
Luigi Lardini, stilista e fondatore dell'omonimo marchio di moda: «Cerco nelle foto d'epoca dettagli da riproporre, come i fiori di stoffa sui nostri occhielli. Dall'export il 70% del fatturato: in Giappone sono una vera star».Già dal primo sguardo si capisce che Luigi Lardini si occupa di moda. Non è solo l'abito a fare il monaco, anche se tutto è perfetto. È un'insieme che parte dal dettaglio (la manica della giacca risvoltata, il polsino della camicia che sbuca con evidenza, l'immancabile gilet) e arriva all'atteggiamento, in un binomio tra il signorotto di campagna e il lord inglese. La sua storia inizia a Filottrano, in provincia di Ancona. È negli anni Settanta che Lardini, diciottenne, crea le prime collezioni. «A quell'età si fanno cose avventate», racconta. «Sono partito alla grande producendo capi sia da uomo sia da donna; ci si occupava di tutto, dalla collezione al commerciale. Dopo sei mesi arrivò mio fratello Andrea e dopo circa un anno mia sorella Lorena. Fu un mezzo bagno di sangue e dopo un anno cambiammo strada. Il momento dell'incoscienza era finito e iniziammo a produrre per conto terzi». Non male per un marchio di abbigliamento oggi tra più importanti sia a livello nazionale sia internazionale. Lei non ha ereditato l'attività da suo padre.«Assolutamente no. Io e i miei fratelli siamo la prima generazione. Mio padre ebbe fiducia in noi. Ci aiutò con un fido di 100 milioni di lire. Lui aveva un'impresa di autotrasporti locali per l'edilizia. Siamo figli di un camionista. A differenza di Lorena e Andrea che studiavano, io dopo due anni di superiori ho smesso. Mi è sempre piaciuto il mondo dell'abbigliamento e a Filottrano c'è sempre stata una grande tradizione, una cultura della confezione». Così prese questa strada. «Siamo partiti facendo confezioni per donna per altri marchi. Nel 1993 siamo ritornati a disegnare con il nome Kashmire house e abbiamo iniziato a vendere abbastanza bene, fino alla svolta nel 1998, quando abbiano reinserito il nostro nome, Lardini. Producendo all'inizio solo capi da uomo». Quando è avvenuto il grande salto? «Il marchio ha iniziato a essere conosciuto all'estero intorno al 2007. La svolta vera c'è stata nel 2008, quando abbiamo inserito il nostro fiorellino all'occhiello facendo diventare riconoscibili i nostri capi. In tanti lo amano, in tanti ci invidiano, in tanti ci odiano. All'inizio pensavo a un girasole ma poi abbiamo deciso per i quattro petali, più facili da realizzare. Ormai ci chiamano “quelli del fiore". Abbiamo vestito tantissimi personaggi televisivi e il fiore era la prima cosa che si notava. Ora ci stanno scopiazzando tutti». Da dove è arrivata l'idea? «Nella metà degli anni Settanta c'era la moda di mettere cascate di spille sul revers sinistro delle giacche. Sono andato contro tutti e invece il fiore si è rivelato una fortuna. Ma non si inventa niente, bisogna tornare indietro nel tempo e recuperare ciò che ti piaceva, attualizzandolo». Cos'è oggi l'eleganza? «Noi italiani ci stiamo dimenticando la vera eleganza. Gli anni più belli dell'abbigliamento maschile sono stati i Cinquanta e i Sessanta: spulcio spesso immagini d'epoca per trovare elementi da usare in modo innovativo. A volte basta un particolare, un tessuto. Ma guardo molto anche i capi per lei da cui colgo dettagli, perché la moda donna è sempre avanti di due o tre stagioni». Che suggerimenti darebbe in fatto di stile? «Un abito blu con una certa cravatta è elegante, con una anonima si svilisce. È importante anche come si fa il nodo, che deve essere molto stretto e tirato: le due parti si devono vedere in modo distinto. Meglio una cravatta corta che una lunga. Ad esempio, sono convinto che Donald Trump se le faccia fare su misura, ma sono orribilmente lunghe. La giacca è ancora aderente ma non più attillata come nelle scorse stagioni. Anche i pantaloni tendono ad allargarsi sia sulle cosce sia sulla vita, anche se rimangono stretti sul fondo. Non si possono più vedere uomini con pantaloni che sembrano calzamaglie».Lei ha inventato il cardigan di grossa maglia da portare sopra le giacche. «È stato rivoluzionario, perché permetteva di osare un'eleganza diversa dal cappotto e dal giaccone».Consigli per l'estate? «Stare attenti a non abbinare mai colori che ricordano le divise di una squadra di calcio o una bandiera. Vedo uomini che mettono pantaloni rossi, camicia bianca e giacca blu: la bandiera francese. Oppure che abbinano il giallo con l'azzurro: la squadra del Verona. La camicia bianca è indispensabile, anche se ultimamente è in crisi e ci stiamo abituando a portare la doppia T-shirt». Da tanti anni voi partecipate a Pitti uomo. È una manifestazione indispensabile per un'azienda? «Siamo al Pitti da quasi 20 anni ed è sempre stato un momento fondamentale, perché è l'unica fiera di settore nel mondo. Noi ci siamo con i nostri due marchi, Lardini e Pasini. Uno sdoppiamento necessario per offrire prodotti diversi. Uno più classico e uno più dandy. Abbiamo diversificato con un altro stilista per dare più scelta».Quanti negozi avete? «Tre in Corea del Sud, uno a Tokyo e a Milano, altri due in Cina, tre punti vendita in Spagna. Ci stiamo guardando attorno per aprire a Monaco di Baviera e a New York. In Giappone siamo i numeri uno. Per me è imbarazzante: quando vado a Tokyo mi riconoscono per la strada e mi chiedono di fare un selfie». Quanti abiti producete ? «Nei 22.000 metri quadrati della nostra azienda, da poco ristrutturata, si sfornano 400.000 giacche all'anno tra la produzione per Lardini e quella per le grosse griffe. In uno scenario internazionale segnato dalla crisi abbiamo tenuto le posizioni e fatto crescere il giro d'affari. Esportiamo quasi il 70% della produzione. Tra azienda e indotto siamo in 1.400 persone, l'80% donne perché sul cucito sono imbattibili, è una tradizione che si tramanda da madre in figlia. E continuiamo a creare nuovi posti di lavoro. Quest'anno incrementeremo il fatturato di un 30%».
Zohran Mamdani (Ansa)
Nella religione musulmana, la «taqiyya» è una menzogna rivolta agli infedeli per conquistare il potere. Il neosindaco di New York ne ha fatto buon uso, associandosi al mondo Lgbt che, pur incompatibile col suo credo, mina dall’interno la società occidentale.
Le «promesse da marinaio» sono impegni che non vengono mantenuti. Il detto nasce dalle numerose promesse fatte da marinai ad altrettanto numerose donne: «Sì, certo, sei l’unica donna della mia vita; Sì, certo, ti sposo», salvo poi salire su una nave e sparire all’orizzonte. Ma anche promesse di infiniti Rosari, voti di castità, almeno di non bestemmiare, perlomeno non troppo, fatte durante uragani, tempeste e fortunali in cambio della salvezza, per essere subito dimenticate appena il mare si cheta. Anche le promesse elettorali fanno parte di questa categoria, per esempio le promesse con cui si diventa sindaco.
Ecco #DimmiLaVerità del 10 novembre 2025. Il deputato di Sud chiama Nord Francesco Gallo ci parla del progetto del Ponte sullo Stretto e di elezioni regionali.
Donald Trump (Ansa)
La Corte Suprema degli Stati Uniti si appresta a pronunciarsi sulla legittimità di una parte dei dazi, che sono stati imposti da Donald Trump: si tratterà di una decisione dalla portata storica.
Al centro del contenzioso sono finite le tariffe che il presidente americano ha comminato ai sensi dell’International Emergency Economic Powers Act (Ieepa). In tal senso, la questione riguarda i dazi imposti per il traffico di fentanyl e quelli che l’inquilino della Casa Bianca ha battezzato ad aprile come “reciproci”. È infatti contro queste tariffe che hanno fatto ricorso alcune aziende e una dozzina di Stati. E, finora, i tribunali di grado inferiore hanno dato torto alla Casa Bianca. I vari casi sono quindi stati accorpati dalla Corte Suprema che, a settembre, ha deciso di valutarli. E così, mercoledì scorso, i togati hanno ospitato il dibattimento sulla questione tra gli avvocati delle parti. Adesso, si attende la decisione finale, che non è tuttavia chiaro quando sarà emessa: solitamente, la Corte Suprema impiega dai tre ai sei mesi dal dibattimento per pronunciarsi. Non è tuttavia escluso che, vista la delicatezza e l’urgenza del dossier in esame, possa stavolta accelerare i tempi.






