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2019-08-20
L’imbarazzo di Dibba che si ritrova alleato con il «partito di Bibbiano»
Ansa
Verso la fine di luglio, l'annuncio esplosivo tramite Facebook: «Mi sto dedicando alla collana di saggistica cercando nuovi autori e nuove tematiche da approfondire», dichiarò Alessandro Di Battista. Poi dettagliò: «In tal senso vi annuncio che presto (vi terrò aggiornati) uscirà un libro sullo scandalo di Bibbiano e sarà il primo libro frutto della mia collaborazione con Fazi. Ci è sembrato doveroso approfondire questo scandalo», aggiunse Dibba, «anche perché abbiamo registrato un silenzio assordante da parte del 90% del sistema mediatico nazionale. Tuttavia il libro sull'inferno di Bibbiano sarà solo l'inizio. Vogliamo dare spazio a nuovi autori e a nuove idee».
Niente da dire: un'uscita pubblica meritevole di applausi. Di Battista aveva deciso di prendere di petto una delle questioni più scottanti degli ultimi tempi. In più aveva assolutamente ragione: di Bibbiano non parlava praticamente nessuno, tanto che pure adesso la gran parte dei media continua a ignorare la faccenda. Decisamente meritevole, dunque, l'idea di pubblicare un libro sulla storia degli affidi facili della Val d'Enza. In realtà, molto del merito va reso all'editore Fazi, che da tempo stampa libri coraggiosi e non certo proni al mainstream.
E infatti dalla casa editrice confermano ancora oggi l'intenzione di voler andare avanti: il libro si farà eccome, non sarà Dibba a firmarlo ma un'autrice di cui per ora non è noto il nome. A settembre se ne saprà di più, intanto l'editore assicura che non si tratta di una speculazione politica, e non c'è motivo di non credergli.
Il punto, però, è che nel frattempo qualcosa a livello politico è effettivamente cambiato. Adesso, guarda un po', Alessandro Di Battista si ritrova gomito a gomito con il partito di Bibbiano.
Per prima cosa ci sono i rapporti dei 5 stelle con alcuni dei protagonisti della vicenda. Come noto, i pentastellati piemontesi avevano foraggiato il centro Hansel e Gretel di Claudio Foti. Poi si sono accorti dell'errore e hanno chiesto indietro i soldi. Ma intanto... Inoltre, una delle indagate di «Angeli e demoni», Federica Anghinolfi, è difesa da Rossella Ognibene, già candidato sindaco a 5 stelle nel Comune di Reggio Emilia. La Ognibene si è dimessa, e sembrava finita lì. E invece no: come ha rivelato il nostro giornale, Andrea Coffari - avvocato, amico e collaboratore di Claudio Foti - è stato candidato dai 5 stelle alle Politiche nel Mugello. Qui non parliamo di un difensore qualsiasi, ma di un professionista che condivide la visione di Foti e, prima che in aula, lo difende a livello ideologico. A volerlo in lista fu Alfonso Bonafede, attuale Guardasigilli. Ed è qui che la situazione si fa davvero imbarazzante. Dibba ha proposto il libro sull'inferno bibbianese. Ma ora gli tocca scoprire che in casa sua quell'inferno ha fatto cadere qualche tizzone. Ciliegina: l'alleanza con il Pd. Viene da chiedersi come farà Dibba a digerire il rospo. I democratici hanno fornito copertura ideologica e politica al giro di Bibbiano, come immaginiamo verrà documentato nel libro di Fazi.
Con che faccia li si può bastonare su carta e tollerare in Parlamento? Per altro, qualcuno nel Pd ha già fatto capire che aria tiri. Pierfrancesco Majorino, assessore milanese, ha scritto su Twitter: «E comunque nella trattativa con i 5 stelle 'na parolina di scuse su Bibbiano la pretenderei». In realtà non c'è quasi nulla di cui scusarsi, ma se i toni sono questi, beh, non vorremmo essere nei panni di Di Battista. Domenica, sul Blog delle Stelle, è uscito un feroce articolo su Bibbiano. Notiamo che, nel pezzo, i toni sono già più moderati. L'«inferno» di Dibba è diventato un caso di «presunti affidi illeciti». Il blog attacca frontalmente Salvini. Sbriciolando il governo, egli avrebbe «mandato in fumo anche la speranza delle vittime» di «Angeli e demoni». Ma davvero? Invece vedendo i 5 stelle alleati con il Pd le vittime saranno proprio tranquille e serene...
La «madre» Lgbt pagata dalla Regione su cui i giornali preferiscono tacere
Molti giornali, ieri, si sono occupati di una vicenda agghiacciante che, ancora una volta, si è svolta in Val d'Enza. Il Tg3 Emilia Romagna ha diffuso una intercettazione ambientale in cui si sente parlare la madre affidataria di una bambina di cui si parla nelle carte dell'inchiesta «Angeli e demoni». La donna e la piccola sono in auto e un certo punto l'affidataria si mette a gridare: «Scendi, non ti voglio più. Scendi, io non ti voglio più!». La bambina viene così scaricata in strada, sotto la pioggia battente. A scatenare l'ira della donna è il fatto che la bambina si rifiuta di raccontare, scrivendo in un quaderno, gli abusi che avrebbe subito dal padre naturale in realtà mai avvenuti). L'episodio è in effetti sconvolgente. C'è un piccolo problema, però. I media hanno evitato di raccontare la storia fino in fondo, a differenza di quanto ha fatto La Verità parecchie settimane fa. La bambina che ieri ha suscitato tanto scalpore è la piccola Katia, e il suo è uno dei casi più inquietanti di tutta l'indagine sugli affidi facili.
La piccola, infatti, è stata affidata a due donne Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji, che si sono unite civilmente nel giugno del 2018. Le «due mamme» (che per altro percepivano un contributo doppio rispetto ad altri affidatari) avrebbero dovuto prendersi cura della piccina e invece, a quanto risulta dalle carte, la vessavano e maltrattavano. Tanto che il gip reggiano Luca Ramponi ha subito disposto che la bimba fosse tolta alle due donne e ha vietato ogni forma di contatto (oltre che l'avvicinamento a più di un chilometro di distanza).
Katia è stata affidata alla coppia lesbica grazie a una delle protagoniste principali dell'inchiesta, ovvero l'indagata Federica Anghinolfi, dirigente del Servizio di assistenza sociale dell'Unione Comuni Val d'Enza. Come noto, costei era una fervente attivista Lgbt, nota per aver partecipato a convegni dedicati all'affido gay, come quello che si è tenuto a Mantova nel maggio 2018, intitolato «Affidarsi. Uno sguardo accogliente verso l'affido Lgbt». A quel convegno parteciò, guarda caso, anche Fadia Bassmaji, ovvero una delle due mamme affidatarie di Katia. La Bassmaji e la Anghinolfi vengono definite dal giudice di Reggio Emilia. «persone assai attive nella difesa dei diritti Lgbt». Ma non condividevano solo la militanza ideologica. Nelle carte dell'inchiesta si legge che Fadia e Federica «risultavano avere avuto in passato tra loro una relazione sentimentale». Riepilogando: la Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali, dà in affidamento una bimba alla Bassmaji, sua ex compagna che si è unita civilmente a un'altra donna, Daniela Bedogni. Non solo: «La sorella della Bedogni», spiega il giudice, «è risultata anche lei una “intima amica" della Anghinolfi».
Soffermiamoci un attimo sulla Bedogni. È lei la protagonista dell'intercettazione diffusa dal Tg3. Secondo il gip di Reggio Emilia, questa donna «si dimostra instabile e del tutto convinta del proprio ruolo essenziale [...] di natura “salvifica" a favore della minore» (ovvero Katia). In alcune intercettazioni ambientali, la Bedogni si esprime con «urla deliranti in cui manifestava il proprio odio contro Dio con ininterrotte bestemmie di ogni tipo alternate d'improvviso a canti eucaristici».
In altre occasioni dà luogo a «interi colloqui con persone immaginarie», a «deliri improvvisi in cui [...] immagina situazioni inesistenti» e poi, ancora, «sproloqui di ogni tipo, sempre intervallati da bestemmie e canti eucaristici». Scrive il giudice: «In totale evidenza di squilibrio mentale, mentre si trova da sola in auto, urla ininterrotte bestemmie, instaura veri e propri discorsi con soggetti immaginari di cui imita le voci». Ecco a chi è stata affidata Katia. A un donna che l'ha sbattuta fuori dalla macchina urlandole: «Porca puttana vai da sola a piedi... Porca puttana scendi! Scendi! Non ti voglio più! Io non ti voglio più scendi! Scendi!».
Perché riportiamo tutti questi dettagli? Non per rendere più morboso il racconto, certo che no. Il fatto è che se non si spiega che cosa è avvenuto esattamente a Katia non si comprende uno degli aspetti fondamentali della vicenda bibbianese, ovvero l'influenza dell'ideologia Lgbt. Federica Anghinolfi ha di fatto affidato a sue amiche/ conoscenti/ ex amanti alcuni minorenni. E lo ha fatto per motivi ideologici.
Evidentemente, però, a qualcuno fa molto comodo evitare questa faccia della medaglia. Qualche approfondimento, per altro, merita pure Fadia Bassmaji, l'altra mamma affidataria. Come abbiamo raccontato nelle settimane passate, ha lavorato a stretto contatto con varie amministrazioni comunali in tutta l'Emilia Romagna, spesso per progetti a sfondo arcobaleno.
Galeazzo Bignami, deputato di Forza Italia, ha chiesto alla Regione Emilia Romagna di fare chiarezza sui rapporti istituzionali con la Bassmaji (tramite le due associazioni da lei fondate Quinta parete e Sinonimia). E ciò che è emerso è piuttosto interessante. «Nel 2017 la Regione ha deliberato un contributo per l'associazione Sinonimia di circa 23.000 euro per il progetto “Teatro Agorà - un teatro di comunità"», dice Bignami. «A luglio 2018 è stato assegnato all'associazione Sinonimia un contributo di 15.000 euro per il progetto “Sono tutti figli nostri?" Quest'ultimo progetto, in particolare, si proponeva di veicolare temi socio-sanitari e relativi all'affido attraverso il teatro. Da qui l'organizzazione di tre incontri sui temi dell'affido anche Lgbt e incontri con Arcigay Reggio Emilia, sul tema delle diverse genitorialità possibili. Infine, vi era anche l'obiettivo di entrare nel mondo della scuola oltre che quello di formare operatori per sciogliere le resistenze in tema di affido Lgbt».
Adesso ci si scandalizza per le intercettazioni angoscianti, ma intanto questa madre affidataria ha collaborato a lungo con la Regione (anche) per fare propaganda Lgbt. Ovviamente, però, su questo i media preferiscono tacere.
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A metà luglio ha sponsorizzato l'uscita del libro sull'«inferno» emiliano. Ora i 5 stelle fanno comunella con il Pd, e si scopre che hanno candidato il sodale del guru di Hansel e Gretel. Lui dimenticherà tutto?Fa scandalo la storia della piccina cacciata dall'auto della sua affidataria. Ma nessuno ne racconta il retroscena arcobaleno.Lo speciale contiene due articoli.Verso la fine di luglio, l'annuncio esplosivo tramite Facebook: «Mi sto dedicando alla collana di saggistica cercando nuovi autori e nuove tematiche da approfondire», dichiarò Alessandro Di Battista. Poi dettagliò: «In tal senso vi annuncio che presto (vi terrò aggiornati) uscirà un libro sullo scandalo di Bibbiano e sarà il primo libro frutto della mia collaborazione con Fazi. Ci è sembrato doveroso approfondire questo scandalo», aggiunse Dibba, «anche perché abbiamo registrato un silenzio assordante da parte del 90% del sistema mediatico nazionale. Tuttavia il libro sull'inferno di Bibbiano sarà solo l'inizio. Vogliamo dare spazio a nuovi autori e a nuove idee».Niente da dire: un'uscita pubblica meritevole di applausi. Di Battista aveva deciso di prendere di petto una delle questioni più scottanti degli ultimi tempi. In più aveva assolutamente ragione: di Bibbiano non parlava praticamente nessuno, tanto che pure adesso la gran parte dei media continua a ignorare la faccenda. Decisamente meritevole, dunque, l'idea di pubblicare un libro sulla storia degli affidi facili della Val d'Enza. In realtà, molto del merito va reso all'editore Fazi, che da tempo stampa libri coraggiosi e non certo proni al mainstream. E infatti dalla casa editrice confermano ancora oggi l'intenzione di voler andare avanti: il libro si farà eccome, non sarà Dibba a firmarlo ma un'autrice di cui per ora non è noto il nome. A settembre se ne saprà di più, intanto l'editore assicura che non si tratta di una speculazione politica, e non c'è motivo di non credergli. Il punto, però, è che nel frattempo qualcosa a livello politico è effettivamente cambiato. Adesso, guarda un po', Alessandro Di Battista si ritrova gomito a gomito con il partito di Bibbiano. Per prima cosa ci sono i rapporti dei 5 stelle con alcuni dei protagonisti della vicenda. Come noto, i pentastellati piemontesi avevano foraggiato il centro Hansel e Gretel di Claudio Foti. Poi si sono accorti dell'errore e hanno chiesto indietro i soldi. Ma intanto... Inoltre, una delle indagate di «Angeli e demoni», Federica Anghinolfi, è difesa da Rossella Ognibene, già candidato sindaco a 5 stelle nel Comune di Reggio Emilia. La Ognibene si è dimessa, e sembrava finita lì. E invece no: come ha rivelato il nostro giornale, Andrea Coffari - avvocato, amico e collaboratore di Claudio Foti - è stato candidato dai 5 stelle alle Politiche nel Mugello. Qui non parliamo di un difensore qualsiasi, ma di un professionista che condivide la visione di Foti e, prima che in aula, lo difende a livello ideologico. A volerlo in lista fu Alfonso Bonafede, attuale Guardasigilli. Ed è qui che la situazione si fa davvero imbarazzante. Dibba ha proposto il libro sull'inferno bibbianese. Ma ora gli tocca scoprire che in casa sua quell'inferno ha fatto cadere qualche tizzone. Ciliegina: l'alleanza con il Pd. Viene da chiedersi come farà Dibba a digerire il rospo. I democratici hanno fornito copertura ideologica e politica al giro di Bibbiano, come immaginiamo verrà documentato nel libro di Fazi. Con che faccia li si può bastonare su carta e tollerare in Parlamento? Per altro, qualcuno nel Pd ha già fatto capire che aria tiri. Pierfrancesco Majorino, assessore milanese, ha scritto su Twitter: «E comunque nella trattativa con i 5 stelle 'na parolina di scuse su Bibbiano la pretenderei». In realtà non c'è quasi nulla di cui scusarsi, ma se i toni sono questi, beh, non vorremmo essere nei panni di Di Battista. Domenica, sul Blog delle Stelle, è uscito un feroce articolo su Bibbiano. Notiamo che, nel pezzo, i toni sono già più moderati. L'«inferno» di Dibba è diventato un caso di «presunti affidi illeciti». Il blog attacca frontalmente Salvini. Sbriciolando il governo, egli avrebbe «mandato in fumo anche la speranza delle vittime» di «Angeli e demoni». Ma davvero? 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La donna e la piccola sono in auto e un certo punto l'affidataria si mette a gridare: «Scendi, non ti voglio più. Scendi, io non ti voglio più!». La bambina viene così scaricata in strada, sotto la pioggia battente. A scatenare l'ira della donna è il fatto che la bambina si rifiuta di raccontare, scrivendo in un quaderno, gli abusi che avrebbe subito dal padre naturale in realtà mai avvenuti). L'episodio è in effetti sconvolgente. C'è un piccolo problema, però. I media hanno evitato di raccontare la storia fino in fondo, a differenza di quanto ha fatto La Verità parecchie settimane fa. La bambina che ieri ha suscitato tanto scalpore è la piccola Katia, e il suo è uno dei casi più inquietanti di tutta l'indagine sugli affidi facili. La piccola, infatti, è stata affidata a due donne Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji, che si sono unite civilmente nel giugno del 2018. Le «due mamme» (che per altro percepivano un contributo doppio rispetto ad altri affidatari) avrebbero dovuto prendersi cura della piccina e invece, a quanto risulta dalle carte, la vessavano e maltrattavano. Tanto che il gip reggiano Luca Ramponi ha subito disposto che la bimba fosse tolta alle due donne e ha vietato ogni forma di contatto (oltre che l'avvicinamento a più di un chilometro di distanza). Katia è stata affidata alla coppia lesbica grazie a una delle protagoniste principali dell'inchiesta, ovvero l'indagata Federica Anghinolfi, dirigente del Servizio di assistenza sociale dell'Unione Comuni Val d'Enza. Come noto, costei era una fervente attivista Lgbt, nota per aver partecipato a convegni dedicati all'affido gay, come quello che si è tenuto a Mantova nel maggio 2018, intitolato «Affidarsi. Uno sguardo accogliente verso l'affido Lgbt». A quel convegno parteciò, guarda caso, anche Fadia Bassmaji, ovvero una delle due mamme affidatarie di Katia. La Bassmaji e la Anghinolfi vengono definite dal giudice di Reggio Emilia. «persone assai attive nella difesa dei diritti Lgbt». Ma non condividevano solo la militanza ideologica. Nelle carte dell'inchiesta si legge che Fadia e Federica «risultavano avere avuto in passato tra loro una relazione sentimentale». Riepilogando: la Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali, dà in affidamento una bimba alla Bassmaji, sua ex compagna che si è unita civilmente a un'altra donna, Daniela Bedogni. Non solo: «La sorella della Bedogni», spiega il giudice, «è risultata anche lei una “intima amica" della Anghinolfi». Soffermiamoci un attimo sulla Bedogni. È lei la protagonista dell'intercettazione diffusa dal Tg3. Secondo il gip di Reggio Emilia, questa donna «si dimostra instabile e del tutto convinta del proprio ruolo essenziale [...] di natura “salvifica" a favore della minore» (ovvero Katia). In alcune intercettazioni ambientali, la Bedogni si esprime con «urla deliranti in cui manifestava il proprio odio contro Dio con ininterrotte bestemmie di ogni tipo alternate d'improvviso a canti eucaristici». In altre occasioni dà luogo a «interi colloqui con persone immaginarie», a «deliri improvvisi in cui [...] immagina situazioni inesistenti» e poi, ancora, «sproloqui di ogni tipo, sempre intervallati da bestemmie e canti eucaristici». Scrive il giudice: «In totale evidenza di squilibrio mentale, mentre si trova da sola in auto, urla ininterrotte bestemmie, instaura veri e propri discorsi con soggetti immaginari di cui imita le voci». Ecco a chi è stata affidata Katia. A un donna che l'ha sbattuta fuori dalla macchina urlandole: «Porca puttana vai da sola a piedi... Porca puttana scendi! Scendi! Non ti voglio più! Io non ti voglio più scendi! Scendi!». Perché riportiamo tutti questi dettagli? Non per rendere più morboso il racconto, certo che no. Il fatto è che se non si spiega che cosa è avvenuto esattamente a Katia non si comprende uno degli aspetti fondamentali della vicenda bibbianese, ovvero l'influenza dell'ideologia Lgbt. Federica Anghinolfi ha di fatto affidato a sue amiche/ conoscenti/ ex amanti alcuni minorenni. E lo ha fatto per motivi ideologici. Evidentemente, però, a qualcuno fa molto comodo evitare questa faccia della medaglia. Qualche approfondimento, per altro, merita pure Fadia Bassmaji, l'altra mamma affidataria. Come abbiamo raccontato nelle settimane passate, ha lavorato a stretto contatto con varie amministrazioni comunali in tutta l'Emilia Romagna, spesso per progetti a sfondo arcobaleno. Galeazzo Bignami, deputato di Forza Italia, ha chiesto alla Regione Emilia Romagna di fare chiarezza sui rapporti istituzionali con la Bassmaji (tramite le due associazioni da lei fondate Quinta parete e Sinonimia). E ciò che è emerso è piuttosto interessante. «Nel 2017 la Regione ha deliberato un contributo per l'associazione Sinonimia di circa 23.000 euro per il progetto “Teatro Agorà - un teatro di comunità"», dice Bignami. «A luglio 2018 è stato assegnato all'associazione Sinonimia un contributo di 15.000 euro per il progetto “Sono tutti figli nostri?" Quest'ultimo progetto, in particolare, si proponeva di veicolare temi socio-sanitari e relativi all'affido attraverso il teatro. Da qui l'organizzazione di tre incontri sui temi dell'affido anche Lgbt e incontri con Arcigay Reggio Emilia, sul tema delle diverse genitorialità possibili. Infine, vi era anche l'obiettivo di entrare nel mondo della scuola oltre che quello di formare operatori per sciogliere le resistenze in tema di affido Lgbt». Adesso ci si scandalizza per le intercettazioni angoscianti, ma intanto questa madre affidataria ha collaborato a lungo con la Regione (anche) per fare propaganda Lgbt. Ovviamente, però, su questo i media preferiscono tacere.
I carabinierii e la Scientifica sul luogo della rapina alla gioielleria Mario Roggero a Grinzane Cavour (Cuneo), il 28 aprile 2021 (Ansa)
A due giorni dalla condanna in secondo grado che gli infligge una pena di 14 anni e 9 mesi (17 nel primo appello), ci si chiede se non ci sia stato un errore, un abbaglio, perché ciò che stupisce di più oltre alla severità della pena sono le sue proporzioni. Sì perché mentre a Roggero spetta il carcere, ai delinquenti e alle loro famiglie andranno migliaia di euro di risarcimenti. Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885.000 euro. Gliene sono stati riconosciuti 480.000. L’uomo però aveva già dato 300.000 euro - non dovuti - ai congiunti dei suoi assalitori. Per reperire i soldi ha dovuto svendere due appartamenti di proprietà sua e dei suoi fratelli. Una delle due era la casa in cui era cresciuto. Come già scritto su queste colonne si tratta di una tragica beffa per chi ha subito una rapina e che, per essersi difeso, ne subisce un’altra ancora. A questi soldi vanno aggiunti altri 300.000 euro «di spese legali, peritali, mediche», che non sono bastate a mitigare la «sentenza monito» di 17 anni in primo grado, come l’ha definita il procuratore capo di Asti. Non un monito, ma il presagio della condanna in secondo grado che gli ha visto attribuire una diminuzione di pena di due anni e poco più.
Eppure nel mondo dell’assurdo in cui viviamo ai familiari di chi muore sul lavoro vanno appena 12.000 euro. Proprio così. Ad esser precisi si parla di un versamento una tantum di 12.342,84 euro. Una cifra versata dall’Inail che cambia ogni anno perché rivalutata dal ministero del Lavoro in base all’inflazione, quindi alla variazione dei prezzi al consumo. Di questo si devono accontentare le famiglie di chi perde la vita lavorando onestamente, mentre chi ruba e muore per questo può far arrivare ai propri cari anche mezzo milione di euro. Bel messaggio che si manda ai familiari delle 784 persone morte sul lavoro solo nel 2025. Ai coniugi superstiti spetta poi il 50% dello stipendio del proprio caro, ai figli appena il 20%. Considerato che statisticamente a morire sul lavoro non ci sono grossi dirigenti, ma più che altro operai, si può dire che a queste persone già travolte dal dolore non arrivano che pochi spicci. Spicci che arrivano oltretutto solo ad alcune condizioni. Intanto per quanto riguarda i coniugi la quota di stipendio arriverà a vita, certo, ma bisogna stare attenti a fare richiesta entro 40 giorni, altrimenti si rischia di non ricevere nulla. Per quanto riguarda i figli, il 20% dello stipendio del lavoratore deceduto verrà contribuito fino ai 18 anni di età, fino ai 26 se studenti. Non oltre. Nulla verrà versato ai genitori della vittima se conviventi a meno che non si dimostri che la stessa contribuisse a mantenerli. Insomma, dolore che si aggiunge a dolore.
Anche i rapinatori uccisi da Roggero avevano dei familiari, certo, anche loro hanno diritto a soffrire per le loro perdite, ma se il valore di una morte si dovesse o potesse contare con il denaro, verrebbe da pensare che per la giustizia italiana ha più valore la vita di un delinquente che quella di un lavoratore onesto.
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Galeazzo Bignami (Ansa)
Se per il giudice che l’ha condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere (in primo grado la Corte d’Assise di Asti gliene aveva dati 17, senza riconoscere la legittima difesa), nonché a un risarcimento milionario ai familiari dei due rapinatori uccisi (con una provvisionale immediata di circa mezzo milione di euro e le richieste totali che potrebbero raggiungere milioni) c’è stata sproporzione tra difesa e offesa, la stessa sproporzione è stata applicata nella sentenza, tra l’atto compiuto e la pena smisurata che dovrà scontare Roggero. Confermare tale condanna equivarrebbe all’ergastolo per l’anziano, solo per aver difeso la sua famiglia e sé stesso.
Una severità che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica nonché esasperato gli animi del Parlamento. Ma la colpa è dei giudici o della legge? Giovedì sera a Diritto e Rovescio su Rete 4 è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, il quale alla Verità non ha timore nel ribadire che «qualsiasi legge si può sempre migliorare, per carità. Questa legge mette in campo tutti gli elementi che, se valutati correttamente, portano ad escludere pressoché sempre la responsabilità dell’aggredito, salvo casi esorbitanti. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e in questo caso il mare è la magistratura», spiega Bignami, «ci sono giudici che, comprendendo il disposto di legge e lo spirito della stessa, la applicano in maniera conforme alla ratio legis e giudici che, invece, pur comprendendola, preferiscono ignorarla. Siccome questa è una legge che si ispira sicuramente a valori di destra come la difesa della vita, della famiglia, della proprietà privata e che, come extrema ratio, consente anche una risposta immediata in presenza di un pericolo imminente, certi giudici la applicano con una prospettiva non coerente con la sua finalità».
In questo caso la giustificazione di una reazione istintiva per proteggere la propria famiglia dai rapinatori non ha retto in aula. Ma oltre al rispetto della legge non è forse fondamentale anche l’etica nell’applicarla? «Su tante cose i giudici applicano le leggi sulla base delle proprie sensibilità, come in materia di immigrazione, per esempio», continua Bignami, «però ricordiamo che la legge deve essere ispirata da principi di astrattezza e generalità. Poi va applicata al caso concreto e lì vanno presi in esame tutti i fattori che connotano la condotta. L’articolo 52 parla di danno ingiusto, di pericolo attuale e proporzione tra difesa e offesa. Per pericolo attuale non si può intendere che sto lì con il cronometro a verificare se il rapinatore abbia finito di rapinarmi o se magari intenda tornare indietro con un fucile. Lo sai dopo se il pericolo è cessato e l’attualità non può essere valutata con il senno di poi. Ed anche il turbamento d’animo di chi viene aggredito non finisce con i rapinatori che escono dal negozio e chiudono la porta. Questo sentimento di turbamento è individuale e, secondo me, si riflette sulla proporzione. Vanno sempre valutate le condizioni soggettive e il vissuto della persona».
Merita ricordare, infatti, che Roggero aveva subito in passato altre 5 rapine oltre a quella in esame e che in una di quelle fu anche gonfiato di botte. La sua vita e quella della sua famiglia è compromessa, sia dal punto di vista psicologico che professionale. È imputato di omicidio volontario plurimo per aver ucciso i due rapinatori e tentato omicidio per aver ferito il terzo che faceva da palo. E sapete quanto si è preso quest’ultimo? Appena 4 anni e 10 mesi di reclusione.
La reazione emotiva del commerciante, la paura per l’incolumità dei familiari, sono attenuanti che non possono non essere considerate. Sono attimi di terrore tremendi. Se vedi tua figlia minacciata con una pistola, tua moglie trascinata e sequestrata, come minimo entri nel panico. «Intanto va detto quel che forse è così ovvio che qualcuno se n’è dimenticato: se i banditi fossero stati a casa loro, non sarebbe successo niente», prosegue Bignami, «poi penso che, se Roggero avesse avuto la certezza che quei banditi stavano fuggendo senza più tornare, non avrebbe reagito così. Lo ha fatto, come ha detto lui, perché non sapeva e non poteva immaginare se avessero davvero finito o se invece volessero tornare indietro. Facile fare previsioni a fatti già compiuti».
Ma anche i rapinatori hanno i loro diritti? «Per carità. Tutti i cittadini hanno i loro diritti ma se fai irruzione con un’arma in un negozio e minacci qualcuno, sei tu che decidi di mettere in discussione i tuoi diritti».
Sulla severità della pena e sul risarcimento faraonico, poi, Bignami è lapidario. «C’è una proposta di legge di Raffaele Speranzon, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, che propone di ridurre fino ad azzerare il risarcimento dovuto da chi è punito per eccesso colposo di legittima difesa».
Chi lavora e protegge la propria vita non può essere trattato come un criminale. La giustizia deve tornare a distinguere tra chi aggredisce e chi si difende.
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Ansa
La dinamica, ricostruita nelle perizie, avrebbe confermato che l’azione della ruspa aveva compromesso la struttura dell’edificio. Ma oltre a trovarsi davanti quel «mezzo di irresistibile forza», così è stata giuridicamente valutata la ruspa, si era messa di traverso pure la Procura, che aveva chiesto ai giudici di condannarlo a 4 anni di carcere. Ma ieri Sandro Mugnai, artigiano aretino accusato di omicidio volontario per essersi difeso, mentre ascoltava le parole del presidente della Corte d’assise si è messo le mani sul volto ed è scoppiato a piangere. Il fatto non sussiste: fu legittima difesa. «Finalmente faremo un Natale sereno», ha detto poco dopo, aggiungendo: «Sono stati anni difficili, ma ho sempre avuto fiducia nella giustizia. La Corte ha agito per il meglio». E anche quando la pm Laura Taddei aveva tentato di riqualificare l’accusa in eccesso colposo di legittima difesa, è prevalsa la tesi della difesa: Mugnai sparò perché stava proteggendo la sua famiglia da una minaccia imminente, reale e concreta. Una minaccia che avanzava a bordo di una ruspa. La riqualificazione avrebbe attenuato la pena, ma comunque presupponeva una responsabilità penale dell’imputato. Il caso, fin dall’inizio, era stato definito dai giuristi «legittima difesa da manuale». Una formula tanto scolastica quanto raramente facile da dimostrare in un’aula di Tribunale. La giurisprudenza richiede il rispetto di criteri stringenti: attualità del pericolo, necessità della reazione e proporzione. La sentenza mette un punto a un procedimento che ha riletto, passo dopo passo, la notte in cui l’albanese entrò nel piazzale di casa Mugnai mentre la famiglia era riunita per la cena dell’Epifania. Prima sfogò la ruspa sulle auto parcheggiate, poi diresse il mezzo contro l’abitazione, sfondando una parte della parete. La Procura ha sostenuto che, pur di fronte a un’aggressione reale e grave, l’esito mortale «poteva essere evitato». Il nodo centrale era se Mugnai avesse alternative non letali. Per la pm Taddei, quella reazione, scaturita da «banali ruggini» con il vicino, aveva superato il limite della proporzione. I difensori, gli avvocati Piero Melani Graverini e Marzia Lelli, invece, hanno martellato sul concetto di piena legittima difesa, richiamando il contesto: buio, zona isolata, panico dentro casa, il tutto precipitato «in soli sei minuti» nei quali, secondo gli avvocati, «non esisteva alcuna alternativa per proteggere i propri cari». Durante le udienze si è battuto molto sul fattore tempo ed è stata dimostrata l’impossibilità di fuga. Nel dibattimento sono stati ascoltati anche i familiari della vittima, costituiti parte civile e rappresentati dall’avvocato Francesca Cotani, che aveva chiesto la condanna dell’imputato. In aula c’era molta gente e anche la politica ha fatto sentire la sua presenza: la deputata della Lega Tiziana Nisini e Cristiano Romani, esponente del movimento Il Mondo al contrario del generale Roberto Vannacci. Entrambi si erano schierati pubblicamente con Mugnai. Nel paese c’erano anche state fiaccolate e manifestazioni di solidarietà per l’artigiano. Il fascicolo era passato attraverso momenti tortuosi: un primo giudice non aveva accolto la richiesta di condanna a 2 anni e 8 mesi e aveva disposto ulteriori accertamenti sull’ipotesi di omicidio volontario. Poi è stata disposta la scarcerazione di Mugnai. La fase iniziale è stata caratterizzata da incertezza e oscillazioni interpretative. E, così, alla lettura della sentenza l’aula è esplosa: lacrime, abbracci e applausi. Mugnai, commosso, ha detto: «Ho sparato per salvare la pelle a me e ai miei cari. Non potrò dimenticare quello che è successo, ora spero che possa cominciare una vita diversa. Tre anni difficili, pesanti». Detenzione preventiva compresa. «Oggi è un giorno di giustizia. Ma la battaglia non è finita», commenta Vannacci: «Mugnai ha fatto ciò che qualunque padre, marito, figlio farebbe davanti a un’aggressione brutale. È una vittoria di buon senso, ma anche un segnale, perché in Italia c’è ancora troppo da fare per difendere le vere vittime, quelle finite sotto processo solo perché hanno scelto di salvarsi la vita. E mentre oggi festeggiamo questo risultato, non possiamo dimenticare chi non ha avuto la stessa sorte: penso a casi come quello di Mario Roggero, il gioielliere piemontese condannato a 15 anni per aver difeso la propria attività da una rapina». «La difesa è sempre legittima e anche in questo caso, grazie a una legge fortemente voluta e approvata dalla Lega, una persona perbene che ha difeso se stesso e la sua famiglia non andrà in carcere, bene così», rivendica il segretario del Carroccio Matteo Salvini. «Questa sentenza dimostra come la norma sulla legittima difesa tuteli i cittadini che si trovano costretti a reagire di fronte a minacce reali e gravi», ha precisato il senatore leghista (componente della commissione Giustizia) Manfredi Potenti. La vita di Sandro Mugnai ricomincia adesso, fuori dall’aula. Ma con la consapevolezza che, per salvare se stesso e la sua famiglia, ha dovuto sparare e poi aspettare quasi tre anni perché qualcuno glielo riconoscesse.
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