2023-10-06
L’inchiesta si concentra sul guardrail. Autopsia sul corpo dell’autista del bus
La Procura di Venezia ha disposto una perizia sulla doppia fila di barriere di protezione divelte dal pullman prima di precipitare. Il Comune si difende: «Il buco? Varco di servizio». Iniziati i colloqui con i 15 superstiti.Lo strapiombo che si apre sotto i piedi, da dove è caduto l’autobus a Mestre martedì scorso, toglie il fiato. Qui, il parapetto pedonale, visibilmente arrugginito non esiste più. A un paletto, rimasto in piedi, qualcuno ha messo un fiore giallo. Il guardrail, arrugginito anche quello, improvvisamente si interrompe e si apre un varco. Poi, poco più giù, il vuoto. Sotto c’è la strada, poco più in là i binari. I nastri del nastro bianco e rosso mossi dal vento e un cartello giallo indicano che l’area è stata sottoposta a sequestro. E nell’inchiesta, infatti, aperta dalla Procura di Venezia c’è l’ipotesi di omicidio stradale plurimo.Le ipotesi principali sulle cause della tragedia costata la vita a 21 persone e che ha causato il ferimento di altre 15, sono una manovra azzardata o un malore improvviso dell’autista del pullman. Le indagini ora si stanno concentrando sull’analisi di un video ripreso nei momenti dello schianto alla Smart control room, il sistema di monitoraggio integrato, del Comune di Venezia. La telecamera è puntata alla base della rampa che da Mestre porta alla città lagunare e ritrae la sommità del cavalcavia, nel tratto in discesa verso la bretella per l’autostrada A4. Qui si nota il bus affiancarne un altro, presumibilmente fermo al semaforo che immette a sinistra e che ha la freccia inserita. Subito dopo l’autobus si piega e sprofonda di sotto, cadendo nel vuoto.L’autobus sembra proprio precipitare di testa. Si capovolge, si schianta, si deforma sotto il peso delle due 13 tonnellate fino a causare lo schiacciamento le persone all’interno. Tanto che prima quel mezzo era alto tre metri. Dopo lo schianto, la sua altezza è diventata un metro e quaranta. Nel giro di breve arrivano 40 ambulanze, vigili del fuoco, polizia ferroviaria, polizia locale, carabinieri, poliziotti. È qualcosa di spaventoso. Sembra l’Apocalisse. I pompieri lavorano per estrarre i corpi accartocciati tra le lamiere, ammassati in mezzo alle fiamme che nel frattempo sono divampate per cause ancora da chiarire. Accanto, iniziano ad apparire i primi teli di chi non ce l’ha fatta.Il bilancio è pesantissimo: i morti sono 21. Mercoledì sera sono stati tutti identificati. E ancora ieri, a Mestre, era un viavai di parenti arrivati dall’estero, visto che l’unico italiano a bordo era proprio l’autista. Con il passare delle ore diventa sempre più fondamentale il lavoro di psicologi e interpreti a supporto dei feriti e dei familiari delle vittime. Tra queste c’è anche un’intera famiglia romena sterminata. La famiglia Ogrezeanu. Mircea e Mihaela di 45 e 42 anni e le loro figlie Aurora e Georgiana di 8 e 13 anni. E poi ci sono Marko Bakovic e Antonela Perkovic, appena sposi: una coppia croata, lei era incinta ed è morta, lui è sopravvissuto. La morte è toccata anche alla piccola Charlotte, bambina tedesca di soli un anno e cinque mesi, e a Daria, una bimba ucraina di 10 anni. Oltre alle bimbe, sono morti anche i tedeschi And Elen Berger di 32 anni e Jonathan Siddharta Grasse di anni 28; Maria Fernanda Maciel Arnaud, 56 anni, e Gualter Augusto Carvahalido Maio di anni 58, entrambi portoghesi. È morta anche Annette Pearly Arendse di anni 58, così come gli ucraini Vasyl Lomakin di 70 anni, le piccole Anastasia Morozova e Yuliia Niemova, di anni 12 e 10 anni; Iryna Pashchenko e Liubov Shyshkarova entrambi ventenni; Dmytro Sierov, 33 anni. Anche il cinese Serhii Beskorovainov, 70 anni, e la moldava Tetiana Beskorovainova, 69. E l’italiano Alberto Rizzotto, l’autista del bus, che aveva 40 anni.Le condizioni di alcuni dei 15 feriti sono in miglioramento. Un paziente croato ha lasciato la terapia intensiva, ma cinque si trovano ancora in condizioni critiche. Ieri, intanto, è stata eseguita l’autopsia sull’autista del bus. Ed è stata disposta una perizia sul guardrail. «Non abbiamo alcun elemento per trarre conclusioni sul guardrail, per questo ci serve una perizia», ha detto il procuratore capo di Venezia Bruno Cherchi. Il riferimento è, in particolare, verso quel buco di un metro e mezzo presente sul guardrail e nel quale si sarebbe infilato l’autobus nei suoi metri finali, prima di finire di sotto. «Sul guardrail», ha aggiunto Cherchi, «faremo tutte le attività del caso, iniziando da una consulenza tecnica. Servono conoscenze tecniche, non giuridiche. Per ora non abbiamo acquisito documenti sulla rampa dal Comune».Proprio lì il Comune aveva avviato i lavori di «adeguamento della piattaforma e delle barriere stradali» il 4 settembre scorso. E l’amministrazione comunale di Venezia ha iniziato a difendersi: «L’autobus», dice l’assessore alla Mobilità, Renato Boraso «non è caduto perché c’era quel varco. Oltretutto quel cavalcavia non l’ha fatto il Comune di Venezia, lo ha ereditato, e noi da un mese stiamo rifacendo quelle strutture, con un nuovo guardrail e un nuovo parapetto. Quel varco era previsto dal progetto di allora, risale gli anni Sessanta, ed era a norma». Era? «È uno spazio di sicurezza, previsto per le manutenzioni o per far accedere i soccorritori in caso di necessità». «Non ci sono, allo stato, indagati», ha detto Cherchi, «mentre il guardrail, la zona di caduta del bus e lo stesso mezzo sono stati posti sotto sequestro. Abbiamo identificato tutte le vittime e abbiamo restituito le salme alle famiglie». Acquisita anche anche la «scatola nera» dell’autobus «che sarà esaminata solo quando si saprà che non è un’operazione irripetibile. Altrimenti aspetteremo lo sviluppo dell’inchiesta, affinché tutte le parti coinvolte possano avere le perizie».Ieri, in ospedale, i parenti delle vittime abbracciavano medici e poliziotti. Con gli occhi di chi ha perso tutto.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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