2018-10-06
L’ultima crociata dei democratici è contro il diritto alla nascita
Verona vota una mozione per la vita, la capogruppo del Pd si schiera a favore. Maurizio Martina perde le staffe: «Va censurata». Pur di non negare il diritto di venire alla luce a un innocente, si sottraggono alla madre reticente le responsabilità genitoriali. In un mondo in cui si pratica la compravendita degli uteri, non sembra qualcosa di scandaloso. Tant'è che persino qualche esponente piddino in consiglio ha deciso di esprimere parere favorevole alla mozione.Quella contro la vita, per il Pd, è la madre di tutte le battaglie. Anche se la figura della madre i dem preferirebbero demolirla.L'occasione per dedicarsi anima e corpo a una nuova crociata, il partito di Maurizio Martina l'ha avuta ieri, quando si è appreso che il consiglio comunale di Verona aveva votato una mozione della Lega, sottoscritta dal sindaco Federico Sboarina, per dichiarare il capoluogo veneto «città a favore della vita» e impegnarsi a sostenere finanziariamente le associazioni che promuovono campagne contro l'aborto, oltre al progetto regionale «Culla segreta». Nulla di sconvolgente, nulla di illegittimo. Verona non è diventata all'improvviso sponsor del Ku Klux Klan. Ha semplicemente assunto una decisione politica: schierarsi al fianco degli attivisti pro vita e partecipare a un'iniziativa lanciata da istituzioni rispettabili (l'Istituto provinciale di Venezia per l'infanzia, la Cassa di risparmio, eccetera), il cui scopo è consentire alle donne di partorire in anonimato, qualora non vogliano poi riconoscere il neonato. Finalità più che lodevole: pur di non negare il diritto di venire alla luce a un innocente, si sottraggono alla madre reticente le responsabilità genitoriali. In un mondo in cui si pratica la compravendita degli uteri, non sembra qualcosa di scandaloso. Tant'è che persino qualche esponente piddino in consiglio ha deciso di esprimere parere favorevole alla mozione. A cominciare dalla capogruppo dem, Carla Padovani.Eppure, sarà che Verona è la città dove è stato vicesindaco Lorenzo Fontana, il ministro della Famiglia che per gli aedi dei diritti (in)civili è praticamente il demonio, ma i vertici nazionali del Partito democratico si sono letteralmente scatenati. Come se una mozioncina che distribuisce qualche spiccio a poche associazioni (in un Paese che, dei fondi a pioggia a Ong e Onlus dagli scopi molto meno raccomandabili di quelli dei gruppi pro life, ha fatto tradizionalmente una bandiera) fosse diventata all'improvviso la grande piaga politica dello Stivale.Terrorizzati dalla prospettiva che qualcuno si opponga alla soppressione dei feti, gli stessi che blaterano di crisi demografica (da risolvere importando africani, però) si sono scatenati in un profluvio di dichiarazioni indignate e allarmate. C'è quella di Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio e pretendente alla segreteria pd: «Non si rispetta la vita se non si rispettano le scelte delle donne». Manco Verona si fosse improvvisamente trasformata in un'enclave teocratica. Ci sono i peana sul presunto assalto alla legge 194 (che, forse è bene ricordarlo, non è stata congegnata per incoraggiare l'interruzione della gravidanza, bensì per regolamentare il ricorso a questa pratica). Ad esempio, il monito di Martina: «No a colpi di mano contro la 194». O l'accorato commento di Barbara Pollastrini, la vicepresidente del Pd: «L'approvazione della mozione da parte del consiglio comunale di Verona rappresenta un simbolico e concreto grave passo indietro rispetto a una legge seria e importante come la 194». Sia per Martina che per la Pollastrini è da censurare il comportamento della capogruppo dem Padovani, la quale ha l'imperdonabile colpa di essere cattolica, come si è affrettata a denunciare Repubblica. Il «reggente», vestiti i panni dell'uomo nero che soffoca i bimbi nella culla, ha parlato di «grave errore». Durissima pure la Pollastrini: «Evidentemente [la Padovani, ndr] non ha consapevolezza del proprio ruolo di rappresentante del Partito democratico». Monica Cirinnà, madre (o genitore 2?) della legge sulle unioni civili, si è messa addirittura ad agitare lo spauracchio di una divisione della compagine progressista: «Se l'unità deve essere un fritto misto, non ci sto». Insomma, sono «democratica», ma solo se tutti la pensano come me. E non poteva mancare la staffilata di Sergio Lo Giudice, responsabile dei diritti per il Pd e noto sostenitore (oltre che beneficiario) della pratica dell'utero in affitto: «L'ordine del giorno votato dal consiglio comunale di Verona e controfirmato anche dalla capogruppo pd è incompatibile con le posizioni del partito». Posizioni che, per la verità, appaiono sempre più autolesionistiche. Sempre più incomprensibili. Sempre più lontane non solo dal benché minimo senso della realtà, ma proprio dal buon senso tout court.Si sa che oramai i dem tifano per lo spread, per gli speculatori, per i fantasmagorici «mercati», per gli eurocrati che si sforzano di scatenare la tempesta finanziaria con i loro deliri contro il governo gialloblù. I radical chic hanno rotto con le classi più deboli che dovevano difendere, bocciano le chiusure domenicali e contestano il reddito di cittadinanza (misure, saranno d'accordo i leghisti, alleati del M5s, tendenzialmente di sinistra). E adesso, dopo aver profuso enormi sforzi per costruirsi l'immagine di spietati compagni di merende al soldo della finanza predatoria e degli aguzzini anti italiani di Bruxelles, i vertici del Pd puntano dritti ai bambini. Sbraitano se qualcuno osa considerare l'aborto, cioè la negazione del diritto a nascere, se non come un omicidio, almeno come un fallimento. Ma la linea è coerente: prima ci si converte all'avidità, poi ci si allinea agli interessi dei privilegiati e delle élite straniere, infine si affronta la più grave crisi di consenso della storia schierandosi direttamente al fianco della morte. Parabola ineccepibile. Psicodramma servito.
Palazzo Justus Lipsius a Bruxelles, sede del Consiglio europeo (Ansa)
Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa (Ansa)
Protagonista di questo numero è l’atteso Salone della Giustizia di Roma, presieduto da Francesco Arcieri, ideatore e promotore di un evento che, negli anni, si è imposto come crocevia del mondo giuridico, istituzionale e accademico.
Arcieri rinnova la missione del Salone: unire magistratura, avvocatura, politica, università e cittadini in un confronto trasparente e costruttivo, capace di far uscire la giustizia dal linguaggio tecnico per restituirla alla società. L’edizione di quest’anno affronta i temi cruciali del nostro tempo — diritti, sicurezza, innovazione, etica pubblica — ma su tutti domina la grande sfida: la riforma della giustizia.
Sul piano istituzionale spicca la voce di Alberto Balboni, presidente della Commissione Affari Costituzionali del Senato, che individua nella riforma Nordio una battaglia di civiltà. Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri, riformare il Consiglio superiore della magistratura, rafforzare la terzietà del giudice: per Balboni sono passaggi essenziali per restituire equilibrio, fiducia e autorevolezza all’intero sistema giudiziario.
Accanto a lui l’intervento di Cesare Parodi dell’Associazione nazionale magistrati, che esprime con chiarezza la posizione contraria dell’Anm: la riforma, sostiene Parodi, rischia di indebolire la coesione interna della magistratura e di alterare l’equilibrio tra accusa e difesa. Un dialogo serrato ma costruttivo, che la testata propone come simbolo di pluralismo e maturità democratica. La prima pagina di Giustizia è dedicata inoltre alla lotta contro la violenza di genere, con l’autorevole contributo dell’avvocato Giulia Buongiorno, figura di riferimento nazionale nella difesa delle donne e nella promozione di politiche concrete contro ogni forma di abuso. Buongiorno denuncia l’urgenza di una risposta integrata — legislativa, educativa e culturale — capace di affrontare il fenomeno non solo come emergenza sociale ma come questione di civiltà. Segue la sezione Prìncipi del Foro, dedicata a riconosciuti maestri del diritto: Pietro Ichino, Franco Toffoletto, Salvatore Trifirò, Ugo Ruffolo e Nicola Mazzacuva affrontano i nodi centrali della giustizia del lavoro, dell’impresa e della professione forense. Ichino analizza il rapporto tra flessibilità e tutela; Toffoletto riflette sul nuovo equilibrio tra lavoro e nuove tecnologie; Trifirò richiama la responsabilità morale del giurista; Ruffolo e Mazzacuva parlano rispettivamente di deontologia nell’era digitale e dell’emergenza carceri. Ampio spazio, infine, ai processi mediatici, un terreno molto delicato e controverso della giustizia contemporanea. L’avvocato Nicodemo Gentile apre con una riflessione sui femminicidi invisibili, storie di dolore taciuto che svelano il volto sommerso della cronaca. Liborio Cataliotti, protagonista della difesa di Wanna Marchi e Stefania Nobile, racconta invece l’esperienza diretta di un processo trasformato in spettacolo mediatico. Chiudono la sezione l’avvocato Barbara Iannuccelli, parte civile nel processo per l’omicidio di Saman, che riflette sulla difficoltà di tutelare la dignità della vittima quando il clamore dei media rischia di sovrastare la verità e Cristina Rossello che pone l’attenzione sulla privacy di chi viene assistito.
Voci da angolature diverse, un unico tema: il fragile equilibrio tra giustizia e comunicazione. Ma i contributi di questo numero non si esauriscono qui. Giustizia ospita analisi, interviste, riflessioni e testimonianze che spaziano dal diritto penale all’etica pubblica, dalla cyber sicurezza alla devianza e criminalità giovanile. Ogni pagina di Giustizia aggiunge una tessera a un mosaico complessivo e vivo, dove il sapere incontra l’esperienza e la passione civile si traduce in parola scritta.
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