del crimine, in vista di una richiesta di revisione del processo.Il caso mantiene dunque intatta la sua rilevanza mediatica. Perché è tutta la cronaca nera a conservare inalterato il suo fascino, se lo vogliamo definire così, pur in un'epoca di vorticose trasformazioni politiche, sociali, culturali, etiche, antropologiche. Giornali e tv sanno benissimo che dedicare attenzione agli episodi più controversi o efferati -ma il mix ideale è controversi ed efferati - è un'ottima panacea per tirature e ascolti. La longevità di trasmissioni come Chi l'ha visto?, che ha debuttato su Rai 3 nel 1989, e di Quarto grado, dal 2010 in onda su Rete 4, lo testimonia (diverso è il caso di Linea gialla e Bianco e nero su La 7, chiuse entrambe dopo poche puntate: il target della tv di Urbano Cairo è tarato sulla politica, e mal tollera le proposte, tanto più se scimmiottanti i programmi «storici», non fedeli alla linea). Fuori dalle reti generaliste, poi, è tutto un fiorire di canali tematici con serie su delitti variamente declinati, meglio ancora se irrisolti, i famosi cold case, i «casi a pista fredda».Ma come dimenticare che anche talk show quali Porta a porta e Matrix (ai tempi di Enrico Mentana; oggi il format è sparito dagli schermi) hanno fatto infinite puntate sulle vicende più eclatanti e scabrose, a cominciare dalla vicenda di Cogne, che ha consentito a Bruno Vespa di varare il primo dei suoi celebri plastici. Il «marchio di fabbrica» dell'appuntamento, secondo Vanity Fair, che ha addirittura interpellato gli scenografi del programma Rai che si sono occupati dei pregevoli manufatti: «Cogne, uno dei più belli e curati insieme a quello di Avetrana (uccisione di Sarah Scazzi, nda). Garlasco (vittima Chiara Poggi, nda) il più difficile, avevamo poche immagini e poi c'era il cadavere sul pianerottolo...» (testuale). Sbagliato invece quello della casa di Brenda, il trans del caso Piero Marrazzo: «Per la fretta la redazione aveva acquisito la ricostruzione della piantina, errata, fatta da un giornale».Eh sì, perché anche i giornali cavalcano i fatti di sangue, in qualche caso ci sguazzano, tanto più se le tragedie - per circostanze e modalità - riescono a scuotere un'opinione pubblica sempre più assuefatta a crimini e misfatti. Ma anche qui la concorrenza dell'online si fa sentire: i siti sono più tempestivi e soprattutto hanno dalla loro la possibilità di offrire contemporaneamente testi, foto e video, in qualche caso non censurati.Internet si è così appropriata di un tipo di «consumo» che una volta s'indirizzava verso una categoria ben precisa di quotidiani: quelli del pomeriggio. Che proprio per questa loro caratteristica - arrivare «dopo» e come seconda scelta, rispetto alle testate del mattino - avevano la necessità di «sparare» omicidi e ammazzamenti in prima pagina per invogliare il potenziale lettore all'acquisto. Non sempre: se Paese Sera di Roma, L'Ora di Palermo e Milano Sera, orientati a sinistra, erano più attenti a fornire aggiornamenti sulla situazione politica (intendiamoci: non disdegnando i lutti, ma cercando se possibile di collocarli in una cornice «impegnata», vedi Paese Sera: «Morta di dolore la moglie di Giorgio Amendola», storico dirigente del Pci), Stampa Sera e Corriere d'informazione, ma soprattutto La Notte, schiacciavano l'acceleratore sulla cronaca a tinte fosche. Con foto choc e titolazione conseguente, meglio se a caratteri cubitali.Sfogliando il volume di Salvatore Garzillo, Alan Maglio e Luca Matarazzo, Ultima edizione, sottotitolo: Storie nere dagli archivi de «La Notte», se ne può gustare qualche assaggio. Tra immagini in bianco e nero, in più di un caso davvero «disturbanti», si possono leggere «strilli» tra lo splatter e il comico, ma decisamente poco politically correct: «Ghigliottina in Francia: decapitato un diciasettenne». «Fugge con la fidanzata nel serbatoio della benzina». «Così ho strappato quegli occhi». «Aids: la peste del 2000» (anno 1986). «Milano come Chicago». «Tre donne squartate». «L'uxoricida di Sesto impazzisce dopo la nascita del figlio anormale». «Bella quarantenne nuda strozzata in bagno». «Strage nella nebbia: tram investe gregge di pecore, 12 maciullate». «Tagliatelle alla P38. Otto uccisi in trattoria». «Per avere un maschio presta il marito alla vicina. Ma è nata una femmina, e la “collaboratrice" perde il compenso e deve tenersi la creatura». «Bidello di giorno, spogliarellista di notte». «Se non mangio non parlo, dice il bandito preso dalla Stradale: prima di confessare ha voluto 12 uova. Sode». «È nata nel 1956 la resistenza negra». «Sono innocente: non ho ucciso il nano diabolico». «Dracula a Milano: morde sul collo le donne di notte». «Metti giù il bimbo che hai in braccio perché ti dobbiamo sparare alle gambe». «Per non battezzarla, uccide la figliola». «Precipita dal balcone assieme al cane. Lui ferito, illesa la bestia». «Inciampa e precipita per tre metri nella tomba scoperchiata del fratello». «I sacri porcelli» (su sollazzi a luci rosse in canonica).In realtà La Notte, il cui primo numero uscì in edicola il 7 dicembre del 1952 (l'ultimo nel 1995) e la cui tiratura aumentò fino a raggiungere le 250.000 copie, contava su tre edizioni: alle 11, alle 14 e alle 17. Fondatore (grazie all'editore Carlo Pesenti) e direttore per 27 anni, fino al 1979, fu Nino Nutrizio. Che decise di mostrare ai lettori, per la prima volta e con solerte immediatezza, la scena del crimine, l'arma del delitto, il ritrovamento del cadavere e il volto del killer. Ha raccontato Livio Caputo, direttore dopo Nutrizio dal 1979 al 1984: «Detto cinicamente: molti delitti venivano scoperti all'ora giusta per la nostra redazione, cioè verso le 8 di mattina. E visto che noi chiudevamo in tipografia alle 10, si faceva a uscire in tempo con una notizia che i giornali del mattino non avevano. Tipo la sparatoria di via Moncucco, otto morti. Fotografo e cronista andarono sul posto, tornarono in tempo per mandare in stampa immagini e articolo, e riuscimmo a ripresentarci fuori dal ristorante, con le copie in mano allo strillone, prima ancora che i cadaveri fossero portati via». Chapeau.La Notte e gli altri giornali del pomeriggio hanno creato uno stile e imposto un linguaggio dai sapori forti. Che hanno fatto scuola, se è vero che poi tutti si sono adeguati sviluppando una vena fin troppo creativa. Così abbiamo conosciuto Rita Fort, «la belva di via San Gregorio». Gigliola Guerinoni, «la mantide della Valbormida». Maria Luigia Redoli, «la Circe della Versilia». «Il biondino dalla spider rossa» nel caso di Milena Sutter. La «capafemmena» Pupetta Maresca. Fino a «er Canaro della Magliana». Abbiamo anche avuto i casi definiti per geolocalizzazione: «Il delitto di via Poma» (vittima Simonetta Cesaroni), «Il massacro del Circeo», «Il mostro di Firenze», «La strage di Erba» (condannati Olindo e Rosa), «La mattanza di Novi Ligure» (autori Erika e Omar).E se gli scatti a corredo di Ultime notizie sono circa 300, nel libro di Carlo Lucarelli e Massimo Picozzi La nera - Storia fotografica di grandi delitti italiani dal 1946 a oggi, arrivano a 400, una parte dei quali riservati a stomaci forti. Che però anziché respingere, attirano. Perché come si legge nel volume di Garzillo, Maglio e Matarazzo: «Queste immagini ci parlano prima di tutto del voyeurismo, sono un paradigma descrittivo del piacere morboso di guardare la morte». Non viene documentato banalmente un fatto, ma anche, «e forse prima di tutto», il modo in cui il lettore vuole vederlo. L'occhio, ovvero la lente dell'obiettivo, coincide con quello del fotografo, ovvero del lettore. Non a caso, un film hollywoodiano, con Joe Pesci, Stanley Tucci e Barbara Hershey, ispirato alla vita di Arthur Fellig, più noto come Weegee, è stato intitolato The public eye (in italiano: Occhio indiscreto). Fellig, nato in Polonia ma emigrato negli Usa con la famiglia, a 18 anni lavorava già come tuttofare in uno studio fotografico a Manhattan. Lì ha scoperto la sua vocazione, che lo ha portato a diventare un pioniere del fotogiornalismo. Nel 1938 ottiene l'autorizzazione di montare sulla propria auto una radio sintonizzata con la centrale di polizia, il che gli consente di arrivare spesso sul luogo del delitto prima degli agenti in divisa, realizzando notevoli scoop, che potete ritrovare nel bel libro di Brian Wallis Weegee murder is my business, edizioni DelMonico Books. Un modo nudo, crudo, sfacciato, spregiudicato di documentare gli effetti della lucida follia della mente umana. Quella del killer, uomo o donna che sia. Ma anche di chi è pronto a immortalare lo scempio. Come ha scritto Weegee nella sua autobiografia: «La macchina fotografica è la mia lampada d'Aladino, e io adoro il mio mestiere. Eccitante. Pericoloso. Divertente. Duro. Straziante».