2022-03-12
L’ospedale al buio e con un solo medico. L’inferno di chi aspetta i russi a Irpin
In città restano solo anziani, disabili e malati. Alcuni sono raccolti nella struttura sanitaria senza luce. C’è chi aiuta i profughi a scappare facendosi scudo delle immagini sacre: è l’ultima protezione che resta.niccolò celestida KievGuadando (come facciamo ormai da giorni) il fiume sotto il ponte di Irpin, ieri, oltre ai profughi abbiamo trovato tanti militari con armi anticarro. Si dirigono verso il fronte dove eravamo l’altro ieri e dove siamo tornati per capire lo stato del conflitto in questa zona.Venendo dal centro di Kiev abbiamo notato più movimenti, più check point, più controlli ma ormai le cose qui sono in costante evoluzione e non ce ne preoccupiamo più di tanto.Prima di entrare a Irpin incrociamo di nuovo Ken, il padre canadese che sosta qui ormai da 9 giorni in attesa di riabbracciare il figlio Deniz, una decina d’anni, che si trova nella vicina Bucha, cittadina occupata dai russi. Ken vorrebbe seguirci, ma i civili non possono superare il ponte e ci chiede di aiutarlo a trovare il suo ragazzo. Ci dà nome e indirizzo. Ci allontaniamo e intanto ci dirigiamo verso il vicino ospedale di Irpin che da giorni è ormai senza, acqua, gas e elettricità. Da qui ormai passano attraverso la strada principale solo i profughi provenienti da Bucha, le persone rimaste in città non evacueranno, sono per lo più anziani, disabili e malati, alcuni sono raccolti nell’ospedale e quando entriamo da un’entrata sotterranea capiamo che la situazione è veramente disperata. L’ospedale è al buio, i pochi rimasti stanno raccolti in un sotterraneo. Un paio di lampadine illuminano uno stanzone lungo e stretto, al centro c’è un tavolo con le provviste. In fondo qualche materasso adagiato in terra. Per girare nei sotterranei si usano le torce dei cellulari e sembra di viaggiare in un girone infernale. Il resto dei reparti è chiuso. Qui resistono i più disagiati che non vogliono abbandonare il paesino. Le medicine arrivano da Kiev nello zaino di un prete che fa la spola dal ponte in bicicletta.Cerchiamo l’unico dottore rimasto, ma non si sa dove sia.Da fuori arrivano gli spostamenti d’aria dovuti ai colpi di artiglieria che sono vicini, oggi molto più vicini e molto più forti. Udiamo un boom grave, attutito dalla porta tagliafuoco che ne modifica il suono. Da quella porta usciamo e prima di entrare nella macchina di un volontario vediamo un signore con una scatola in mano, un giubbotto da cui spuntano i bordi del camice bianco. È lui l’ultimo medico che dice di non poter abbandonare quelle persone. Così corre su e giù dai reparti per svuotare gli armadietti dalle medicine e portarle al sicuro nel sotterraneo. La barba lunga di qualche giorno, un cappello di lana in testa e i guanti neri, sembra uno di loro, una di quelle persone malridotte che vivono con lui là sotto. Non accenna a un sorriso, ha gli occhi persi, ha solo il tempo di dirci che non sa se quando arriveranno i russi gli permetteranno di continuare a fare quel sta facendo ora, finché può.Anche noi dobbiamo continuare e lo lasciamo per entrare poco dopo in una chiesa, moderna, nuova, piena di locali, di spazi sociali per i giovani e gli anziani. Non sembra quasi una chiesa, ma siamo entrati dal retro.Qui in un corridoio ci sono caschetti che sembrano da hockey o da baseball, con la grata davanti al viso. Forse la squadra era il fiore all’occhiello dalla parrocchia, in questa cittadina che ha anche un parco molto bello. Qui incontriamo un volontario che coordina i soccorsi, anche qui quasi tutti sono anziani e persone in difficoltà e nessuno lascerà il Paese. Ci dice che prima lavorava nelle risorse umane, e che ora svolge il suo lavoro organizzativo qui così nell’incertezza. Nella chiesa ci sono circa 35-40 persone che non possono muoversi, la maggior parte anziani allettati. Molti che vengono per il cibo, per ricaricare i telefoni e ci sono altri che vanno fuori a cercare concittadini nei palazzi per convincerli a evacuare.Torniamo sul fronte dove ci dicono che ci sono stati dei combattimenti la notte precedente, ci sono ancora persone che arrivano a gruppi con le bandiere bianche e immagini raffiguranti la Madonna. Camminano sempre davanti a quei morti che ogni giorno si moltiplicano e rimangono abbandonati e irrecuperabili sulla strada tra i due schieramenti.Tra i profughi che provengono Bucha iniziamo a cercare Deniz. Mentre lo cerchiamo Ken sul cellulare ci manda un messaggio: il suo figliolo è salvo, è appena arrivato a Kiev.Ma purtroppo questa è delle poche buone notizie che abbiamo registrato in queste ore. Ieri un altro colpo di mortaio, un’altra vittima nel parco. «I cecchini invece prendono di mira i civili sul viale» dice un militare fissando con il binocolo tra le macerie. Nel frattempo un gruppo di profughi terrorizzati attraversa proprio quel viale preso di mira. Con le mani in alto sventolano stracci bianchi e questa volta a sensibilizzare il cecchino di turno c’è una donna in cima al gruppo che stringe un’icona sacra quasi come a cercare protezione.La cinquantenne arriva verso di noi e attraversa il fronte con il gruppo che la segue. È salva e ha accanto un militare, parla in ucraino, recita una preghiera e improvvisamente torna indietro sul viale tra lo stupore di tutti. Probabilmente va a recuperare altre anime da salvare.Dal fronte Nord di Irpin ci incamminiamo ancora una volta verso Kiev, sulla solita strada dove militari e volontari consumano il catrame a forza di andare avanti e indietro.Dal ponte, proseguiamo poi velocemente a piedi sull’altro lato e ancora al punto di raccolta da dove ripartiamo per Brovary. Dopo poco ci rendiamo conto che sta succedendo qualcosa di strano in città oggi. C’è un gran traffico sulla E345 che porta fuori città, verso il teatro dei combattimenti, verso il fronte Est. È situato nei pressi di una cittadina che si chiama Brovary, è là che c’erano i russi ed è la che stiamo andando a cercarli. La città è in subbuglio. Ieri c’erano tantissimi i mezzi militari, movimenti di merci e munizioni, controlli documenti e una frenetica corsa a aumentare in altezza ed in spessore tutte le difese della città, in ogni strada in ogni incrocio ci rendiamo conto che qualcosa sta cambiando.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)