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2025-01-20
Guida alle tribù della Libia e alle mosse dei russi con Haftar
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Khalifa Haftar (Getty Images)
La Libia è il perfetto esempio dei gravi errori internazionali commessi da Stati Uniti e Francia nel continente africano. Nel 2011 l’onda lunga di quella che troppo ottimisticamente la stampa aveva definito Primavere arabe, aveva raggiunto anche la Libia dove dal 1969 governava Muammar Gheddafi. Dopo aver travolto Ben Ali in Tunisia e Hosni Mubarak in Egitto, questo movimento puntava a rovesciare il colonnello Gheddafi seguendo un preciso piano che voleva detronizzare uno storico nemico degli Stati Uniti e prendere il controllo dei più grandi giacimenti di petrolio del Mediterraneo. Gheddafi governava il suo paese con la violenza e il terrore, ma il suo sistema aveva creato una serie di equilibri regionali che coinvolgevano tutta l’Africa centrale. Il presidente francese Nicolas Sarkozy fu uno dei più accesi e interessati promotori dell’intervento militare in Libia e diede ordine di bombardare Bengasi addirittura prima che le Nazioni unite organizzassero una internazionale. Proprio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite diversi ministri degli Esteri africani come Mali e Niger chiesero che la Libia non fosse attaccata, ben consapevoli di cosa avrebbe significato il crollo dell’odioso regime di Gheddafi. Dal marzo all’ottobre del 2011 la guerra civile continuò nel Paese arabo fino alla morte di Gheddafi. La Francia aveva anche impedito al colonnello libico di scappare in Ciad bombardando il suo convoglio diretto a Sud, timorosa che anche dall’estero potesse avere influenza sulla politica interna.
La caduta di Gheddafi, come era facile intuire, ebbe subito conseguenze come la guerra civile in Mali, dove erano arrivate tutte le armi del regime libico ed erano rientrati i mercenari tuareg che avevano combattuto in difesa del vecchio governo e che ancora oggi combattono per l’indipendenza del Nord. Intanto la francese Total aveva preso il controllo della maggioranza dei giacimenti libici spesso estromettendo l’italiana Eni, mentre al Qaeda dilagava nel paese arrivando a uccidere l’ambasciatore americano Christopher Stevens nell’assalto al consolato statunitense di Bengasi nel settembre del 2012. Nella primavera del 2014 la Libia si spaccava a metà quando il generale Khalifa Haftar in una specie di colpo di stato attaccò le milizie islamiste e prese il controllo di Bengasi, mentre i suoi alleati delle milizie Zintan assaltavano il parlamento di Tripoli per chiederne la dissoluzione. Nuove e difficili elezioni aumentavano la spaccatura con un governo vicino agli islamisti di Alba Libica che dominava a Tripoli e Misurata e un altro riconosciuto dall’Onu che sceglieva come sede Tobruk. Al fianco degli islamisti arrivano rinforzi dagli Emirati Arabi che attaccarono l’aeroporto internazionale di Tripoli per strapparlo ai miliziani di Haftar, ma senza successo. Nel 2015 fece la sua comparsa in Libia anche lo Stato Islamico prendendo il controllo di Derna e Sirte, subito bombardate dall’aviazione egiziana, alleata di Haftar e con forti interessi nell’est libico. La battaglia dilaga in tutto il paese con i Tuareg che si alleano con Tripoli e attaccano le tribù Tebu del Fezzan, che combattevano per Haftar. I guerrieri blu del deserto strappano ai Tebu alcuni grandi giacimenti e il controllo dei posti di frontiera, costringendo l’esercito di Haftar a intervenire direttamente con rinforzi emiratini a sauditi. Nel 2016 nasceva un nuovo governo con sede a Tunisi, visto che la capitale Tripoli restava un campo di battaglia, ma Tobruk continuava ad amministrare la Cirenaica. Dal 2016 nell’Est erano arrivati i mercenari russi del Wagner Group per supportare l’esercito di Haftar rifornendolo di armi. Il governo di Tobruk ospita anche consiglieri militari di Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto, creando così un cartello di alleanze che permettono di arrivare a controllare circa il 60% del territorio libico.
Ma il domino internazionale si complica nel 2017 quando Qatar e Turchia scendono in campo affiancando il debole governo della Tripolitania, mentre la Francia apre un canale di comunicazione con Haftar ignorando le indicazioni delle Nazioni unite che continuano a riconoscere il governo di Tripoli. I francesi cercano un accordo perché ormai il 55% della produzione petrolifera libica è sotto il controllo di Tobruk e sono loro a sostenere con l’aviazione tutte le operazioni militari di Haftar nel sud della Libia. Nel 2019 Tripoli concede lo sfruttamento di alcuni giacimenti alla Turchia che inizia a inviare in Libia mercenari siriani e armi. Nel dicembre dello stesso anno il generale Haftar marcia su Tripoli per conquistare la capitale, ma a Istanbul la Russia, ferrea alleata di Tobruk e la Turchia firmano un accordo che eviti la caduta di Tripoli e lo scontro russo-turco. I colloqui di pace falliscono per tutto il 2020 e il 2021, mentre la Libia resta divisa in due con partner e padrini internazionali che non sembrano avere troppa fretta di riappacificare il grande paese nordafricano.
La divisione della Libia ha motivazioni economiche, geopolitiche, ma anche religiose. A Tripoli Qatar e Turchia permettono a milizie vicine alla Fratellanza Musulmana di dominare città e province, mentre a Est gruppi salafiti ottengono soldi e appoggio da Emirati e Arabia Saudita, con l’Egitto che li appoggia in funziona anti Fratelli Musulmani, i grandi nemici del presidente egiziano al- Sisi.
«Non siamo qui per svendere il nostro Paese alla Russia»
Essam Abu Zariba, ministro degli Interni del governo di Tobruk
Il rapido crollo del regime di Bashar al-Assad ha ridisegnato gli equilibri geopolitici del Medioriente e del Mediterraneo. La Russia aveva ottenuto dalla Siria una base navale a Tartus e l’aeroporto militare di Hmeimim e grazie a questi due fondamentali infrastrutture aveva creato la flotta del Mediterraneo utilizzando la Siria come trampolino di lancio verso i Paesi africani dove Mosca ha enormi interessi. Il nuovo governo di Damasco guidato dall’ex qaedista Ahmed al-Shara non ha imposto ai russi di abbandonare le basi, parlando di un possibile accordo, ma su spinta della Turchia ha fatto già capire che la Russia non è più gradita.
Mosca ha subito guardato alla Libia, dove dal 2016 sono presenti i miliziani dell’ex Wagner Group, ridenominato Africa Corps. La Libia dal 2014 è spaccata a metà fra il governo di Tripoli che amministra la capitale e le province limitrofe guidato da Abdul Hamid Dbeibah e riconosciuto dalle Nazioni unite e il governo della Libia orientale che ha la sede del suo parlamento a Tobruk e che vede in Mosca il suo principale alleato. Il governo di Tobruk è in mano al generale Khalifa Haftar che grazie al suo esercito privato ne garantisce la sopravvivenza. Mosca vanta consolidati e proficui accordi proprio con il generale Haftar che negli anni ha concesso ai russi alcune basi sia nel Fezzan, regione meridionale in mano a tribù fedeli, che nella Cirenaica centrale che sono diventati hub strategici per Mosca per rifornire e controllare gli stati golpisti del Sahel dove dal 2020 una serie di colpi di stato hanno consegnato Mali, Burkina Faso e Niger nelle mani dell’ex Wagner Group. Ora però la Russia ha bisogno di una presenza molto più imponente nel Paese nordafricano e i satelliti americani hanno già immortalato aerei cargo e navi container fare la spola dalla Siria alla Libia trasportando l’intero arsenale russo. Il ruolo libico nel nuovo scacchiere mediterraneo ha già messo in allarme l’Europa e soprattutto l’Italia che potrebbe ritrovarsi la flotta russa a poche centinaia di miglia. Abdul Hamid Dbeibah, premier del governo di Tripoli, ha attaccato gli omologhi di Tobruk. «Nessun vero patriota libico permetterebbe a un Paese straniero di diventare padrone di porti e aeroporti, senza una accordo alla luce del sole. Noi combatteremo questa ingerenza e la cacceremo dal suolo libico. Abbiamo convocato l’ambasciatore russo per sapere se è vero che si stanno spostando in Cirenaica, ma non abbiamo avuto nessuna risposta ufficiale. Il falso e illegittimo governo di Tobruk deve rassegnarsi ad accettare la riunificazione per il bene del popolo libico».
Tutto mentre rimbalzano voci sull’arrivo di cacciabombardieri russi nella base libica di al-Khadim diventando una minacciosa spina nel fianco Sud della Nato che potrebbe aumentare la sua presenza nell’area con esercitazioni e pattugliamenti con il crescente rischio di «incidente».
Essam Abu Zariba è il ministro degli Interni del governo di Tobruk ed è un politico giovane e rispettato dalle tribù. «Voglio ribadire con forza che il nostro governo difende gli interessi nazionali e che la Nazioni unite devono smettere di appoggiare l’illegittimo governo di Tripoli. L’Onu sta facendo grandi pressioni politiche per portare dalla loro parte molti uomini politici locali, ma sono false promesse e devono lasciare la Libia ai libici. Il nostro esecutivo lavora con molti governi e abbiamo riallacciato rapporti anche con la Turchia che ha inviato un ambasciatore e ha ripreso i voli da Istanbul. Nego che dietro ai cambi ai vertici militari ci siano pressioni da parte dei russi, il comandante del nostro esercito generale Haftar ha ottimi rapporti con Mosca, ma è rispettato da tutti i Paesi. Noi vogliamo lavorare con tutti e i russi sono un ottimo partner da molti anni, alcune aziende di Mosca stanno ammodernando il porto di Tobruk e sono tanti gli imprenditori nel settore petrolifero che lavorano in Libia. Noi non siamo qui per svendere il nostro Paese alla Russia, lavoriamo da pari a pari e rifiutiamo le pressioni internazionali che vogliono scegliere con chi possiamo avere rapporti. I porti della Cirenaica restano sotto controllo libico così come i passi di frontiera amministrati da tribù alleate del nostro governo. Si tratta di propaganda di Tripoli per screditarci, ma il popolo sa riconoscere i veri patrioti».
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Riduci
I gravi errori commessi in primis dalla Francia nel Paese nordafricano hanno spalancato le porte a Mosca. Che ora, dopo la caduta di Bashar al-Assad in Siria, punta sull'alleanza con il generale che guida il governo di Tobruk per consolidare la propria leadership nel continente africano, dove il Cremlino ha enormi interessi.Il ministro degli Interni del governo di Tobruk, Essam Abu Zariba: «Noi non siamo qui per svendere il nostro Paese alla Russia, lavoriamo da pari a pari e rifiutiamo le pressioni internazionali che vogliono scegliere con chi possiamo avere rapporti. Si tratta di propaganda di Tripoli per screditarci, ma il popolo sa riconoscere i veri patrioti».Lo speciale contiene due articoli.La Libia è il perfetto esempio dei gravi errori internazionali commessi da Stati Uniti e Francia nel continente africano. Nel 2011 l’onda lunga di quella che troppo ottimisticamente la stampa aveva definito Primavere arabe, aveva raggiunto anche la Libia dove dal 1969 governava Muammar Gheddafi. Dopo aver travolto Ben Ali in Tunisia e Hosni Mubarak in Egitto, questo movimento puntava a rovesciare il colonnello Gheddafi seguendo un preciso piano che voleva detronizzare uno storico nemico degli Stati Uniti e prendere il controllo dei più grandi giacimenti di petrolio del Mediterraneo. Gheddafi governava il suo paese con la violenza e il terrore, ma il suo sistema aveva creato una serie di equilibri regionali che coinvolgevano tutta l’Africa centrale. Il presidente francese Nicolas Sarkozy fu uno dei più accesi e interessati promotori dell’intervento militare in Libia e diede ordine di bombardare Bengasi addirittura prima che le Nazioni unite organizzassero una internazionale. Proprio al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite diversi ministri degli Esteri africani come Mali e Niger chiesero che la Libia non fosse attaccata, ben consapevoli di cosa avrebbe significato il crollo dell’odioso regime di Gheddafi. Dal marzo all’ottobre del 2011 la guerra civile continuò nel Paese arabo fino alla morte di Gheddafi. La Francia aveva anche impedito al colonnello libico di scappare in Ciad bombardando il suo convoglio diretto a Sud, timorosa che anche dall’estero potesse avere influenza sulla politica interna.La caduta di Gheddafi, come era facile intuire, ebbe subito conseguenze come la guerra civile in Mali, dove erano arrivate tutte le armi del regime libico ed erano rientrati i mercenari tuareg che avevano combattuto in difesa del vecchio governo e che ancora oggi combattono per l’indipendenza del Nord. Intanto la francese Total aveva preso il controllo della maggioranza dei giacimenti libici spesso estromettendo l’italiana Eni, mentre al Qaeda dilagava nel paese arrivando a uccidere l’ambasciatore americano Christopher Stevens nell’assalto al consolato statunitense di Bengasi nel settembre del 2012. Nella primavera del 2014 la Libia si spaccava a metà quando il generale Khalifa Haftar in una specie di colpo di stato attaccò le milizie islamiste e prese il controllo di Bengasi, mentre i suoi alleati delle milizie Zintan assaltavano il parlamento di Tripoli per chiederne la dissoluzione. Nuove e difficili elezioni aumentavano la spaccatura con un governo vicino agli islamisti di Alba Libica che dominava a Tripoli e Misurata e un altro riconosciuto dall’Onu che sceglieva come sede Tobruk. Al fianco degli islamisti arrivano rinforzi dagli Emirati Arabi che attaccarono l’aeroporto internazionale di Tripoli per strapparlo ai miliziani di Haftar, ma senza successo. Nel 2015 fece la sua comparsa in Libia anche lo Stato Islamico prendendo il controllo di Derna e Sirte, subito bombardate dall’aviazione egiziana, alleata di Haftar e con forti interessi nell’est libico. La battaglia dilaga in tutto il paese con i Tuareg che si alleano con Tripoli e attaccano le tribù Tebu del Fezzan, che combattevano per Haftar. I guerrieri blu del deserto strappano ai Tebu alcuni grandi giacimenti e il controllo dei posti di frontiera, costringendo l’esercito di Haftar a intervenire direttamente con rinforzi emiratini a sauditi. Nel 2016 nasceva un nuovo governo con sede a Tunisi, visto che la capitale Tripoli restava un campo di battaglia, ma Tobruk continuava ad amministrare la Cirenaica. Dal 2016 nell’Est erano arrivati i mercenari russi del Wagner Group per supportare l’esercito di Haftar rifornendolo di armi. Il governo di Tobruk ospita anche consiglieri militari di Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto, creando così un cartello di alleanze che permettono di arrivare a controllare circa il 60% del territorio libico.Ma il domino internazionale si complica nel 2017 quando Qatar e Turchia scendono in campo affiancando il debole governo della Tripolitania, mentre la Francia apre un canale di comunicazione con Haftar ignorando le indicazioni delle Nazioni unite che continuano a riconoscere il governo di Tripoli. I francesi cercano un accordo perché ormai il 55% della produzione petrolifera libica è sotto il controllo di Tobruk e sono loro a sostenere con l’aviazione tutte le operazioni militari di Haftar nel sud della Libia. Nel 2019 Tripoli concede lo sfruttamento di alcuni giacimenti alla Turchia che inizia a inviare in Libia mercenari siriani e armi. Nel dicembre dello stesso anno il generale Haftar marcia su Tripoli per conquistare la capitale, ma a Istanbul la Russia, ferrea alleata di Tobruk e la Turchia firmano un accordo che eviti la caduta di Tripoli e lo scontro russo-turco. I colloqui di pace falliscono per tutto il 2020 e il 2021, mentre la Libia resta divisa in due con partner e padrini internazionali che non sembrano avere troppa fretta di riappacificare il grande paese nordafricano.La divisione della Libia ha motivazioni economiche, geopolitiche, ma anche religiose. A Tripoli Qatar e Turchia permettono a milizie vicine alla Fratellanza Musulmana di dominare città e province, mentre a Est gruppi salafiti ottengono soldi e appoggio da Emirati e Arabia Saudita, con l’Egitto che li appoggia in funziona anti Fratelli Musulmani, i grandi nemici del presidente egiziano al- Sisi.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/libia-russia-haftar-2670894759.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="non-siamo-qui-per-svendere-il-nostro-paese-alla-russia" data-post-id="2670894759" data-published-at="1737390409" data-use-pagination="False"> «Non siamo qui per svendere il nostro Paese alla Russia» Essam Abu Zariba, ministro degli Interni del governo di Tobruk Il rapido crollo del regime di Bashar al-Assad ha ridisegnato gli equilibri geopolitici del Medioriente e del Mediterraneo. La Russia aveva ottenuto dalla Siria una base navale a Tartus e l’aeroporto militare di Hmeimim e grazie a questi due fondamentali infrastrutture aveva creato la flotta del Mediterraneo utilizzando la Siria come trampolino di lancio verso i Paesi africani dove Mosca ha enormi interessi. Il nuovo governo di Damasco guidato dall’ex qaedista Ahmed al-Shara non ha imposto ai russi di abbandonare le basi, parlando di un possibile accordo, ma su spinta della Turchia ha fatto già capire che la Russia non è più gradita.Mosca ha subito guardato alla Libia, dove dal 2016 sono presenti i miliziani dell’ex Wagner Group, ridenominato Africa Corps. La Libia dal 2014 è spaccata a metà fra il governo di Tripoli che amministra la capitale e le province limitrofe guidato da Abdul Hamid Dbeibah e riconosciuto dalle Nazioni unite e il governo della Libia orientale che ha la sede del suo parlamento a Tobruk e che vede in Mosca il suo principale alleato. Il governo di Tobruk è in mano al generale Khalifa Haftar che grazie al suo esercito privato ne garantisce la sopravvivenza. Mosca vanta consolidati e proficui accordi proprio con il generale Haftar che negli anni ha concesso ai russi alcune basi sia nel Fezzan, regione meridionale in mano a tribù fedeli, che nella Cirenaica centrale che sono diventati hub strategici per Mosca per rifornire e controllare gli stati golpisti del Sahel dove dal 2020 una serie di colpi di stato hanno consegnato Mali, Burkina Faso e Niger nelle mani dell’ex Wagner Group. Ora però la Russia ha bisogno di una presenza molto più imponente nel Paese nordafricano e i satelliti americani hanno già immortalato aerei cargo e navi container fare la spola dalla Siria alla Libia trasportando l’intero arsenale russo. Il ruolo libico nel nuovo scacchiere mediterraneo ha già messo in allarme l’Europa e soprattutto l’Italia che potrebbe ritrovarsi la flotta russa a poche centinaia di miglia. Abdul Hamid Dbeibah, premier del governo di Tripoli, ha attaccato gli omologhi di Tobruk. «Nessun vero patriota libico permetterebbe a un Paese straniero di diventare padrone di porti e aeroporti, senza una accordo alla luce del sole. Noi combatteremo questa ingerenza e la cacceremo dal suolo libico. Abbiamo convocato l’ambasciatore russo per sapere se è vero che si stanno spostando in Cirenaica, ma non abbiamo avuto nessuna risposta ufficiale. Il falso e illegittimo governo di Tobruk deve rassegnarsi ad accettare la riunificazione per il bene del popolo libico».Tutto mentre rimbalzano voci sull’arrivo di cacciabombardieri russi nella base libica di al-Khadim diventando una minacciosa spina nel fianco Sud della Nato che potrebbe aumentare la sua presenza nell’area con esercitazioni e pattugliamenti con il crescente rischio di «incidente».Essam Abu Zariba è il ministro degli Interni del governo di Tobruk ed è un politico giovane e rispettato dalle tribù. «Voglio ribadire con forza che il nostro governo difende gli interessi nazionali e che la Nazioni unite devono smettere di appoggiare l’illegittimo governo di Tripoli. L’Onu sta facendo grandi pressioni politiche per portare dalla loro parte molti uomini politici locali, ma sono false promesse e devono lasciare la Libia ai libici. Il nostro esecutivo lavora con molti governi e abbiamo riallacciato rapporti anche con la Turchia che ha inviato un ambasciatore e ha ripreso i voli da Istanbul. Nego che dietro ai cambi ai vertici militari ci siano pressioni da parte dei russi, il comandante del nostro esercito generale Haftar ha ottimi rapporti con Mosca, ma è rispettato da tutti i Paesi. Noi vogliamo lavorare con tutti e i russi sono un ottimo partner da molti anni, alcune aziende di Mosca stanno ammodernando il porto di Tobruk e sono tanti gli imprenditori nel settore petrolifero che lavorano in Libia. Noi non siamo qui per svendere il nostro Paese alla Russia, lavoriamo da pari a pari e rifiutiamo le pressioni internazionali che vogliono scegliere con chi possiamo avere rapporti. I porti della Cirenaica restano sotto controllo libico così come i passi di frontiera amministrati da tribù alleate del nostro governo. Si tratta di propaganda di Tripoli per screditarci, ma il popolo sa riconoscere i veri patrioti».
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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