
Il presidente del Friuli Venezia Giulia: «Se necessario sospendiamo Schengen. Per difenderci dagli ingressi illegali dobbiamo fare come l'Austria. L'autonomia? Il governo non penalizzi il Nord per punire la Lega».Massimiliano Fedriga, trentanovenne, leghista da sempre, è dall'aprile 2018 governatore del Friuli Venezia Giulia. E tiene orgogliosamente a citare alcuni primi risultati concreti raggiunti in un anno e mezzo di mandato: dai tagli fiscali sull'Irap agli incentivi per creare lavoro, dai contributi per l'accesso agli asili nido all'efficienza record dei servizi sanitari. Governatore, è stato tra i primi a raggiungere Trieste, dopo l'assassinio dei due poliziotti. Che idea si è fatto?«L'impressione è che l'assassino fosse una persona che le armi le conosceva bene. Una persona normale non è in grado di togliere la sicura, scarrellare e sparare con due pistole…».C'è una sorta di pregiudizio, nella politica e nei media, rispetto alle forze dell'ordine? Ci si commuove quando c'è un evento luttuoso, ma poi non sempre c'è attenzione adeguata alle condizioni di lavoro, alle regole d'ingaggio... E se una foto mostra una persona bendata o ammanettata, succede il pandemonio.«Oggi le forze dell'ordine sono spesso limitate nelle loro azioni, e hanno paura di compiere atti che altrove sono ritenuti normalissimi. Anche a Roma, il problema non mi sembra fosse la benda, ma l'omicidio di un carabiniere… La stessa battaglia della sinistra per il codice identificativo sul caschetto delle forze dell'ordine risente di una impostazione ideologica. Per identificare basta una microcamera, ma qualcuno vuole di più, e lo vuole proprio in base a un pregiudizio. Ecco, io ho il “pregiudizio" opposto: per me le forze dell'ordine hanno ragione fino a prova del contrario».Le è piaciuto il fatto che, senza alcuna perizia, si sia già iniziato a parlare dell'assassino come di una persona psichicamente disturbata? «Mi lasci esprimere vicinanza e solidarietà alle famiglie delle vittime. Sono stato fino a notte fonda in attesa che arrivassero quella sera, e ho visto una devastazione sconvolgente. La scorsa settimana, in giunta, abbiamo dato via libera a un aiuto economico a queste famiglie, mi è parso doveroso. Quanto al tema del disturbo psichico, segnalo una tendenza che non mi piace in tutta Europa: quando c'è un attentato terroristico, subito si parte dicendo che il colpevole aveva disturbi mentali. Quasi a dire che è colpa nostra, della società che non ha capito, non se n'è fatta carico…».Veniamo alla sua Regione. Dopo mezz'ora dal giuramento, il ministro Francesco Boccia e il Consiglio dei ministri, come primo atto della loro nuova stagione, hanno deciso di impugnare una legge del Friuli Venezia Giulia in materia di immigrazione.«Noi abbiamo sempre un'interlocuzione con Roma sulle norme. Il ministero degli Affari regionali gira le nostre bozze agli altri dicasteri, e quando ci sono loro osservazioni noi inviamo nostre controdeduzioni. Stavolta riteniamo che le nostre norme siano assolutamente legittime. La mia Regione ha fissato un requisito ragionevolissimo (5 anni di residenza) per accedere a contributi e deduzioni a favore delle imprese. Mi pare logico: io devo far diminuire la disoccupazione in Friuli Venezia Giulia, non nel resto del mondo. Ma hanno perfino impugnato una nostra abrogazione di una norma che il Friuli Venezia Giulia aveva approvato nel 2015 ai tempi di Debora Serracchiani. Possibile che una Regione non possa abrogare nemmeno una sua norma?».Come va interpretata questa sollecitudine curiosa? Hanno studiato il dossier mentre giuravano? «Voglio credere che fosse stata preparata una nota dagli uffici, e il Cdm non abbia vagliato con attenzione. Il vaglio politico dovrebbe servire proprio a evitare queste cose…».E nel merito? Un atto contro l'autonomia e pro immigrazione?«Io ho avuto un mandato popolare: sono stato eletto con il 57% dei voti. Imporre una linea politica diversa da Roma, peraltro da parte di un governo che non ha un avallo popolare, mi sembra una scelta grave».Parliamo di autonomia. La sua Regione ce l'ha già per statuto. Altre Regioni chiedono margini maggiori di scelta. I grillini hanno remato contro già durante il governo gialloblù. «La nostra è limitata, la più limitata tra quelle ad autonomia speciale. Quanto ai grillini, non hanno mai governato un ente locale o una Regione, non conoscono i vincoli che limitano l'azione di un amministratore che cerca di dare risposte ai cittadini. E poi hanno una concezione centralista. Io ho una visione opposta: più decide il governo locale, più si resta vicini ai cittadini».E ora il neo ministro Boccia chiede una legge cornice e uno spazio di riflessione. Traduzione dal politichese: cara Lombardia, caro Veneto, scordatevi l'autonomia. O ho capito male io?«Chiediamo tempi certi e rapidi. C'è stato un fortissimo coinvolgimento popolare con i referendum. E invece sento, anche dal ministro per il Sud, Peppe Provenzano, dichiarazioni sulla necessità di “tutelare la Costituzione". Ma forse non sa che la richiesta delle Regioni è esattamente nell'alveo costituzionale».Ma si può governare senza o contro il Nord?«Significa mettersi contro una parte decisiva del Paese. E non va bene nemmeno usare il governo per andare contro le Regioni governate da una diversa maggioranza politica. Sarebbe come se io, dalla Regione, danneggiassi i Comuni governati dal centrosinistra. Inimmaginabile».Parliamoci chiaro, una materia decisiva è già regionalizzata, ed è la sanità. A parità di spesa, la gestione politica in diverse regioni del Centro Sud è stata catastrofica. Pd e M5d difendono quella mala gestio? «Ho sempre detto che non esiste autonomia senza responsabilità. Se scolleghi questi elementi, dai solo potere di spesa senza controlli e senza freno. È ciò che è avvenuto sulla sanità. In quell'ambito esisterebbero già i cosiddetti livelli essenziali di assistenza, ma sfido chiunque a dire che alcune Regioni garantiscano gli stessi servizi di altre. Per questo dico: sarebbe vantaggioso per i cittadini del Sud pretendere responsabilità e risposte concrete, anche per reagire a quella migrazione sanitaria a cui assistiamo verso i nostri ospedali, con famiglie costrette a fare centinaia di chilometri per trovare un'assistenza adeguata».Che idea si è fatto di questo governo? Su tasse e immigrazione, sembra andare contromano. «Intanto, a mio avviso, anche a Costituzione esistente, non basterebbe avere una maggioranza aritmetica nelle due Camere, ma servirebbe anche una connessione tra quadro istituzionale e volontà popolare. Nel dibattito alla Costituente vi furono sottolineature importanti a questo proposito. Qui invece c'è uno scollamento feroce: a me pare che nessun governo sia nato con questo malcontento popolare. Perfino Mario Monti, che poi si rivelò un disastro, era nato con grandi aspettative. Invece in questo caso dal primo giorno la gente mi ferma e mi dice: “Mandateli a casa"».C'è un pilota automatico da Bruxelles? «Sono stati scelti all'estero, e rispondono a chi li ha messi lì. Pensi a Christine Lagarde che faceva l'endorsement a Roberto Gualtieri prim'ancora che fosse stato nominato. Ma se lo immagina in un altro Paese?».Torniamo all'immigrazione e ai confini orientali dell'Italia. C'è il rischio che la via balcanica ci riservi brutte sorprese?«Purtroppo ho poteri limitatissimi. Comunque, ho messo a disposizione la forestale per coadiuvare le forze dell'ordine a individuare i passaggi illegali. Tengo rapporti con le autorità locali dei Paesi limitrofi, a partire da Slovenia e Croazia. Abbiamo 1.000 entrate al mese verso il Friuli Venezia Giulia. Chiedo al governo di operare verso gli altri Paesi: di usare le nuove tecnologie (i radar che consentono di monitorare in largo anticipo i movimenti), e anche barriere (non mi riferisco a muri) per convogliare gli ingressi, altrimenti è impossibile presidiare tutti i sentieri… E infine invito a valutare la sospensione di Schengen, come fa l'Austria».Politicamente parlando, come sta la Lega?«La gente ci chiede aiuto. Dopo un momento di smarrimento iniziale, tutti hanno capito che la nostra scelta sul governo è stata di lealtà. Ed è paradossale che passi per furbo chi fa accordi di palazzo».C'è qualche errore che vi rimproverate?«Non ci eravamo resi conto della gestione del potere da parte di Giuseppe Conte, molto più ambizioso e legato alla poltrona di quanto immaginassimo».Questo è un Paese in cui il consenso - curiosamente - non basta per governare. Vi state attrezzando meglio per la prossima volta?«La priorità è rafforzare i rapporti internazionali, in modo che anche all'estero abbiano un'immagine corretta della Lega. Sono stato deluso dal trattamento mediatico che ci è stato riservato dalla stampa estera. Io stesso sono stato vittima di fake news: quando ho preso la varicella, mi hanno perfino descritto come un no vax, cosa totalmente assurda…».Non temete di aver dato a Washington segnali contraddittori? Quell'accordo con la Cina, la vostra attenzione alla Russia. Tutte cose che andrebbero concordate e «perimetrate» preventivamente con Washington, o mi sbaglio?«Sulla Cina, c'è stata un'enorme pressione dei 5 stelle. Vede, anche a livello regionale, io ho solo promosso un accordo con una società cinese relativo al porto di Trieste: un investimento immobiliare per un paio di banchine davanti la stazione. Non c'è alcun “rischio Pireo". Mentre dico assolutamente no rispetto alle telecomunicazioni: sarebbe pericoloso, è un settore strategico. Quanto alla Russia, si poteva far meglio nella forma, ma nella sostanza il nostro obiettivo è favorire il dialogo tra Usa e Russia, e penso sia una cosa assolutamente positiva».
Gennaro Varone
Il pubblico ministero Gennaro Varone sulla separazione delle carriere: «Le correnti sono orientate proprio come un partito politico».
«Non è vero che la separazione delle carriere porrà il pubblico ministero sotto il controllo del potere esecutivo». Da questa frase comincia l’analisi di Gennaro Varone, pubblico ministero di recente tornato a Pescara dopo una parentesi romana durante la quale si è occupato di delicate indagini sulla pubblica amministrazione (comprese quella sulle mascherine intermediate dal giornalista Mario Benotti, che ora è al centro delle attenzioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione della pandemia, quella sull’ex socio dello studio di Giuseppe Conte, l’avvocato Luca Di Donna, e quella sulla mensa di Rebibbia).
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Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it
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Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.
Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.
I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.
Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.
Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.
In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.
Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.
Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.
L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.
Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.
Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative
Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.
La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.
A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.
Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.
Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.
Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.
Piero Amara (Ansa)
L’ex avvocato svela l’ascesa del manager di Gioia Tauro già accusato in Iran e imputato a Roma «Diventò fornitore di Eni grazie a me, ma si tenne le quote. In Calabria aveva relazioni pericolose».
The italian job è diventato un intrigo internazionale. L’agenzia di stampa Bloomberg, da alcune settimane, si sta dedicando agli affari petroliferi del manager calabrese Francesco Mazzagatti, il più pagato in Gran Bretagna (oltre 30 milioni di euro di stipendio nel 2024). Il suo tentativo di acquisire da Shell ed Exxon mobile, con la sua società Viaro Energy Ltd (controllata da Viaro investment Ltd), l’impianto di gas di Bacton, a nord-est di Londra, considerato la «spina dorsale» della struttura energetica inglese, ha attirato l’attenzione dell’agenzia governativa britannica Nsta (l’Autorità di transizione del Mare del Nord che regola l’attività delle industrie di petrolio e gas offshore). Ma anche l’acquisto della Rockerose energy ha portato all’apertura un’inchiesta.
Johann Chapoutot (Wikimedia)
Col saggio «Gli irresponsabili», Johann Chapoutot rilegge l’ascesa del nazismo senza gli occhiali dell’ideologia. E mostra tra l’altro come socialdemocratici e comunisti appoggiarono il futuro Führer per mettere in crisi la Repubblica di Weimar.
«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».






