
Il comico: «Sto lavorando al seguito di quel film: stavolta un contadino porterà una mucca al Bosco verticale. Cosa amo di Milano? La puntualità. La politica? Molto meglio la cucina: e infatti ho aperto il mio ristorante».Davvero sta lavorando al sequel del Ragazzo di campagna?«In realtà siamo ancora in alto mare. Ma non sarà Il ragazzo di campagna 2 eh».Come si intitolerà?«Una mucca in Paradiso». Qualche anticipazione?«È la storia di un contadino che viene a Milano per curare un prato in cima al Bosco verticale. E poi porta una mucca sul grattacielo, che risulterà incinta e partorirà un vitello. Un modo per ironizzare sul rapporto tra campagna e città».Il contrasto tra queste realtà è ancora forte come ai tempi del Ragazzo di campagna?(Ride) «Insomma, se uno si porta una mucca in cima a un grattacielo c'è qualcosa che non va… Non è mica un comportamento normale».Renato Pozzetto, con l'inconfondibile accento milanese (quello che ha reso celebri certe sue sortite, tipo: «Eh la Madoooonna»), ci racconta del suo nuovo progetto: recuperare l'intuizione del Ragazzo di campagna, la pellicola del 1984 che, con toni parossistici, inscenava il conflitto tra la tradizionalista campagna lombarda e la Milano da bere, proiettandola stavolta sul Bosco verticale. Ovvero, il grattacielo meneghino che somiglia a un giardino pensile.La Milano del Ragazzo di campagna, nel 1984, era già ultramoderna.«Sì, ma il mio intento non era certo di fare della filosofia sulla vita in città. Volevo far divertire la gente e basta».Ma alcune trovate sono rimaste memorabili.«Eh sì. Viaggiando con la fantasia, comparve ad esempio il miniappartamento milanese dove andava a vivere il protagonista».Allora sembrava una parodia, ma oggi nelle metropoli il monolocale «funzionale», dove ottimizzi gli spazi e «taac», tiri fuori la tavola o il letto, è una triste realtà…«Lo è, lo è. Come quando al cabaret raccontavo che volevo aprire un negozio fuori città perché il terreno costava meno, che volevo farlo molto grande e portarci le persone con un servizio navetta, che ci si poteva passare l'intera giornata… E la gente rideva a immaginarsi una cosa del genere. Invece adesso è così».Immaginava il centro commerciale, in pratica.«Già. L'umorismo a volte è capace di prevedere le cose che poi accadranno davvero».Com'è cambiata Milano dagli anni Ottanta a oggi?«Milano sta vivendo un momento di entusiasmo, com'è capitato spesso nella vita di questa città. Direi che oggi la gente si muove di più, s'incontra di più».In che senso?«Be', io mi ricordo che quando andavo a lavorare al cabaret, poi tornavo di sera e in giro non c'era più nessuno. Adesso - io abito a Porta Ticinese - all'una di notte ci sono i semafori che funzionano con le code di automobili».Come descriverebbe la «milanesità» a uno che milanese non è?«La puntualità. L'amore per il lavoro. L'imprenditoria. Il milanese lo si misura su queste cose. È questo che ha fatto la fortuna della città».Ma Milano è solo lavoro?«No, ci sta bene anche chi ama l'arte. È piena di gallerie. Io stamattina sono andato a vedere la mostra di Maurizio Cattelan».E che difetti ha Milano?(Ride) «C'è pur sempre qualche mascalzone...».Nei suoi film lei ha affrontato molti temi attualissimi. Ad esempio, nella Patata bollente, quello dell'omosessualità.«Ma sa, io me ne son sempre fregato, ho vissuto liberamente, ho avuto tanti colleghi, tanti amici omosessuali».In quel film lei, operaio comunista, doveva «nascondere» un omosessuale perseguitato persino dai compagni di partito. Allora la sinistra non era così gay friendly…«Ma lei mi vuol far parlare di politica?».Non le va?(Ride) «No no, a me non me ne frega un cazzo di parlarne…».Perché?«Ma perché se accendi la televisione si parla di questi temi, allora la spegni, la riaccendi e ritrovi ancora questi temi. Quando non ci sono c'è la pubblicità… Non mi faccia parlare di cose di cui le persone parlano ogni secondo».Va bene, torniamo ai suoi film.«Sì, meglio».In Sono fotogenico parla del mito del successo, del culto di sé stessi. Anticipava l'era dei giovani che sognano di diventare influencer sui social?«Be', insomma, il mio lavoro l'ho sognato anch'io da bambino. È comprensibile che un giovane voglia apparire e voglia fare un lavoro affascinante come l'attore, o magari il calciatore».In Infelici e contenti, con Ezio Greggio, ha affrontato il tema della disabilità.«Vabbe', abbiamo fatto un film, non è che ho raccontato la disabilità. È capitata una storia bella e basta, finiva tutto nell'umorismo».Insomma, lei non ha mai nemmeno lontanamente voluto essere «impegnato»?«Ma no. Lei parlava del film sugli omosessuali. Era un film divertente, ho affrontato il tema con molta naturalezza, ma non è che volessi fare il film per difendere i gay».Le dico alcuni nomi di grandi che ha frequentato e lei me li racconta. Cominciamo con Piero Manzoni, l'autore della famosa Merda d'artista.«Mi è venuto in mente proprio stamattina, mentre guardavo Cattelan, perché loro due erano molto vicini. Io ho conosciuto Manzoni che ero ragazzo, però purtroppo è morto presto».Dove lo conobbe?«Io e Cochi andavamo in un'osteria milanese, L'oca d'oro, in una traversa di Corso di Porta Romana. Lì si incontravano gli artisti, soprattutto i pittori. A Cochi piaceva cantare, c'era una chitarra, si beveva qualche bicchiere di vino… E così ci inventammo pure il cabaret».E Paolo Villaggio?«L'abbiamo conosciuto che eravamo già cabarettisti. Villaggio era responsabile di una nuova trasmissione, Quelli della domenica. Venne a Milano e ci fece scritturare per la prima puntata delle 6 previste. Invece il giorno dopo ci chiamarono e ci ingaggiarono anche per le altre puntate che, visto il successo, da 6 divennero più di 20. E noi le facemmo tutte quante».A proposito della sua amata puntualità, qualcuno dice che Villaggio non fosse così puntuale sul set.«Non mi risulta. Sa, chi ha investito dei soldi sul film è lì e quindi non è che ci si può permettere di fare molti sgarri».Non tutti gli attori però sono così ligi al dovere.«Quelli che vogliono essere, diciamo così, un po' più “liberi", o vogliono solo farsi i cazzi loro, magari arrivano un po' in ritardo, vanno via un po' prima, qualcuno fa i capricci… Come in tutti i mestieri».Di Enzo Jannacci cosa mi dice?«Che era un grandissimo artista. Un grandissimo artista. E un grandissimo amico».Al cinema lei ha lavorato al fianco di grandi attori: Carlo Verdone, Massimo Boldi, Christian De Sica, Ezio Greggio, Paolo Villaggio… Con chi si è trovato meglio?«Con tutti. Più si è precisi, più si fa in fretta, più ci si aiuta, più il lavoro viene meglio. Peraltro, non è detto che stando insieme sul set si diventi pure amici eh». Quindi dei suoi colleghi con chi è rimasto più amico?(Ride) «Con nessuno».Ah ah , ma come con nessuno?«Ho avuto altri interessi…».Oggi qual è il comico che le piace di più?«Per ritornare alla mia mattinata, le opere di Cattelan mi hanno molto divertito».Cioè, mi sta dicendo che è Cattelan il miglior comico italiano?(Ride) «Voglio dire che il comico non è solo quello che si presenta davanti allo schermo. Ci sono tanti mestieri che portano ilarità».Se le dico «bene, bravo, 7 più», cosa le viene in mente?«Mi viene in mente una battuta di una delle prime gag televisive che abbiamo fatto con Cochi».Come ci si sente a inventare un'espressione che poi diventa di uso comune? Fa effetto?«Sa, noi abbiamo sempre proposto cose che divertivano innanzitutto noi. Ci veniva abbastanza naturale. Quando è così, le cose diventano più facili, il pubblico si diverte di più e si affeziona alle battute».Come nasce uno sketch comico?«La comicità nasce da te stesso. Ci son delle cose nella vita che uno si porta dentro, anche se nessuno te le ha insegnate. A chi piace pescare, a chi piace andare per musei, a chi piace far ridere».Con Cochi vi sentite spesso?«Come no, ci siamo anche visti recentemente».Non avete mai litigato?«Non abbiamo mai litigato, nonostante qualcuno lo pensi. Abbiamo fatto lavori diversi, lui più teatro, io più cinema, poi ci siamo rincontrati, abbiamo ricominciato a fare teatro insieme… Il nostro mestiere è fatto di questa libertà».C'è un film che se tornasse indietro non rifarebbe?«Sì. Le comiche per esempio».Le comiche? Ma è fantastico… La scena surreale dell'aerotaxi…«Eh lo so, però deve capire che io in quel film mi sono messo al servizio della comicità di Villaggio».Cioè?«Incidenti, botte, scivolate, capitomboli, bagnarsi, sporcarsi… La mia comicità invece si basa di più sul linguaggio, quelle cose non mi attirano molto».Senta, di politica non vuole proprio parlare?«No, per carità».Non mi dice nemmeno per chi simpatizza?«No, non glielo dico. Di politica si parla continuamente e alla fine nessuno dice cose interessanti. Allora preferisco stare zitto, per evitare di dire cagate…».Mi arrendo.«Le rivelo un'altra cosa, se vuole».Cosa?«Che adoro la cucina. E che sto seguendo il mio ristorante a Laveno Mombello, sul Lago Maggiore».Ha un ristorante? E cucina?«No, non cucino, però lo gestisco. Si chiama Locanda Pozzetto».Mi ricorda un po' la scena finale di 7 chili in 7 giorni, quando lei e Verdone trasformate la clinica dimagrante in un ristorante…(Ride) «Io però non mangio più in quel modo! L'età non me lo permette…».
Il governatore: «Milano-Cortina 2026 sarà un laboratorio di metodo. Dalle Olimpiadi eredità durature per i territori».
«Ci siamo. Anzi, ghe sem, come si dice da queste parti». Con queste parole il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha aperto l’evento La Lombardia al centro della sfida olimpica, organizzato oggi a Palazzo Lombardia per fare il punto sulla corsa verso i Giochi invernali di Milano-Cortina 2026.
Un appuntamento che, nelle parole del governatore, non è solo sportivo ma anche simbolico: «Come Lombardia abbiamo fortemente voluto le Olimpiadi – ha detto – perché rappresentano una vetrina mondiale straordinaria, capace di lasciare al territorio eredità fondamentali in termini di infrastrutture, servizi e impatto culturale».
Fontana ha voluto sottolineare come l’esperienza olimpica incarni a pieno il “modello Lombardia”, fondato sulla collaborazione tra pubblico e privato e sulla capacità di trasformare le idee in progetti concreti. «I Giochi – ha spiegato – sono un esempio di questo modello di sviluppo, che parte dall’ascolto dei territori e si traduce in risultati tangibili, grazie al pragmatismo che da sempre contraddistingue la nostra regione».
Investimenti e connessioni per i territori
Secondo il presidente, l’evento rappresenta un volano per rafforzare processi già in corso: «Le Olimpiadi invernali sono l’occasione per accelerare investimenti che migliorano le connessioni con le aree montane e l’area metropolitana milanese».
Fontana ha ricordato che l’80% delle opere è già avviato, e che Milano-Cortina 2026 «sarà un laboratorio di metodo per programmare, investire e amministrare», con l’obiettivo di «rispondere ai bisogni delle comunità» e garantire «risultati duraturi e non temporanei».
Un’occasione per il turismo e il Made in Italy
Ampio spazio anche al tema dell’attrattività turistica. L’appuntamento olimpico, ha spiegato Fontana, sarà «un’occasione per mostrare al mondo le bellezze della Lombardia». Le stime parlano di 3 milioni di pernottamenti aggiuntivi nei mesi di febbraio e marzo 2026, un incremento del 50% rispetto ai livelli registrati nel biennio 2024-2025. Crescerà anche la quota di turisti stranieri, che dovrebbe passare dal 60 al 75% del totale.
Per il governatore, si tratta di una «straordinaria opportunità per le eccellenze del Made in Italy lombardo, che potranno presentarsi sulla scena internazionale in una vetrina irripetibile».
Una Smart Land per i cittadini
Fontana ha infine richiamato il valore dell’eredità olimpica, destinata a superare l’evento sportivo: «Questo percorso valorizza il dialogo tra istituzioni e la governance condivisa tra pubblico e privato, tra montagna e metropoli. La Lombardia è una Smart Land, capace di unire visione strategica e prossimità alle persone».
E ha concluso con una promessa: «Andiamo avanti nella sfida di progettare, coordinare e realizzare, sempre pensando al bene dei cittadini lombardi».
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Francesco Zambon (Getty Images)
Audito dalla commissione Covid Zambon, ex funzionario dell’agenzia Onu. Dalle email prodotte emerge come il suo rapporto, critico sulle misure italiane, sia stato censurato per volontà politica, onde evitare di perdere fondi per la sede veneziana dell’Organizzazione.
Riavvolgere il nastro e rivedere il film della pandemia a ritroso può essere molto doloroso. Soprattutto se si passano al setaccio i documenti esplosivi portati ieri in commissione Covid da Francesco Zambon, oggi dirigente medico e, ai tempi tragici della pandemia, ufficiale tecnico dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Di tutte le clamorose notizie diffusamente documentate in audizione, ne balzano agli occhi due: la prima è che, mentre gli italiani morivano in casa con il paracetamolo o negli ospedali nonostante i ventilatori, il governo dell’epoca guidato da Giuseppe Conte (M5s) e il ministro della salute Roberto Speranza (Pd) trovavano il tempo di preoccuparsi che la reputazione del governo, messa in cattiva luce da un rapporto redatto da Zambon, non venisse offuscata, al punto che ne ottennero il ritiro. La seconda terribile evidenza è che la priorità dell’Oms in pandemia sembrava proprio quella di garantirsi i finanziamenti.
Quest’anno in Brasile doppio carnevale: oltre a quello di Rio, a Belém si terrà la Conferenza Onu sul clima Un evento che va avanti da 30 anni, malgrado le emissioni crescano e gli studi seri dicano che la crisi non esiste.
Due carnevali, quest’anno in Brasile: quello già festeggiato a Rio dei dieci giorni a cavallo tra febbraio e marzo, come sempre allietato dagli sfrenati balli di samba, e quello - anch’esso di dieci giorni - di questo novembre, allietato dagli sfrenati balli dei bamba che si recheranno a Belém, attraversata dall’equatore, per partecipare alla Cop30, la conferenza planetaria che si propone di salvarci dal riscaldamento del clima.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Il 9 novembre 1971 si consumò il più grave incidente aereo per le forze armate italiane. Morirono 46 giovani parà della «Folgore». Oggi sono stati ricordati con una cerimonia indetta dall'Esercito.
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Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
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