2022-04-03
L’Occidente verso lo scontro finale sognando l’annientamento di Putin
Il filosofo francese Bernard Henri Lévy incita gli ucraini a combattere per «la ritirata dello zar». Concorda l’Economist, che chiede ai resistenti di «vincere» con un’intervista a Volodymyr Zelensky dai toni battaglieri e ostili al negoziato.Ieri una lettrice della Verità, Annamaria Tanca, ha inviato un’accorata email all’indirizzo della redazione rivolgendosi in particolare al sottoscritto. Annamaria, giustamente sconcertata da quanto sta avvenendo nel cuore dell’Europa, scrive con il cuore in mano: «L’Ucraina ha tutto il diritto di difendersi con l’aiuto dell’Europa e degli Stati Uniti. Gli Usa non saranno perfetti ma sono l’unico baluardo per difendere la nostra democrazia». La nostra lettrice ha ragione: chi viene aggredito ha tutto il diritto di combattere per difendersi, e chi è sceso in strada con le armi - a Mariupol e altrove - ha dimostrato di avere un coraggio da leone, e si merita tutta l’ammirazione di questo mondo, come la merita chiunque si batta per la propria patria.Forse Annamaria vorrebbe leggere sul nostro giornale articoli come quello che ha pubblicato ieri, su Repubblica, il filosofo francese Bernard Henri Lévy, intitolato «Perché l’Ucraina deve vincere». In effetti, i toni del pensatore dalla chioma ondeggiante entusiasmano. «Penso che le donne e gli uomini liberi di tutto il mondo», tuona il nostro, «non abbiano motivo di fare alcuna concessione alla Russia, anzi, che dovrebbero ispirarsi a un unico principio, a una sola idea: la ritirata di Putin, il ritorno delle sue truppe dentro i confini precedenti al funesto 24 febbraio e, di conseguenza, la vittoria dell’Ucraina». Lévy sostiene che Putin rappresenti una «minaccia esistenziale non solo per Odessa e Kiev, ma per il mondo intero». Ergo, l’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero continuare ad armare gli ucraini affinché possano non solo resistere ma, appunto, vincere. Il nostro ben stipendiato filosofo non è nuovo ad appelli di questo tipo. A dirla tutta, egli si esalta quando ode i caccia sbriciolare il muro del suono, s’infiamma sentendo il calpestio degli anfibi militari sul terreno. Non a caso fu uno dei primi, se non il primo, a invocare l’intervento armato contro Gheddafi in Libia. Anche in quel caso chiamò in causa la libertà, la democrazia, e i diritti umani. Forse i nostri lettori, compresa Annamaria, ricordano come sia andata a finire. Di libertà in Libia non ce n’è moltissima, oggi. Non c’è sicurezza, e non c’è nemmeno tutta questa democrazia. In compenso, dopo un intervento militare e la consueta marea di morti, la nazione è a brandelli, mercenari e jihadisti e guerriglieri assortiti ancora combattono e la popolazione non se la passa un granché bene. Con il caro Bernard Henri finisce più o meno sempre in questa maniera: quando invoca un intervento «umanitario», ovviamente armato, chi lo subisce non ne esce libero e salvo, ma in preda al caos. Che si tratti della Jugoslavia, della Siria, o di qualche altro Stato mediorientale, poco cambia.Dunque certo, i popoli hanno diritto (e talvolta pure il dovere) di combattere per la propria libertà. Ma quando a invitarli a far la guerra fino all’ultimo uomo sono i reggicalze del potere come Lévy bisogna fare molta, moltissima attenzione. Costoro non parlano mai a caso: quando prendono la parola, per lo più, lo fanno per conto terzi, sono i bidelli che si prendono la briga di ribadire a noi poveri studenti gli ordini del preside. Nello specifico, il preside è Joe Biden, il quale ogni volta che apre bocca - negli ultimi tempi - chiama alla guerra per il nuovo ordine mondiale liberaldemocratico e invoca il cambio di regime in Russia. Ed eccoci al punto. Non è un caso che Bernard Henri Lévy sgrani il suo rosario bellicoso proprio a ruota di Biden. Tutte queste uscite, infatti, servono a creare un clima particolare, sono utili a indicare quale sia la linea che bisogna tenere. Giusto ieri, l’Economist se n’è uscito con una copertina dedicata a Volodymyr Zelensky e un titolo forte: «Perché l’Ucraina deve vincere» (ma pensa: è proprio lo stesso concetto che riverberava nell’editoriale di Lévy!). Il settimanale britannico ha pubblicato un’intervista al presidente ucraino da cui si evinceva un non indifferente cambio di tono.Zelensky, non troppo tempo fa, aveva iniziato a mostrarsi disposto ad accettare almeno alcune delle condizioni poste dai russi per il cessate il fuoco. Parlava di neutralità, di non adesione alla Nato… Qualcuno aveva iniziato a vedere uno spiraglio di luce pacifica. Ma ecco che, sull’Economist, è tornato il leader guerrigliero che se la prende con la Germania e altri Stati definiti «uffici della Federazione russa in Europa». Dalle pagine esce uno Zelensky ancora pronto a lottare «fino all’ultimo ucraino», uno che invoca aiuti immediati anche dagli Usa e indica la via verso il trionfo: «Crediamo nella vittoria. È impossibile credere in altro. Alla fine vinceremo perché questa è casa nostra, la nostra terra, la nostra indipendenza. È solo questione di tempo». Sono parole splendide, che ogni patriota dovrebbe pronunciare. E non ci stupirebbe se piacessero alla nostra lettrice Annamaria. Ma bisogna chiedersi: perché arrivano adesso, spazzando via ogni traccia di cedimento alla trattativa? E perché arrivano in concomitanza con alcune fanfare sempre intonate al solito coretto dem (nel senso tutto statunitense del termine)?Forse c’entra il fatto che, come ha suggerito pure Dario Fabbri, «a Washington si è diffusa l’idea di profittare del momento». Approfittare come? Magari impedendo «al governo ucraino di accogliere con eccessiva prontezza le richieste russe per un cessate il fuoco». Magari l’obiettivo di detronizzare Putin non è raggiungibile, ma forse qualcuno negli Stati Uniti pensa che si possa arrivare allo scenario evocato da Hillary Clinton - non esattamente una passante - secondo cui l’Ucraina potrebbe diventare «il nuovo Afghanistan».Ora, se si trattasse di lotta per la libertà e la democrazia (cosa che giustamente chiede la nostra lettrice), si dovrebbe ragionare e agire diversamente, magari andando noi a combattere invece di limitarci a inviare armamenti, lasciando che altri si immolino. Il fatto, però, è che qui la democrazia e la libertà c’entrano molto meno degli interessi delle singole potenze. Germania e Francia probabilmente gradirebbero un rapido esaurirsi del conflitto, e hanno lavorato per ottenerlo. Ma agli Usa conviene impostare un quadro alternativo e più drammatico, onde indebolire la Russia e punzecchiare il grande nemico cinese. Ecco perché Biden le spara grosse, subito riecheggiato dai soliti megafoni. Ecco perché, con tutta probabilità, Zelensky calibra le dichiarazioni in maniera differente. Altre armi e tank lo raggiungeranno e andranno ad alimentare la sua lotta. Chissà, magari per qualche miracolosa congiuntura lo porteranno persino a vincere, ma è più probabile che blindati, fucili, munizioni e compagnia deflagrante contribuiscano a completare l’opera tratteggiata dalla Clinton: una terra desolata nel centro dell’Europa, un gioco di potere ai danni del Cremlino e di Pechino realizzato sulla pelle di migliaia di ucraini e (in misura molto minore) a danno di tanti europei che pagheranno le conseguenze economiche di tutto ciò.Chiaro: si può fare il deserto e chiamarlo democrazia. Ma sempre deserto resta.