2022-03-21
Luigi Scordamaglia: «La crisi del cibo è colpa dell’Europa»
Il consigliere di Filiera Italia: «L’emergenza alimentare è figlia della miopia di Bruxelles che contrappone l’agricoltura all’ambiente. Con i costi attuali dell’energia sono a rischio 27.000 aziende e 230.000 lavoratori».Emmanuel Macron nel suo discorso elettorale - si ricandida all’Eliseo, il primo turno il 10 aprile - ha profetizzato: «È probabile una crisi alimentare per la guerra tra Ucraina e Russia i due maggiori produttori mondiali di grano». L’allarme è giusto, la diagnosi sbagliata. Le cause stanno più a Bruxelles che non a Kiev, ma a parlare male dell’Europa si rischia l’accusa di lesa maestà. C’è chi si assume questa responsabilità è Luigi Scordamaglia, dinamicissimo consigliere delegato di Filiera Italia, la prima alleanza vera tra campi e industria per valorizzare il meglio dell’Italia nell’agroalimentare, che ribatte: «Credo che l’emergenza alimentare esista, ma per una serie di cause. E tra le prime c’è la miopia dell’Europa che stava costruendo un mondo ideale lontano dalla realtà. Il conflitto in Ucraina è suonato come una drammatica sveglia. Non si può delegare ad altri né l’energia, né l’energia umana: il cibo. Invece Bruxelles ha fatto esattamente questo, si è consegnata alle produzioni altrui e con l’attuale commissione ha accentuato questa visione». Però si dice che si abbatteranno per mancanza di mangimi. È così?«È vero che ci sono difficoltà nell’approvvigionamento dei mangimi. Ed è un altro “fallimento” dell’Europa. Perché la prima fonte di crisi sta nell’Ungheria che ha cercato di bloccare l’esportazione di mais e sono convinto che i loro silos siano pieni per ragioni speculative. Si condannano tanto i sovranismi però poi ognuno fa come gli pare se ci sono di mezzo i soldi. Ma le forniture di mais si sbloccheranno in fretta. Poi abbiamo un piano B, ma bisogna sostentare gli allevatori. Come va salvaguardata la filiera del latte e la zootecnia in generale. C’è molta retorica in chi dice: l’agricoltura si apre ai giovani. Se vogliamo che i giovani si facciano carico di questo meraviglioso lavoro dobbiamo assicurare loro redditi dignitosi e parità di condizione. Solo così potranno accettare di stare 365 giorni all’anno ad accudire gli animali. Sulla zootecnia si sono fatti dei danni enormi, in Italia non abbiamo più vacche nutrici. E non ho mai visto un allevatore che abbatte un suo animale per risolvere una crisi».Dunque i cereali non sono al centro dell’allarme alimentare?«Bisogna distinguere: la crisi russo-ucraina ha impatto limitato, su di noi pesa per un 6% delle nostre importazioni per il fatto che quei cereali non arrivino perché sono bloccati nei porti di Odessa e Mariupol e che la Russia usi il grano come contro-sanzione infiamma i mercati. Si hanno fenomeni di stoccaggio speculativi e misure protezionistiche, ad esempio l’Ungheria su mais e grano o l’Argentina sui semi oleosi. La soia ha quotazioni folli e questo sì crea problemi».C’è dunque una preoccupazione ingiustificata?«No, c’è solo una comunicazione sbagliata. Il punto di rottura è quello dei fertilizzanti. La Russia è il primo produttore mondiale, ci vende 400.000 tonnellate di concime e, senza quello, addio semine e addio mangimi. Eppure una soluzione c’è: basterebbe attingere ai biodigestati che ora usiamo per produrre biogas e siamo il quarto produttore al mondo. Non accedere a questa soluzione dimostra ciò che tutti sanno: la crisi energetica non è risolvibile in poco tempo».Torniamo all’Europa. Si è illusa di poter fare a meno dell’agricoltura e l’ha messa in contrapposizione all’ambiente così come ha fatto con l’energia?«Esattamente. Si sono commessi errori macroscopici. Così come si è pensato che si poteva fare la transizione energetica dall’oggi al domani così si è fatto con l’agricoltura. Si è pensato al set aside per milioni di ettari (tenere la terra incolta, ndr), e le conseguenze le pagheremo per almeno altri dieci anni, si è creato il Farm to Fork ignorando che riduce la produzione agricola europea del 30%, ma non perché non lo si sappia: ci sono studi a iosa sull’impatto negativo di queste misure. Si sono fatti accordi col Mercosur per avere materie prime che non hanno affatto standard di qualità paragonabili a quelli europei. Si è predicata una sorta di discriminazione alimentare: chi può si compra la poca produzione di qualità europea, chi non può viene alimentato dalle importazioni. Tutto questo mentre la Cina stoccava il 60% del mais, del grano e del riso».Non c’è un cambiamento di rotta?«Purtroppo no. Si continua negli errori. Ne dico uno per tutti: vogliono stoccare la carne di maiale nel momento in cui ce n’è più bisogno. Hanno proposto un intervento straordinario di 500 milioni diviso 27 paesi! All’Italia toccano 50 milioni per fare fronte a una crisi gigantesca. È lo stesso principio del no agli energy-bond. Senza una mutualità non c’è modo di uscire dalla crisi energetica che si mangerà dal 2 al 4% del Pil europeo. Mi chiedo se non ora quando».La crisi energetica pesa molto sull’agroalimentare?«Sono a rischio 27.000 aziende e almeno 230.000 dipendenti. Tutto costa tantissimo. E non è solo l’energia: banda stagnata, cartoni, plastiche. Ci sono aziende che si sono fermate e stanno usando la casa integrazione d’emergenza. Ma se finisce quella ci sono da domani 40.000 persone senza lavoro. Per l’industria alimentare, soprattutto per quella piccola che è la stragrande maggioranza del settore, perdere un dipendente formato e fidato è una tragedia. Faccio un esempio nel settore della carne: tra tagliare un filetto in un modo o in un altro significa buttare via il prodotto».A questo si aggiunge il costo dei trasporti…«Gli autotrasportatori hanno ragione da vendere e infatti l’agroalimentare è stato il primo settore ad andare incontro sulle tariffe». Siete spaventati dall’inflazione? Temete un crollo dei consumi?«Siamo spaventati dall’atteggiamento della Gdo che non fa scaricare i maggiori costi sui prezzi e non protegge il valore delle nostre produzioni. C’è una parte di Gdo che ha compreso e ci sostiene e informa il consumatore avvertendo che non si faranno più promozioni e sconti. Un’altra parte che invece sta aprendo all’importazione di prodotti di bassa qualità. Ma c’è la possibilità di denunciare le pratiche sleali di chi opera il sottocosto. Quanto ai consumi, abbiamo già chiesto al Governo di azzerare l’Iva e sono convinto che se cresceranno le filiere si possono fare risparmi sui costi a beneficio dei consumatori senza comprimere i margini di chi produce». Lo scorso anno l’export italiano ha fatto il record con oltre 51 miliardi. Si ripeterà?«Con questi costi credo che sarà difficile: abbiamo avuto eccezionali risultati con il kilowattora a 6 centesimi, ora sta a 40! Ma il punto è un altro: è che fanno di tutto per non farci esportare. Basta pensare al Nutri-score: è chiarissimo che serve a fare spazio alle multinazionali che vogliono vendere i loro alimenti. E così fanno entrare nel mercato produzioni agricole di basso valore. Questo è un rischio mortale. Ma oggi tutto il Sud Europa è contro il Nutri-score perché è un’evidente manifestazione della miopia dell’Europa, convinta che tra agricoltura e ambiente ci sia un conflitto, in realtà inesistente, che penalizza la qualità».Cercano di mortificare il valore italiano?«Noi con un fazzoletto di terra abbiamo la produttività più alta del mondo. E le coltivazioni più sostenibili. Produciamo 74 miliardi di valore aggiunto agricolo emettendo 30 milioni di tonnellate di CO2 contro i 77 della Francia i 65 della Germania. L’Europa però considera tutti uguali: chi dal latte al massimo fa una sottiletta e dalla carne un hamburger è messo sullo stesso piano di chi, come noi, dal latte fa il Parmigiano Reggiano o il Grana Padano e dal maiale il culatello di Zibello. Da noi il prodotto agricolo e alimentare è un bene culturale. Peggiore del dramma di queste settimane ce ne sarebbe uno solo: non difendere questi valori. Anche i francesi hanno lo stesso problema in Europa: sta franando l’ideologia europea che ci ha portato alla crisi e al Nutri-score».È anche per questo che abbiamo denunciato la Pac? «Abbiamo chiesto la moratoria della Pac di almeno due anni perché così com’è concepita continua a cullarsi nel volo pindarico del set aside, del Farm to Fork. Vogliamo sbloccare un milione di ettari di terreni incolti, così noi possiamo mitigare la dipendenza dall’estero. È la stessa illusione che aveva portato al regime delle quote: hanno distrutto prodotto, ci hanno fatto diventare sempre più dipendenti e non hanno affatto aiutato i redditi degli agricoltori. C’è un’alternativa tutta italiana. Fare qualità e integrare le filiere, come fa Filiera Italia, e distribuire gli utili in maniera equa a tutti gli attori: dagli agricoltori, all’industria fino a chi vende». E magari fare in modo che l’agricoltura torni protagonista dell’economia?«Credo che lo shock che stiamo vivendo abbia posto di nuovo al centro l’agricoltura in Italia. Ci sono i fondi del Pnrr, ci sono strumenti come i contratti lunghi di fornitura che legano campi e trasformazione, c’è da rivalutare l’ambiente rurale. Si può fare, va fatto. Perché ora ci siamo accorti che senza agricoltura non c’è vita. E il Governo lo sa».