2020-08-12
Lukaku, il «bidone» che non smette di far gol
Il centravanti dell'Inter ha superato il record di marcature europee di Alan Shearer ed è a tre reti dall'exploit di Ronaldo il Fenomeno. Ha cancellato il ricordo di Icardi e zittito le critiche sul prezzo di 83 milioni: è immarcabile e si sacrifica per il gruppo in campo e fuori. L'Atalanta stasera affronta il Psg. Il miracolo dista solo tre partite. Unici italiani in Champions, con le regole Covid i bergamaschi possono ambire al trofeo. Lo speciale contiene due articoli. Un leader gigantesco. Dopo aver segnato 31 gol nella prima stagione italiana (a soli tre dal Ronaldo interista); dopo avere battuto il record di reti consecutive in Europa League (nove, Alan Shearer si era fermato a otto); dopo aver portato i nerazzurri in semifinale, Romelu Lukaku va davanti alle telecamere e in un italiano perfetto serenamente dice: «L'uomo partita è Barella, un grande giocatore». È pure un fine psicologo il centravanti contadino dalle scarpe grosse che sta trascinando l'Inter in questo surreale agosto di calcio giocato. E si dimostra il punto di riferimento perfetto non solo in campo, dove porta via avversari appesi alle sue spalle come i mariuoli a quelle di Bud Spencer, ma anche nello spogliatoio. Dove tutti sanno chi guardare e chi ascoltare quando c'è qualcosa da discutere. La stagione di Lukaku è pazzesca, solo adesso si comprende perché l'armadio belga l'estate scorsa fu al centro di un'omerica zuffa fra Inter e Juventus. A un certo punto del mercato, a Torino partì l'ordine: «Compratelo!». E Fabio Paratici si presentò al Manchester United, che stava facendo il suk nella trattativa con Beppe Marotta, con l'offerta irrinunciabile: Paulo Dybala con il limone in bocca. Il club bianconero cercava una spalla per Cristiano Ronaldo, l'arco che scocca la freccia, l'uomo delle sportellate, del piede calamita sul rilancio del portiere, della spizzata liberatrice, dell'appoggio per il tiro decisivo. Praticamente lui. Dybala rifiutò e cambiò il destino dell'Inter di Antonio Conte. La grande stampa fu l'ultima a capire l'importanza di un giocatore simile, e di un uomo simile, dentro la chimica solforica dello spogliatoio nerazzurro. Fino al lockdown alternava complimenti di facciata a stroncature gratuite. Da pelo nell'uovo. «Sbaglia i gol facili», «Ti rende prevedibile», «Sì però Icardi...». Invece segna i gol difficili e ti rende imprevedibile perché dà più tempo ai compagni di pensare soluzioni alternative. La maledizione del Circo Wanda faticava a scomparire e il titolo da prima pagina della Gazzetta dello Sport «Quest'uomo vale davvero 83 milioni?» continuava a inseguire il centravanti belga come una cambiale in scadenza ogni domenica. Oggi Lukaku è un re. Riesce a fare ciò che per un semplice cannoniere come Mauro Icardi sarebbe caratterialmente impossibile: essere leader. Ma non il leader che arriva in elicottero, fa collezione di Bentley, instagramma la vita di tutti avvinghiato alla moglie manager in tanga, organizza grigliate sul terrazzo invitando solo l'inner circle, non insegue un avversario neanche per sbaglio e vuole la palla sul piede «massa di lazzaroni». No, Lukaku lo è con lo sguardo, con i silenzi, con l'aiuto sistematico ai compagni in difficoltà, con il rigore lasciato al baby Sebastiano Esposito, con quello (pure sbagliando) regalato a un Lautaro Martinez fuori fase contro il Bologna. Lukaku c'è sempre, porta in giro il Gondrand di 93 chili per 97 minuti, scatta anche quando è stremato. Icardi pretendeva di dirigere l'orchestra e neppure si spettinava. Eppure ancora oggi, dopo un anno, ci sono interisti che lo rimpiangono e criticano per accidia la montagna nera. Come se il paragone fra i due, alla luce di pregi e difetti, non fosse addirittura ridicolo. Atteggiarsi da leader non significa esserlo, ecco la differenza. Lukaku lo è perché ha dovuto diventarlo per uscire dal ghetto, dalla povertà, da un passato fatto di lacrime e di malinconie. È il ragazzone che in un'intervista rivelò: «Ho la rabbia dentro perché ho visto troppi topi correre negli angoli della mia stanza». È il campione che non ha paura di ricordare quando «vedevo piangere mia madre mentre mescolava il latte con l'acqua per farlo durare di più». Un successo nato nel fango e fra i morsi della fame. Suo padre era stato calciatore professionista, ma a fine carriera erano finiti anche i soldi. «La prima a sparire fu la tv via cavo, poi capitava di tornare a casa e non c'era più la luce fino a quando non si pagava la bolletta». La forza della fatica, il riscatto dalla povertà di ritorno. Ci sono interi scaffali dedicati alle rinascite grazie allo sport. Quell'esperienza ti forgia il carattere, non hai bisogno di sbruffonate per sentirti qualcuno. O lo sei o ciccia, come diceva Francesco Cossiga. Ed ecco la valanga di gol, di consensi ai quali il ragazzone di 27 anni nato ad Anversa è pure un po' refrattario tanto da smistarli una volta su Stefan De Vrij, un'altra su Lautaro, infine su Barella, inesauribile maratoneta capace di mordere le caviglie e infilare il portiere di esterno nell'angolino. Grazie al leader gigantesco l'agosto dell'Inter sta diventando qualcosa di straordinario. Per 25 anni accusata di vincere solo il campionato d'estate, quello di cartapesta, oggi compete per una coppa che non è la Champions, ma è vera e luccica. «Ora se va bene abbiamo due finali, non potremo sbagliare niente», spiega ancora Lukaku. In cuor suo sogna di ritrovare nell'ultima sfida la maglia rossa del Manchester che lo ha lasciato andare via e non lo ha valorizzato come desiderava. Lui ci prova, con la sua barbetta caprina e il carisma sudato del Ferragosto. Oscura la vallata come Shaquille O'Neal, fa dire all'allenatore del Bayer Leverkusen appena eliminato, Peter Bosz: «Nell'uno contro uno è immarcabile». Il ragazzino che beveva latte annacquato e contava i topi in camera ha trasformato un gruppo di turisti capricciosi in una squadra. E solo per questo, in attesa di nuovi peli nell'uovo, quegli 83 milioni li vale tutti. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/lukaku-il-bidone-che-non-smette-di-far-gol-2646952467.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="latalanta-stasera-affronta-il-psg-il-miracolo-dista-solo-tre-partite" data-post-id="2646952467" data-published-at="1597180149" data-use-pagination="False"> L’Atalanta stasera affronta il Psg. Il miracolo dista solo tre partite «Siamo il sollievo di un popolo ferito». Il tempo è scaduto, il destino è a poche ore di distanza e Antonio Percassi sa qual è il valore più grande di questa partita di calcio. Bergamo prostrata e mortificata dal virus cinese stasera sarà davanti al televisore. Un milione di bergamaschi, un milione di televisori in attesa di un milione di boati: c'è Atalanta-Paris Saint Germain, quarto di finale in gara secca, la notte più lunga di Champions, quella che potrebbe portare alla semifinale. E quindi a due partite dalla coppa dalle grandi orecchie. Dopo avere dedicato un lazzo alle recenti imprudenze verbali di Andrea Agnelli («Saluti da Lisbona, avete abbassato il ranking»), gli atalantini di Gian Piero Gasperini tornano seri, concentrati, leggeri nella loro ferocia e nella precisione di schemi imparati a memoria. Anche nell'ultimo allenamento il rito si ripete: è sufficiente che Hans Hateboer arrivi con due secondi di ritardo alla sovrapposizione con Mario Pasalic che il Gasp fischia, interrompe la seduta e pretende più perfezione. È la sindrome dell'orologiaio, il meccanismo non può interrompersi, i denti devono incastrarsi e al massimo tritare gli avversari, non la pazienza del tecnico. Bergamo è idealmente al completo sugli spalti dello stadio da Luz dove i nerazzurri sfidano la storia, unica squadra italiana ancora in corsa contro la multinazionale miliardaria dello sceicco Nasser Al-Khelaifi. Per una volta i tifosi atalantini non potranno sedersi in poltrona dicendo «andiamo all'Atalanta», definizione che più di ogni altra fissa l'amore per la squadra. Per il Locatelli dell'Isola, per il Bergamelli della Val Seriana non è importante che giochi contro la Juventus o contro il Cosenza. Si va a vedere l'Atalanta. Ecco, questa volta non è possibile, di là c'è la Tour Eiffel. Alto artigianato contro potenza industriale: il Psg nell'ultimo decennio ha speso 1,3 miliardi per non andare mai oltre i quarti di finale di Champions. Ha ingaggiato Neymar (222 milioni), Kylian Mbappè (135) e via collezionando per cucinare figure barbine quando il gioco si fa duro. Il Psg non ha mai battuto squadre italiane: fin qui quattro pareggi e due sconfitte. Se i parigini vedranno partire Mbappé dalla panchina (reduce da infortunio) e dovranno fare a meno del metronomo Marco Verratti, i bergamaschi hanno rinunciato da tempo a recuperare Josip Ilicic, il genio sloveno della lampada, travolto da un problema famigliare che lo ha portato lontano dai campi di calcio. «Gli telefono prima e dopo la partita, voglio fare in modo che si senta fra noi», dice Percassi che conosce il valore culturale del gruppo. «In sua assenza ci trascinerà Papu Gomez. Comunque vada sono stranito, orgoglioso e felice. Una stagione indimenticabile. Merito della solidità del club, ma soprattutto merito di un gruppo così speciale, con un allenatore straordinario, capace di inventare calcio dalla panchina. Una cosa è certa, Gasp resterà ancora con noi». Il presidente che fu calciatore (terzino, poca mobilità e gran ferro da stiro al posto del piede destro) aspetta un nuovo miracolo e ha già deciso dove andare a chiudere la stagione. Come ha detto alla Gazzetta dello Sport: «A Medjugorje, per ringraziare la Madonna della stagione straordinaria e pregarla perché la tragedia del virus a Bergamo possa essere piano piano messa dietro le spalle». Anche per questo, per restituire un sorriso alla laboriosa gente bergamasca, l'Atalanta stasera cerca l'impresa. Un'altra, la più eclatante. Accompagnata come sempre da un unico grido di guerra imparato anche da argentini, croati e colombiani: «Adess adoss».
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 12 settembre con Flaminia Camilletti