2019-08-03
«Seguaci di Wojtyla trattati peggio degli eretici»
Parla Livio Melina il docente del centro Giovanni Paolo II fatto fuori da monsignor Vincenzo Paglia: «La sorte dell'Istituto è decisiva per la Chiesa. Mi accusano di “correggere" il Papa, ma non è vero. Verità e amore non si possono dividere».Sul quotidiano Avvenire è comparso ieri un articolo del giornalista Luciano Moia in risposta a una lettera inviata dai professori allontanati dal Gran cancelliere Vincenzo Paglia nella «ristrutturazione» del fu Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia. I professori lamentavano di essere inopinatamente tacciati di «attacchi a papa Francesco» e Moia nella sua risposta tiene il punto e dice che sono colpevoli di «correggere il Papa». Abbiamo chiesto al professor Livio Melina, già preside dell'Istituto ed ex professore ordinario di teologia morale fondamentale, cosa ne pensa.Professore, secondo Avvenire lei e altri colleghi, ora in vario modo allontanati, avete avuto l'abitudine di «correggere il Papa» in merito all'esortazione Amoris laetitia.«Chi parla così, probabilmente non conosce la differenza tra due parole diverse: “correggere" e “interpretare". Ogni testo ha bisogno di interpretazione, come ci ha insegnato in modo particolare la filosofia contemporanea. Ma l'interpretazione che cerca di essere fedele al testo non è una correzione. Una parte del lavoro teologico è proprio questa interpretazione, che nel caso del Magistero ha, come chiave, una lettura in sintonia con il resto dei testi magisteriali. Amoris laetitia, si potrebbe dire, non è un libro in sé, ma un capitolo di un grande libro, che contiene tutti i testi del Magistero. Chi pensa che l'interpretazione di un altro non è vera, deve offrire argomenti, e non accusare di fare una “correzione", poiché in questo caso ciò che sta facendo colui che accusa è assolutizzare la propria interpretazione, come se fosse l'unica lettura ovvia del testo. Inoltre, nel caso di Amoris laetitia molti hanno preso la strada di interpretarlo come se “superasse" o addirittura “correggesse" altri testi magisteriali, come Familiaris consortio, il Catechismo della Chiesa cattolica oppure Sacramentum caritatis. Parlare di “rottura" e di “rivoluzione" nel Magistero non è linguaggio cattolico. In realtà, c'è una grande libertà nell'interpretare i testi, l'unica vera norma è quella di rispettare la “regola di fede". In altre parole, la cosa essenziale, che si chiede all'interprete, è che legga il testo in continuità con il resto del Magistero anteriore». C'è qui la questione dello «sviluppo della dottrina».«Sì, lo sapeva bene il cardinale Newman, quando determinò come una delle note di un vero sviluppo della dottrina (opposto a una sua corruzione), proprio l'effetto conservativo sul passato. Moia pensa che noi forziamo il testo di Amoris laetitia per adattarlo al resto del Magistero. Ciò che Moia non ci spiega è il modo in cui egli deve forzare (correggere?) il resto del Magistero pontificio per adattarlo alla sua lettura di Amoris laetitia».A proposito di contestazioni, si parla tanto di libertà di riflessione teologica (largamente praticata in dissenso alle encicliche Humanae vitae e Veritatis splendor), ma nel vostro caso vi sentite censurati?«Quello che si è fatto all'Istituto con vari professori è una condanna senza giudizio, a partire dai sospetti seminati durante questi anni da parte di persone come Moia. C'è in tutto questo un paradosso. Alcuni teologi del dissenso alla teologia morale cattolica, che si opponevano chiaramente al Magistero, hanno ricevuto un divieto di insegnare, ma questo è avvenuto dopo un regolare processo, in cui si assegnava loro un difensore e c'era la possibilità di replicare alle accuse. E anche così essi hanno continuato ad accusare la Congregazione per la dottrina della fede di un comportamento ingiusto e abusivo. Nel caso dei professori dell'Istituto Giovanni Paolo II l'accusa non è quella di negare la dottrina cattolica, ma solo di non seguire un'interpretazione determinata del Magistero di papa Francesco. Ma, soprattutto, siamo stati privati della nostra cattedra senza possibilità alcuna di difenderci. Il quotidiano Avvenire ha avuto il merito di mettere in luce le vere ragioni del nostro licenziamento, che non ci erano state comunicate, e così ha smascherato la manovra che si vuole portare a termine all'Istituto fondato da san Giovanni Paolo II».Mi pare di capire che secondo voi questa «ristrutturazione» cela un problema importante. «Infatti crediamo che la difesa dell'Istituto Giovanni Paolo II tocca tutti, e la sorte dell'Istituto è decisiva per la Chiesa. Se non si revocano le decisioni prese da monsignor Paglia, allora si sta dicendo: “È intollerabile nella Chiesa quell'interpretazione del Magistero di papa Francesco che è in continuità con il Magistero anteriore". Anzi, chi fa quest'interpretazione perde perfino il diritto a difendersi in un processo, è semplicemente allontanato, secondo una particolare versione di quella “cultura dello scarto", tante volte condannata dallo stesso papa Francesco». Moia scrive che il vostro errore nel «correggere il Papa» sarebbe quello di dare una priorità alla dottrina rispetto alla pastorale.«È abbastanza comune oggi questo approccio, che separa il Cristo “Maestro" dal Cristo “Pastore", come se ci fossero due Gesù. Ma la misericordia di Gesù e la sua pastorale passavano tramite la sua dottrina. Il rapporto tra dottrina e pastorale è stato studiato nella tradizione dell'Istituto Giovanni Paolo II nella prospettiva del rapporto tra verità e amore. La verità, contenuta nella dottrina, è la verità di un amore, e l'amore ha bisogno di verità per superare la mera emozione e durare nel tempo, come ci ha insegnato anche papa Francesco in Lumen fidei».Con insistenza si ripete che il vecchio Istituto e la pastorale che scaturiva dal magistero di Giovanni Paolo II fosse fredda e lontana dalle ferite dell'uomo. «Tutta la visione di san Giovanni Paolo II nasce da una vicinanza estrema alla situazione dell'uomo. E questo vuol dire, certo, vicinanza alle sue ferite. Ma vuol dire, soprattutto, vicinanza all'esperienza più originaria dell'uomo, che non è quella di essere ferito, ma di essere amato da Dio e da lui reso capace di una risposta di amore. La distinzione non è tra chi vede le ferite e chi vede solo fredde dottrine. La distinzione sta invece tra chi vede solo le ferite e, data l'impotenza dell'uomo di farcela da solo, cerca di giustificarlo, da una parte; e chi vede, insieme e prima delle ferite, la grande chiamata di Dio all'uomo e la capacità che l'uomo ha di essere redento da Dio. Da qui scaturiscono due modi di fare pastorale, che sono in contrasto radicale, perché il primo, vedendo solo le ferite insuperabili, cerca di tollerarle: misura l'uomo a partire dalla sua debolezza e dalla caduta; e l'altro modo che, vedendo la grande chiamata di Dio, cerca di far maturare l'uomo perché sia capace di una risposta di amore».Secondo quello che viene definito «nuovo paradigma» della teologia morale presente in Amoris laetitia si aprirebbe finalmente alla logica del cosiddetto «bene possibile». Può fare un esempio?«Prendo quello usato dal professor Maurizio Chiodi qualche giorno fa, proprio in un'intervista di Luciano Moia. Lì si dice che la vita all'interno di una coppia omosessuale potrebbe essere per una persona in determinate circostanze un bene possibile. La dottrina della Chiesa insegna invece che si tratta di un male, di qualcosa che danneggia la persona che lo compie e lo porta sempre più verso il male. Non si tratta di un contrasto tra due visioni, di cui una sarebbe pastorale e l'altra dottrinale. Si tratta piuttosto di due diagnosi di una situazione, due diagnosi che si aprono a terapie molto diverse. Secondo la prima si potrebbe dire che questa persona, pur compiendo atti omosessuali, sta vivendo secondo il volere di Dio, il quale non ci chiede di più di ciò che possiamo. Gli atti che realizza sarebbero umanizzanti, porterebbero addirittura verso il Vangelo, anche se a un certo punto dovrà rendersi conto che non sono atti perfetti, e che c'è un cammino migliore. La dottrina cattolica, insegnando che si tratta di atti intrinsecamente cattivi, propone una diagnosi e di conseguenza una terapia diversa. Questi atti omosessuali non sono ordinabili a Dio, e quindi non portano verso il bene della persona. Allo stesso tempo dice: ma in te risuona sempre la chiamata a un amore vero, e tu puoi seguire quest'amore, e io sono qui per accompagnarti in questa via di conversione, che ti domanda di lasciare dietro di te il male e di abbracciare il bene».
Nel riquadro: Ferdinando Ametrano, ad di CheckSig (IStock)
Francesca Albanese (Ansa)