2021-02-14
L’onda di sangue che si abbatte sulle famiglie
Da Bolzano a Macerata passando per Faenza, la cronaca nera di questi giorni è dominata da massacri avvenuti all'interno delle mura domestiche. Sono i frutti estremi e marci di una società in cui i legami, anche i più stretti, non valgono più nullaOsservando i fatti viene da pensare che, nel suo impeto tragico, avesse ragione Guido Ceronetti quando scriveva che la casa «offre all'angelo della morte indirizzi sicuri. Attira il crimine, la rissa, il lutto. Gente impazzisce per brama di bagni e cucine». In effetti, pare che siano in tanti a impazzire. Soprattutto, sono in tanti a farsi trascinare dalla «brama», pronti a uccidere per essa, disposti a sacrificarle quelli che un tempo erano «i più cari affetti». Sosteneva lo storico Christopher Lasch che la famiglia fosse «rifugio in un mondo senza cuore». Ma il mondo metallico e gelido lì fuori, ormai, travalica molto di frequente nel caldo del focolare. Basta leggere i titoli di cronaca delle ultime settimane. A Bolzano c'è Benno Neumair, 30 anni, aspirante influencer sui social network, che imbottiva dei suoi video di fitness. Diplomato in scienze motorie, non era riuscito a laurearsi in matematica, ma la insegnava in una scuola media di lingua tedesca. Si trova in carcere, accusato di aver ammazzato entrambi i genitori. Prima avrebbe ucciso il padre, quindi la madre. Avrebbe caricato i corpi su una Volvo per poi gettarli giù dal ponte di Vadena, dentro l'Adige. Il fiume, per adesso, ha restituito soltanto il cadavere della donna, Laura Perselli. A chi cerca un movente balenano davanti agli occhi varie ipotesi, tra cui il fatto che i genitori pretendessero da Benno la restituzione dei soldi spesi per pagargli le tasse universitarie. Volevano che contribuisse economicamente alla conduzione della famiglia, e quella richiesta avrebbe liberato lo slancio omicida. Comunque sia, tra i Neumair di tensioni ce n'erano parecchie. Si dice che Benno avesse problemi psichici, che sua sorella Madè (professione medico) fosse terrorizzata al punto di non voler rimanere da sola con lui nella stessa casa. Si dice che genitori, figlia e figlio avessero litigato furiosamente perché Benno rifiutava di farsi curare adeguatamente. Ma la malattia mentale non basta a spiegare, sarebbe una via di uscita troppo comoda. Qui c'è anche dell'altro, qualcosa di apparentemente banale ma realmente drammatico. Qualcosa che riguarda, appunto, le dinamiche famigliari. Le stesse che, in modi diversi, sono al centro di altri due casi di sangue che tengono banco sui media. Il primo è quello di Faenza, dove è stata ammazzata Ilenia Fabbri, 46 anni. Il killer ha agito una mattina presto, intorno alle 6. È stato rapidissimo: è entrato nella casa in cui la donna si trovava sostanzialmente sola (c'era un'amica della figlia, ma non era certo in grado di difenderla), l'ha aggredita e uccisa nel giro di una decina di minuti. Ebbene, in cima ai sospettati ora c'è l'ex marito di Ilenia, il padre di sua figlia. Si sarebbe trattato di un «delitto su commissione», preceduto da annose liti, cause, dispute economiche. Infine, la terza storia, quella di «nonna Rosina», come l'hanno ribattezzata. È forse la più mostruosa di tutte. Rosina Carsetti viveva a Montecassiano, in provincia di Macerata, con il marito, la figlia Arianna e il nipote Enea. Aveva 78 anni, è stata uccisa il 24 dicembre, in casa. Figlia e nipote sono stati arrestati. Secondo gli investigatori, sarebbero loro i responsabili del massacro. Arianna, 48 anni, la mente perversa. Enea, 20 anni, l'esecutore materiale. Lui, il nipote adorato e viziato, grosso e gonfio, avrebbe strozzato la nonna, le sarebbe salito sopra schiacciandola e sbriciolandole 14 costole. Quando ormai Rosina non aveva più fiato nei polmoni, i famigliari (la figlia e il nipote, ma pure il marito) hanno simulato una rapina, una messinscena grottesca. A casa di Rosina, si scopre ora, c'erano litigi continui. La nonna si era persino rivolta a un centro anti violenza nel tentativo di porre fine alle sopraffazioni domestiche. Com'era? Ah, sì: «Gente impazzisce per brama di bagni e cucine». Eccola, la brama che irrompe fra le pareti un tempo amiche. Si fa un gran parlare, da qualche anno, di femminicidi. Si indaga in ogni anfratto, fino all'eccesso, la violenza maschile nei confronti delle donne, che viene presentata come un dato naturale, animalesco e in fondo insopprimibile. Ma forse si dovrebbe, per lo meno, cercare anche altrove. Si potrebbe cominciare a osservare più in profondità le dinamiche della violenza che esplode all'interno delle mura domestiche, per chiedersi se - dopo tutto - la nostra epoca di legami deboli non c'entri qualcosa con la pioggia di sangue che ci bagna i vestiti. Sull'odio in famiglia esiste sterminata letteratura: figli che uccidono padri; mariti che ammazzano mogli; figlie che aggrediscono le madri; donne che pugnalano i compagni. Ne sono piene le storie antiche, persino i miti. Ma oggi s'avvertono - è poco più d'una sensazione, ma persiste - ulteriori e disturbanti elementi. Sempre Christopher Lasch descrisse parecchi anni fa il narcisismo endemico della civiltà occidentale. Vari epigoni hanno in seguito raccontato lo sfilacciamento dei rapporti umani, la liquefazione dei legami sociali. E se c'è un'istituzione fragile, ai nostri giorni, è proprio la famiglia (il Covid, poi, non ha certo migliorato le cose) Si può dire che l'intera società le sia avversa. Oggi, prima di tutto, la famiglia viene presentata come un ostacolo alla realizzazione personale. Dovrebbe essere il luogo della gratuità, dunque inevitabilmente confligge con un sistema che tutto commercializza, che basa ogni rapporto sulla legge del profitto e della perdita. Da un certo punto di vista, è il trionfo postumo di Friedrich Engels, che nella famiglia vedeva il luogo di conflitto per eccellenza, il microcosmico campo di battaglia della lotta di classe. Se l'individuo si deve «liberare», allora la famiglia diventa un limite, un peso. Siamo nell'ambito della supposizione, ancora. Ma pensateci bene. Benno, che ama apparire sul Web, che non vuole essere obbligato a «fare qualcosa della sua vita», non vuole sentirsi ripetere «Questa casa non è un albergo!», decide un giorno di rimuovere l'ostacolo: i genitori. Enea il nipote immerso nel suo telefonino, e Arianna la mamma litigiosa vogliono comandare in casa, come bambini dittatori. Così fanno fuori chi si frappone fra loro e il tranquillo spadroneggiare: la nonna anziana. Nella furia, la spezzano. A Macerata e Bolzano l'odio è stato a lungo celato, magma che ribolliva dietro porte chiuse. A Faenza, invece, la famiglia era già deflagrata da tempo. Restavano macerie fatte di litigi per soldi, rancori pungenti. Cose che accadono quando non si è più in grado di tenere saldi i legami: finché morte non ci separi, in alcune circostanze, diventa un macabro invito al delitto. La «brama», il desiderio selvaggio, trionfa. Da che mondo è mondo ci si scanna per follia, denaro, ambizione, gelosia. Ma è come se, da qualche tempo, fosse venuto a mancare ogni antidoto. Il sangue che lega è più acquoso del sangue versato, più debole, meno conveniente. La famiglia, tanto svalutata, non è più caldo rifugio in un universo spietato: è una tana in cui le belve, educate alla guerra nel mondo esterno, sguainano senza pensarci troppo i denti affilati.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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