2025-02-11
L’ufficio di Lo Voi fa archiviare il falso da 700 milioni di Zinga
Nicola Zingaretti (Imagoeconomica)
La Procura scopre nei conti della sanità laziale 700 milioni di «note di credito» segnate tra gli attivi e mai ricevute. Ma assolve i manager, perché seguirono le indicazioni del governatore. Che non è stato indagato. La Regione Lazio negli anni in cui governava Nicola Zingaretti, ma anche precedentemente, ha costruito bilanci «ideologicamente falsi» a causa di almeno 700 milioni di euro di «note di credito da ricevere» (ma mai ricevute, quindi inesistenti) messe all’attivo dei conti delle Asl e di tutti gli enti sanitari della Regione Lazio, anche se poi quei debiti non sono mai stati cancellati. Per questo i bilanci hanno potuto chiudere in pareggio e questo ha permesso alla Sanità laziale di uscire dal commissariamento. È la sintesi di quanto scritto dai pm romani Paolo Ielo e Carlo Villani nella loro richiesta di archiviazione per otto direttori generali della sanità laziale, finiti sotto inchiesta per falso in atto pubblico. L’istanza è stata accolta a dicembre dal gip Claudio Carini.Ma perché i manager si sono salvati nonostante i pasticci sopra citati? Perché hanno rispettato alla lettera i decreti sul tema firmati dal commissario ad acta Zingaretti.La Procura per arrivare alle proprie conclusioni si è avvalsa della consulenza di Fulvio Longavita, già presidente di sezione della Corte dei conti, di Tommaso Infante, ex funzionario presso la magistratura contabile, e del docente ed economista Angelo Miglietta.Nella richiesta si legge che «a seguito di tutte le indagini compiute si può senza dubbio affermare che tutti i bilanci delle Asl e degli enti sanitari della Regione Lazio sono ideologicamente falsi in relazione al fenomeno delle “note di credito da ricevere” che sono state considerate poste attive del bilancio pur non essendo mai state emesse dai privati accreditati ai quali le Asl le richiedevano. Esse hanno, di fatto, svolto la funzione di contenere illegittimamente e in maniera non veritiera il disavanzo, così da consentire agli organi contabili dell’Ente sanitario di registrare saldi di bilancio migliori rispetto a quelli reali».Il documento riserva altre stilettate alla gestione della Sanità regionale: «L’apposizione nelle poste attive del bilancio ha abbassato l’ammontare complessivo dei debiti in modo del tutto arbitrario e ingiustificato, svolgendo anche l’ulteriore funzione (negativa) di limitare di fatto illegittimamente e in maniera non veritiera l’entità dello sforamento del budget dei costi delle prestazioni sanitarie dei privati accreditati».Ma ecco il motivo per cui gli indagati si sono salvati dal processo: «Hanno adottato i bilanci in osservanza di precise linee guida della Regione, secondo schemi obbligatori, inviati dalla stessa, e nel rispetto di quanto previsto da specifici decreti del Commissario ad acta (Zingaretti, ndr), decreti che hanno utilizzato e “strumentalizzato” il sistema delle note di credito» e «la cui applicazione da parte degli indagati ha portato alla manipolazione del conto economico».Il sistema delle note fasulle non avrebbe svolto la funzione fisiologica di «scrittura correttiva di bilancio», ma sarebbe stato usato «non per correggere un errore, ma per recuperare un importo non riconosciuto sulla prima e diversa fattura utile». Un meccanismo che è andato avanti per anni «fino a raggiungere complessivamente l’importo, al 27 novembre 2020, di circa un miliardo di euro, poi diminuito al 31 dicembre 2023 a 690 milioni di euro». La nuova maggioranza di centrodestra, dunque, nonostante gli sforzi, avrebbe rintracciato solo una piccola parte di note effettivamente emesse e ricevute. La conseguenza, come detto, è stata quella «di alterare il bilancio sanitario dell’intera Regione e di “compensare” un passivo di pari importo», permettendo, nel luglio del 2020, fanno notare i magistrati, alla Regione di uscire dal commissariamento e ha potuto offrire prestazioni che in altre zone d’Italia non si potevano garantire.Gli inquirenti mettono nel mirino in particolare due decreti firmati da Zingaretti, il 521 del 2018 e il 297 del 2019.Norme che hanno consentito «l’alterazione del conto economico» e «la sistematica chiusura a zero» grazie ai «“ritocchi” di entrate a esercizio ormai scaduto». Per la Procura e i suoi consulenti «si tratta di provvedimenti che recano regolamenti incostituzionali, di per sé intrinsecamente nulli». Infatti, per esempio, violano l’articolo 119 della Costituzione, che prescrive l’«equilibrio di bilancio degli enti territoriali». La normativa ha anche «costituito un vulnus al principio (costituzionale) di veridicità, in quanto ha minato alle fondamenta la rappresentazione fedele, veritiera, attendibile e corretta sia del patrimonio netto che del conto economico».In conclusione i decreti commissariali vengono bollati come «gravemente illegittimi, sia perché violano il principio di legalità […] sia perché sono in diretto contrasto con i principi dell’equilibrio e continuità delle scritture». Paradosso vuole che in un’intercettazione, citata nell’istanza di archiviazione, uno degli indagati faccia il confronto con la gestione virtuosa della Liguria del tanto vituperato Giovanni Toti, costretto alle dimissioni da un’inchiesta giudiziaria.A Genova «se il bilancio di una Asl chiudeva in utile, tale utile veniva evidenziato e poi destinato a coprire perdite pregresse o accantonato a fondo di riserva» riassumono i pm. Una funzionaria, al telefono, commenta: «Regione Lazio questo non ce lo ha mai fatto fare e questo è uno dei temi che contesta la Corte dei conti».Alla fine, però, gli inquirenti, in questa vicenda, hanno deciso, a nostro giudizio correttamente, di non mettere in discussione il legislatore e così per l’accusa, alla luce delle normative, i fatti descritti non costituiscono reato.Durante le approfondite investigazioni Zingaretti non è mai finito ufficialmente sotto inchiesta, in ossequio alla riforma Cartabia, particolarmente garantista in materia di iscrizione sul registro degli indagati, come nel caso delle presenze taroccate in aula consigliare (per cui sono finiti sotto indagine quattro suoi ex collaboratori). Quello che era un atto dovuto per Giorgia Meloni, Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e Alfredo Mantovano, non lo è stato per un peso massimo del Partito democratico. Ma questa volta a prendere le decisioni non è stato Lo Voi, ma due suoi colleghi più prudenti e, forse, attenti.
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