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2021-12-17
Le elezioni di Tripoli stanno per saltare. La guerra tra milizie è sempre più vicina
(Getty Images)
Il destino delle elezioni in Libia è appeso a un filo, mentre le tensioni continuano a sconvolgere il Paese. La commissione elettorale libica ha posticipato, sabato scorso, la pubblicazione della lista definitiva dei candidati presidenziali. Inoltre, l’altro ieri, gruppi armati hanno circondato l’ufficio del premier a Tripoli, come protesta contro la decisione del Consiglio presidenziale di rimuovere il generale Abdel Basset Marwan dall’incarico di comandante del distretto militare della capitale. In tutto questo, si sono anche registrati degli scontri a Sebha. Frattanto i punti interrogativi restano numerosi.
La prima incognita riguarda la candidatura del figlio di Muammar Gheddafi, Saif al-Islam. «Per quel che ho conosciuto Saif al-Islam», ha detto alla Verità Alberto Michelini, rappresentante personale in Libia dell’allora premier Silvio Berlusconi tra il 2001 e il 2006, «il secondogenito di Gheddafi potrebbe veramente essere il protagonista delle elezioni in Libia. Giovane, risoluto, laurea in architettura, phd alla London school of economics, l’ho incontrato diverse volte a Roma e in Libia come rappresentante personale del presidente del Consiglio. Saif è l’unico capace di riunire le potenti tribù che sostenevano il regime di suo padre. Quanto a Gheddafi infatti, dopo anni di devastante guerra civile, le varie componenti libiche, nonostante le differenze, guardano con nostalgia al passato regime e al figlio del leader libico come all’uomo della riconciliazione».
Del fatto che il figlio del defunto rais abbia chance di vittoria, si è detto convinto anche Thomas Volk, direttore del Regional program political dialogue south Mediterranean presso la Konrad-Adenauer-Stiftung, che alla Verità ha dichiarato: «Molti in Libia sostengono Saif al-Islam: si tratta soprattutto di sostenitori di Gheddafi, ma anche di coloro che sono delusi dagli esiti della rivoluzione, oltre che di giovani libici che lo vedono come loro unico rappresentante, essendo il candidato più giovane». «Sebbene la Libia meridionale sia pesantemente controllata dalle forze del generale Khalifa Haftar, il fatto che gli abbiano dato un accesso sicuro alla commissione elettorale ci dice molto. Una spiegazione di ciò è che la Russia sostiene, o meglio, scommette sia su Saif al Islam che su Haftar», ha aggiunto.
E proprio i tortuosi rapporti tra Russia e Turchia incombono sulle elezioni libiche del 24 dicembre. Dopo il reinserimento di Saif e Haftar nella competizione elettorale, Putin si era mostrato favorevole a sostenere il calendario prefissato. Tutto questo, sebbene il suo ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, non abbia escluso un rinvio nelle ultime ore. Un rinvio che sembra invece essere decisamente caldeggiato da Ankara. Non a caso, a favore di una posticipazione si sono detti il Daily Sabah (quotidiano turco considerato vicino a Erdogan) e l’Alto consiglio di stato libico, organo presieduto da Khalid al-Mishri, membro del Partito della giustizia e dello sviluppo, formazione politica legata ai Fratelli musulmani e quindi in buoni rapporti con la Turchia. Quella stessa Turchia che probabilmente guarda comunque con un certo favore alla candidatura dell’attuale premier libico, Abdul Hamid Dbeibeh, il quale - secondo quanto riferito a marzo da Al Jazeera - risulterebbe vicino alla Fratellanza.
Intanto ieri un membro della commissione elettorale, Abu Bakr Marada, ha dichiarato che è impossibile tenere le elezioni alla data fissata. Il rinvio si fa quindi sempre più probabile. «Gli ultimi giorni hanno visto l’ulteriore disfacimento del processo politico libico che, a meno di 10 giorni dalla data del 24 dicembre, rende lo svolgimento delle elezioni nella migliore delle ipotesi improbabile», ha detto alla Verità Oliver Crowley, socio fondatore di Libya Desk. «Diverse fazioni libiche, con il supporto dei rispettivi sostenitori esterni, stanno cercando di formare alleanze per prendere il potere in uno scenario in cui le elezioni vengano cancellate del tutto. In tale contesto, anche se un conflitto su larga scala rimane improbabile, potremmo vedere schermaglie a livello locale che destabilizzerebbero ulteriormente il Paese».
Un’altra incognita riguarda il ruolo di Parigi, che un tempo spalleggiava il generale della Cirenaica. «Sebbene la Francia si sia schierata con Haftar negli anni del governo di accordo nazionale, le cose potrebbero essere diverse ora per i calcoli francesi. La riapertura dell’ambasciata francese a Tripoli potrebbe essere percepita come un passaggio a un nuovo capitolo», ha sottolineato Volk. «Haftar d’altra parte», ha aggiunto, «è apertamente sostenuto dall’Egitto per ovvie ragioni geopolitiche, ma soprattutto per ragioni ideologiche. Il presidente Sisi trarrebbe sicuramente beneficio da un governo militare della porta accanto». A tal proposito, è bene tuttavia notare che Emmanuel Macron ha consolidato notevolmente i rapporti con Sisi, anche in occasione della conferenza sulla Libia, tenutasi a Parigi il mese scorso.
Il rischio di doppiogiochismo da parte della Francia non può quindi essere escluso. «Macron non è Sarkozy», ha notato Michelini, «ma la Francia ha sempre perseguito una politica internazionale pro domo sua. Per cui, nonostante la recuperata credibilità dell’Italia grazie a Draghi, peraltro in ottimi rapporti con il presidente francese, terrei gli occhi ben aperti».
I migranti assediano le nostre coste. Le Ong lavorano a «pieno regime»
La tregua concessa dal meteo ha dato nuovo impulso all’assalto delle coste meridionali, con 227 sbarcati in un solo giorno tra Sicilia, Sardegna e Puglia. A Lampedusa in 24 ore sono approdati in 144. In giornata, con tre approdi autonomi, sono sbarcati 57, 17 e 24 tunisini. Si aggiungono ai 46 scesi al molo durante la notte, tra i quali c’erano anche un passeggero con gravi ustioni da combustibile e un disabile, entrambi curati nel Poliambulatorio lampedusano.
L’hotspot di Contrada Imbriacola, che era ormai quasi vuoto, ora ospita 164 persone. In Sardegna, invece, gli algerini hanno preso di mira il Sulcis: ieri ne sono sbarcati 65. I primi 14 sono stati intercettati all’alba a bordo di un barchino da una motovedetta del Reparto operativo aeronavale della Guardia di finanza a circa 35 miglia dalle coste dell’Isola. Sono stati trasportati al porto di Sant’Antioco. Un altro barchino con undici passeggeri è approdato in mattinata. Nel corso del pomeriggio, invece, sempre a Sant’Antioco, ne sono sbarcati altri undici. I carabinieri, infine, ne hanno intercettati 19 mentre si allontanavano dalla spiaggia di Porto Pino, nel territorio di Sant'Anna Arresi. Sono finiti tutti nel centro di prima accoglienza di Monastir, in provincia di Cagliari, per la quarantena.
La terza rotta scelta dagli scafisti trafficanti di esseri umani è quella del Salento. Ieri le forze dell’ordine hanno rintracciato a Nardò, in provincia di Lecce, 18 stranieri. Erano già approdati con una barca a vela e stavano cercando di far perdere le loro tracce nelle vicinanze del porticciolo di Santa Maria al Bagno. Altri tre, che erano riusciti a fuggire, sono stati rintracciati a poca distanza. Sono scesi con tutta calma, dopo aver calato in mare un piccolo tender, col quale hanno fatto più viaggi per arrivare a riva. Sono tutti turchi, partiti da Smirne. Nel pomeriggio sono stati trasferiti nel centro di accoglienza Don Tonino Bello di Otranto.
Ci sono state partenze anche dalla costa libica, dove mercoledì, al confine con la tunisia, si è verificato un naufragio con un morto. I sopravvissuti, recuperati dalla Guardia costiera tunisina, sono 78, quasi tutti provenienti da Egitto e Bangladesh. Ma le ricerche di altri dispersi sono ancora in corso. La Ocean viking, invece, ieri mattina ne ha caricati 114 che si trovavano su un gommone in acque territoriali libiche. La nave della tedesca Sea eye, sempre a largo della Libia, ne ha recuperati 126. Ed è facile prevedere che nelle prossime ore, dopo aver fatto il solito giro per le coste maltesi, punteranno verso l’Italia.
La Calabria ieri è stata l’unica meta d’approdo risparmiata dagli scafisti. Lì gli hotspot non sono ancora completamente vuoti, dopo gli assalti di ottobre e novembre. E mentre vanno avanti le inchieste sugli scafisti, è arrivata anche la condanna di un poliziotto dell’ufficio immigrazione della Questura di Crotone (Salvatore Panciotto è stato condannato a 5 anni e 10 mesi di reclusione) e di un funzionario della Prefettura (Gennaro Mazza a 4 anni e 2 mesi) che, secondo l’accusa, avrebbero favorito l’immigrazione clandestina. Entrambi hanno scelto il rito abbreviato nel procedimento denominato Ikaros, che vede coinvolti anche avvocati e pubblici ufficiali e che ha fatto luce su un intreccio di condotte illecite finalizzate a favorire l’ingresso e la permanenza di clandestini nel territorio italiano.
Si è scoperto che gli immigrati senza requisiti riuscivano a ottenere la protezione internazionale per poi lasciare l’Italia e raggiungere altri Paesi europei.
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Formalmente si vota il 24 dicembre ma non ci crede più nessuno. L’Italia deve guardarsi dal doppio gioco della Francia di Emmanuel Macron.In 24 ore in Italia sono sbarcate 227 persone. Solo la Calabria è stata risparmiata dall'ondata.Lo speciale contiene due articoli.Il destino delle elezioni in Libia è appeso a un filo, mentre le tensioni continuano a sconvolgere il Paese. La commissione elettorale libica ha posticipato, sabato scorso, la pubblicazione della lista definitiva dei candidati presidenziali. Inoltre, l’altro ieri, gruppi armati hanno circondato l’ufficio del premier a Tripoli, come protesta contro la decisione del Consiglio presidenziale di rimuovere il generale Abdel Basset Marwan dall’incarico di comandante del distretto militare della capitale. In tutto questo, si sono anche registrati degli scontri a Sebha. Frattanto i punti interrogativi restano numerosi. La prima incognita riguarda la candidatura del figlio di Muammar Gheddafi, Saif al-Islam. «Per quel che ho conosciuto Saif al-Islam», ha detto alla Verità Alberto Michelini, rappresentante personale in Libia dell’allora premier Silvio Berlusconi tra il 2001 e il 2006, «il secondogenito di Gheddafi potrebbe veramente essere il protagonista delle elezioni in Libia. Giovane, risoluto, laurea in architettura, phd alla London school of economics, l’ho incontrato diverse volte a Roma e in Libia come rappresentante personale del presidente del Consiglio. Saif è l’unico capace di riunire le potenti tribù che sostenevano il regime di suo padre. Quanto a Gheddafi infatti, dopo anni di devastante guerra civile, le varie componenti libiche, nonostante le differenze, guardano con nostalgia al passato regime e al figlio del leader libico come all’uomo della riconciliazione». Del fatto che il figlio del defunto rais abbia chance di vittoria, si è detto convinto anche Thomas Volk, direttore del Regional program political dialogue south Mediterranean presso la Konrad-Adenauer-Stiftung, che alla Verità ha dichiarato: «Molti in Libia sostengono Saif al-Islam: si tratta soprattutto di sostenitori di Gheddafi, ma anche di coloro che sono delusi dagli esiti della rivoluzione, oltre che di giovani libici che lo vedono come loro unico rappresentante, essendo il candidato più giovane». «Sebbene la Libia meridionale sia pesantemente controllata dalle forze del generale Khalifa Haftar, il fatto che gli abbiano dato un accesso sicuro alla commissione elettorale ci dice molto. Una spiegazione di ciò è che la Russia sostiene, o meglio, scommette sia su Saif al Islam che su Haftar», ha aggiunto.E proprio i tortuosi rapporti tra Russia e Turchia incombono sulle elezioni libiche del 24 dicembre. Dopo il reinserimento di Saif e Haftar nella competizione elettorale, Putin si era mostrato favorevole a sostenere il calendario prefissato. Tutto questo, sebbene il suo ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, non abbia escluso un rinvio nelle ultime ore. Un rinvio che sembra invece essere decisamente caldeggiato da Ankara. Non a caso, a favore di una posticipazione si sono detti il Daily Sabah (quotidiano turco considerato vicino a Erdogan) e l’Alto consiglio di stato libico, organo presieduto da Khalid al-Mishri, membro del Partito della giustizia e dello sviluppo, formazione politica legata ai Fratelli musulmani e quindi in buoni rapporti con la Turchia. Quella stessa Turchia che probabilmente guarda comunque con un certo favore alla candidatura dell’attuale premier libico, Abdul Hamid Dbeibeh, il quale - secondo quanto riferito a marzo da Al Jazeera - risulterebbe vicino alla Fratellanza. Intanto ieri un membro della commissione elettorale, Abu Bakr Marada, ha dichiarato che è impossibile tenere le elezioni alla data fissata. Il rinvio si fa quindi sempre più probabile. «Gli ultimi giorni hanno visto l’ulteriore disfacimento del processo politico libico che, a meno di 10 giorni dalla data del 24 dicembre, rende lo svolgimento delle elezioni nella migliore delle ipotesi improbabile», ha detto alla Verità Oliver Crowley, socio fondatore di Libya Desk. «Diverse fazioni libiche, con il supporto dei rispettivi sostenitori esterni, stanno cercando di formare alleanze per prendere il potere in uno scenario in cui le elezioni vengano cancellate del tutto. In tale contesto, anche se un conflitto su larga scala rimane improbabile, potremmo vedere schermaglie a livello locale che destabilizzerebbero ulteriormente il Paese».Un’altra incognita riguarda il ruolo di Parigi, che un tempo spalleggiava il generale della Cirenaica. «Sebbene la Francia si sia schierata con Haftar negli anni del governo di accordo nazionale, le cose potrebbero essere diverse ora per i calcoli francesi. La riapertura dell’ambasciata francese a Tripoli potrebbe essere percepita come un passaggio a un nuovo capitolo», ha sottolineato Volk. «Haftar d’altra parte», ha aggiunto, «è apertamente sostenuto dall’Egitto per ovvie ragioni geopolitiche, ma soprattutto per ragioni ideologiche. Il presidente Sisi trarrebbe sicuramente beneficio da un governo militare della porta accanto». A tal proposito, è bene tuttavia notare che Emmanuel Macron ha consolidato notevolmente i rapporti con Sisi, anche in occasione della conferenza sulla Libia, tenutasi a Parigi il mese scorso. Il rischio di doppiogiochismo da parte della Francia non può quindi essere escluso. «Macron non è Sarkozy», ha notato Michelini, «ma la Francia ha sempre perseguito una politica internazionale pro domo sua. Per cui, nonostante la recuperata credibilità dell’Italia grazie a Draghi, peraltro in ottimi rapporti con il presidente francese, terrei gli occhi ben aperti». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/libia-elezioni-guerra-migranti-2656059006.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-migranti-assediano-le-nostre-coste-le-ong-lavorano-a-pieno-regime" data-post-id="2656059006" data-published-at="1639737297" data-use-pagination="False"> I migranti assediano le nostre coste. Le Ong lavorano a «pieno regime» La tregua concessa dal meteo ha dato nuovo impulso all’assalto delle coste meridionali, con 227 sbarcati in un solo giorno tra Sicilia, Sardegna e Puglia. A Lampedusa in 24 ore sono approdati in 144. In giornata, con tre approdi autonomi, sono sbarcati 57, 17 e 24 tunisini. Si aggiungono ai 46 scesi al molo durante la notte, tra i quali c’erano anche un passeggero con gravi ustioni da combustibile e un disabile, entrambi curati nel Poliambulatorio lampedusano. L’hotspot di Contrada Imbriacola, che era ormai quasi vuoto, ora ospita 164 persone. In Sardegna, invece, gli algerini hanno preso di mira il Sulcis: ieri ne sono sbarcati 65. I primi 14 sono stati intercettati all’alba a bordo di un barchino da una motovedetta del Reparto operativo aeronavale della Guardia di finanza a circa 35 miglia dalle coste dell’Isola. Sono stati trasportati al porto di Sant’Antioco. Un altro barchino con undici passeggeri è approdato in mattinata. Nel corso del pomeriggio, invece, sempre a Sant’Antioco, ne sono sbarcati altri undici. I carabinieri, infine, ne hanno intercettati 19 mentre si allontanavano dalla spiaggia di Porto Pino, nel territorio di Sant'Anna Arresi. Sono finiti tutti nel centro di prima accoglienza di Monastir, in provincia di Cagliari, per la quarantena. La terza rotta scelta dagli scafisti trafficanti di esseri umani è quella del Salento. Ieri le forze dell’ordine hanno rintracciato a Nardò, in provincia di Lecce, 18 stranieri. Erano già approdati con una barca a vela e stavano cercando di far perdere le loro tracce nelle vicinanze del porticciolo di Santa Maria al Bagno. Altri tre, che erano riusciti a fuggire, sono stati rintracciati a poca distanza. Sono scesi con tutta calma, dopo aver calato in mare un piccolo tender, col quale hanno fatto più viaggi per arrivare a riva. Sono tutti turchi, partiti da Smirne. Nel pomeriggio sono stati trasferiti nel centro di accoglienza Don Tonino Bello di Otranto. Ci sono state partenze anche dalla costa libica, dove mercoledì, al confine con la tunisia, si è verificato un naufragio con un morto. I sopravvissuti, recuperati dalla Guardia costiera tunisina, sono 78, quasi tutti provenienti da Egitto e Bangladesh. Ma le ricerche di altri dispersi sono ancora in corso. La Ocean viking, invece, ieri mattina ne ha caricati 114 che si trovavano su un gommone in acque territoriali libiche. La nave della tedesca Sea eye, sempre a largo della Libia, ne ha recuperati 126. Ed è facile prevedere che nelle prossime ore, dopo aver fatto il solito giro per le coste maltesi, punteranno verso l’Italia. La Calabria ieri è stata l’unica meta d’approdo risparmiata dagli scafisti. Lì gli hotspot non sono ancora completamente vuoti, dopo gli assalti di ottobre e novembre. E mentre vanno avanti le inchieste sugli scafisti, è arrivata anche la condanna di un poliziotto dell’ufficio immigrazione della Questura di Crotone (Salvatore Panciotto è stato condannato a 5 anni e 10 mesi di reclusione) e di un funzionario della Prefettura (Gennaro Mazza a 4 anni e 2 mesi) che, secondo l’accusa, avrebbero favorito l’immigrazione clandestina. Entrambi hanno scelto il rito abbreviato nel procedimento denominato Ikaros, che vede coinvolti anche avvocati e pubblici ufficiali e che ha fatto luce su un intreccio di condotte illecite finalizzate a favorire l’ingresso e la permanenza di clandestini nel territorio italiano. Si è scoperto che gli immigrati senza requisiti riuscivano a ottenere la protezione internazionale per poi lasciare l’Italia e raggiungere altri Paesi europei.
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Nel 2025 la pirateria torna a imporsi come una minaccia fluida, che si adatta ad ogni situazione, capace di sfruttare ogni varco lasciato aperto nel fragile equilibrio della sicurezza marittima globale. Due aree, più di altre, raccontano questa nuova stagione di attacchi: il Golfo di Guinea e l’Oceano Indiano. Non si tratta più di fenomeni isolati come mostrano i report di Praesidium, società che si occupa di intelligence marittima, né di improvvise fiammate criminali. È un ecosistema in movimento, che segue logiche precise, approfitta delle lacune statali, cavalca il maltempo o il suo contrario, e ridisegna continuamente la mappa del rischio.
Nel Golfo di Guinea, l’andamento dell’anno ha mostrato un susseguirsi di incursioni che sembrano quasi seguire una traiettoria invisibile. All’inizio la pressione è stata particolarmente intensa nel settore orientale, tra Gabon, Guinea Equatoriale e São Tomé e Príncipe. L’attacco del 31 gennaio al peschereccio Amerger VII ha inaugurato la stagione. Tre membri dell’equipaggio sono finiti nelle mani dei pirati a poche miglia da Owendo, un episodio che ha posto subito il tema dell’audacia dei gruppi criminali e della loro capacità di muoversi vicino alle acque territoriali. Interessante notare che la stessa imbarcazione era già stata attaccata nella stessa area nel 2020.
Pochi giorni dopo, l’abbordaggio della Jsp Vento, nella Zona economica esclusiva (Zee) della Repubblica della Guinea Equatoriale, ha mostrato un altro tratto distintivo della pirateria del 2025: attacchi rapidi e condotti contro navi senza scorta, dove gli equipaggi sono spesso lasciati a loro stessi visti i lunghi tempi di reazione delle autorità locali. In questo caso i pirati hanno abbandonato la nave dopo essere stati avvistati dall’equipaggio. A marzo l’escalation si è fatta più chiara. L’incursione alla petroliera Bitu River, al largo di São Tomé, è durata ore e ha incluso la violazione della cittadella, con i pirati che sono riusciti a prendere in ostaggio diversi membri dell’equipaggio e a fuggire. Il trasferimento degli ostaggi in Nigeria e il loro rilascio settimane dopo suggeriscono canali consolidati, territori di appoggio e una filiera criminale ben riconoscibile.
La traiettoria della minaccia è poi scivolata verso ovest, raggiungendo il Ghana, dove a fine marzo il peschereccio Meng Xin 1 è stato assaltato e tre marittimi sono stati rapiti e trasportati nel Delta del Niger, cuore storico delle milizie locali. In quest’area, simili episodi ai danni di pescherecci sono stati in passato ricondotti a dispute locali o ad azioni di ritorsione. Tuttavia, il fatto che gli assalitori comunicassero in pidgin english nigeriano richiama il modus operandi tipico dei sequestri a scopo di riscatto riconducibili alla pirateria nigeriana, lasciando aperta l’ipotesi di un’evoluzione dell’evento in tale contesto.
Il vero punto di svolta è arrivato il 21 aprile, quando la Sea Panther è stata abbordata a oltre 130 miglia da Brass. L’episodio ha segnato il ritorno ufficiale della pirateria all’interno della Zee nigeriana, un territorio che non registrava attacchi confermati dal 2021. Per gli analisti si è trattato della prova definitiva che la pressione militare degli anni precedenti si è attenuata, lasciando di nuovo spazio a cellule in grado di spingersi in acque profonde. Poche settimane dopo, a fine maggio, l’assalto alla Orange Frost nella zona di sviluppo congiunto tra Nigeria e São Tomé ha completato il quadro, mostrando come i gruppi criminali siano capaci di colpire anche aree formalmente pattugliate da due Stati.
L’estate ha portato una calma apparente, dissoltasi con l’arrivo di nuovi episodi a partire da agosto, quando il tentativo di sequestro della Endo Ponente è stato sventato dalla pronta ritirata nella cittadella da parte dell’equipaggio, che è rimasto all’interno fino all’intervento delle forze navali avvenuto comunque ore dopo l’attacco. Un altro tentato attacco è stato registrato nella regione occidentale del Golfo in ottobre contro la Alfred Temile 10 al largo del Benin. A novembre la minaccia è tornata a concentrarsi a est, dove la Ual Africa è stata presa di mira al confine tra la Zee di São Tomé e Principe e quella della Guinea Equatoriale: l’equipaggio ha resistito chiudendosi in un’area blindata all’interno della nave - un locale protetto, sigillato e dotato di comunicazioni indipendenti - progettata per consentire all’equipaggio di mettersi al sicuro durante un attacco. Non riuscendo a fare breccia nelle difese, i pirati hanno devastato ponte e alloggi prima di ritirarsi.
Se il Golfo di Guinea racconta una pirateria che cambia posizione ma non perde incisività, l’Oceano Indiano nel 2025 ha dato vita a uno scenario ancora più inquietante. La regione somala è tornata teatro di sequestri e attacchi con una frequenza che ricorda i periodi più bui della pirateria del decennio precedente. La stagione è iniziata a febbraio con una serie di dirottamenti per mezzo di dhow yemeniti, piccole imbarcazioni utilizzate dai pirati come piattaforme mobili per proiettarsi molto a largo. Il sequestro dell’Al Najma N.481 ha rivelato un modus operandi ormai consueto: catturare un peschereccio, impossessarsi delle piccole imbarcazioni, rifornirsi a bordo e ripartire verso obiettivi più remunerativi. Anche gli altri casi registrati tra il 15 febbraio e il 16 marzo mostrano lo stesso schema, con dhow impiegati come basi avanzate e poi abbandonati dopo l’intervento delle forze navali internazionali o a seguito del pagamento di riscatti.
Il periodo dei monsoni, tra maggio e settembre, ha rallentato l’attività, ma non l’ha soppressa. Appena il mare è tornato praticabile, gli avvistamenti sospetti sono ripresi con un’intensità che ha sorpreso perfino le missioni navali. Tra ottobre e novembre si è assistito a un ritorno deciso dei gruppi somali in acque profonde, con tentativi di abbordaggio a centinaia di miglia dalla costa, un dettaglio che ricorda i livelli operativi raggiunti nel 2011-2012. Il primo attacco avvenuto nel 2025 contro una nave commerciale è stato registrato il 3 novembre alla petroliera Stolt Sagaland, a oltre 332 miglia nautiche da Mogadiscio: quattro uomini armati hanno aperto il fuoco prima di ritirarsi, segno di una rinnovata audacia. Pochi giorni dopo, la Hellas Aphrodite è stata addirittura abbordata a più di 700 miglia nautiche dalla Somalia, un dato che conferma l’utilizzo di «navi madre» capaci di sostenere missioni lunghe e complesse. Proprio in questo contesto si inserisce il misterioso dhow iraniano Issamamohamadi, sequestrato a fine ottobre e ritrovato abbandonato l’11 novembre: secondo gli investigatori è molto probabile che sia stato utilizzato come base per gli attacchi alla Stolt Sagaland e alla Hellas Aphrodite.
Il mese di novembre ha proposto un crescendo di avvicinamenti sospetti, scafi non identificati che si accostano a mercantili per poi allontanarsi all’improvviso, petroliere che segnalano la presenza di droni in aree dove solo pochi anni fa sarebbe stato impensabile. Le due regioni – Golfo di Guinea e Oceano Indiano – raccontano, seppure con dinamiche diverse, una stessa verità: la pirateria non è affatto un fenomeno residuale. È una minaccia che continua a mutare, sfrutta gli spazi lasciati liberi dalla sicurezza internazionale e approfitta delle fragilità degli Stati costieri. Nel 2025, il mare torna a parlare il linguaggio inquieto delle rotte clandestine, dei sequestri silenziosi e dei gruppi armati che conoscono perfettamente le pieghe della geografia nautica e delle debolezze politiche di intere regioni. Una minaccia che non chiede di essere osservata: semplicemente, ritorna.
«La lotta agli Huthi ha sottratto risorse. Contro i sequestri i mezzi sono limitati»
Stefano Ràkos, è manager del dipartimento di intelligence e responsabile del progetto M.a.r.e. di Praesidium.
In che modo la pirateria nel Golfo di Guinea nel 2025 dimostra una crescente capacità organizzativa rispetto agli anni precedenti?
«La crescente capacità organizzativa emerge soprattutto dall’elevata adattabilità dei pirati al contesto di sicurezza. I gruppi dimostrano di monitorare costantemente l’evoluzione delle misure di protezione, inclusa l’estensione progressiva delle aree coperte da scorte armate o navi militari, e di raccogliere informazioni attraverso canali aperti e circuiti informali. Le aree di attacco vengono quindi selezionate in modo sempre più mirato, privilegiando i settori dove le scorte armate non sono consentite per motivi legali o di scarsa presenza di asset militari. Gli assalti risultano basati su informazioni preventive sui movimenti delle navi e non più su opportunità casuali, indicando un livello di pianificazione e coordinamento superiore rispetto al passato».
Quali fattori hanno consentito ai gruppi criminali dell’Oceano Indiano di tornare a operare a distanze così elevate dalla costa somala, arrivando a colpire navi a oltre 700 miglia?
«A partire dalla fine del 2023, il ritorno delle attività pirata a distanze superiori alle 700 miglia dalla costa somala è stato favorito dallo spostamento dell’attenzione navale internazionale verso il Mar Rosso e il Golfo di Aden a seguito della crisi legata agli Huthi, con una conseguente riduzione della pressione di controllo nell’Oceano Indiano. La fine del monsone ha ripristinato condizioni meteomarine favorevoli alle operazioni offshore. Sul piano operativo, si è registrata una persistente limitata capacità di interdizione effettiva da parte degli assetti navali internazionali. Nel caso del dirottamento della Ruen nel dicembre 2023, così come in un più recente episodio con dinamiche analoghe, le forze presenti si sono limitate ad attività di monitoraggio a distanza, senza procedere a un’azione diretta di interruzione prima del rientro delle unità verso le coste somale. Questo approccio ha di fatto confermato ai gruppi criminali l’esistenza di ampi margini di manovra operativa, rafforzando la percezione di un basso livello di rischio nelle fasi successive al sequestro».
Che ruolo ha giocato la cooperazione regionale degli Stati dell’Africa occidentale nella gestione dei sequestri e nella risposta agli attacchi, e quali limiti emergono da questi interventi?
«Nella pratica, la cooperazione regionale tra gli Stati dell’Africa occidentale ha inciso in modo molto limitato sulla gestione dei sequestri e sulla risposta agli attacchi. I principali quadri di riferimento, tra cui Ecowas e l’Architettura di Yaoundé con i relativi centri di coordinamento regionali, hanno prodotto soprattutto meccanismi formali di cooperazione e scambio informativo. Tuttavia, tali strutture non si sono tradotte in una capacità operativa realmente integrata. Le risposte restano nazionali, frammentate e spesso tardive, con forti disomogeneità tra le marine locali».
In che misura l’utilizzo di dhow come «navi madre» rappresenta un salto qualitativo nelle operazioni dei pirati somali, e quali rischi introduce per le rotte commerciali globali?
«L’impiego dei dhow come navi madre non rappresenta una tattica nuova, ma una strategia già utilizzata dai pirati somali in passato e oggi tornata pienamente operativa. Questo schema consente di superare i limiti degli skiff, che per autonomia di carburante e condizioni del mare non possono spingersi troppo lontano dalla costa. L’uso di un’imbarcazione più grande permette invece di operare a grande distanza, trasportando uomini, carburante e mezzi d’assalto in aree di mare molto più estese. Una volta avvicinato il bersaglio, vengono poi impiegati gli skiff, più rapidi e adatti alla fase di abbordaggio. Ne deriva un ampliamento diretto dell’area di rischio e una maggiore esposizione delle rotte commerciali globali, anche in settori che in passato erano considerati marginali rispetto alla minaccia pirata. Negli anni d’oro della pirateria somala il loro raggio operativo raggiungeva addirittura le Maldive».
Quali segnali osservabili indicano che nel 2025 la pirateria non è un fenomeno residuale ma un ecosistema in evoluzione che sfrutta lacune statali e vuoti di sicurezza internazionale?
«Nel contesto dell’Oceano Indiano, l’assenza di un controllo statale effettivo su ampie porzioni del territorio somalo continua a costituire un fattore strutturale di instabilità, che facilita la riorganizzazione delle reti criminali. Le missioni navali internazionali, tra cui le componenti europee e le task force multinazionali, non esercitano più il livello di deterrenza raggiunto negli anni precedenti. La Marina indiana mantiene una presenza attiva nella regione, ma gli interventi risultano spesso legati alla presenza di cittadini indiani a bordo delle unità coinvolte. Nel Golfo di Guinea, il quadro appare ancora più critico. I gruppi criminali nigeriani operano con crescente frequenza al di fuori della zona economica esclusiva della Nigeria, spesso in aree dove l’impiego di scorte armate non è consentito. I tempi di risposta delle marine locali risultano generalmente elevati e frammentati, in assenza di un dispositivo internazionale strutturato analogo a quello attivo in Oceano Indiano».
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(Ansa/Arma dei Carabinieri)
Si tratta in particolare di truffatori che ricorrevano al trucco del «finto carabiniere» per sottrarre denaro soprattutto a persone anziane. Tra gli indagati, uno era già detenuto per altra causa; sei sono stati portati in carcere, nove agli arresti domiciliari e cinque sottoposti all’obbligo di dimora.
Il provvedimento nasce da un’indagine convenzionalmente denominata «Altro Mondo», condotta dal Nucleo investigativo di Milano e avviata a partire dal 2023, come risposta alla recrudescenza di furti, rapine e truffe commessi prevalentemente in danno di soggetti vulnerabili, mediante la tecnica del «finto carabiniere».
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Luis «Toto» Caputo (Getty Images)
Caputo, classe 1965, cresciuto al Collegio Cardenal Newman e laureato in Economia all’Università di Buenos Aires, è il fulcro del sistema Milei. Dopo una lunga carriera tra Jp Morgan e Deutsche Bank, dov’è stato uno dei trader di riferimento per l’America Latina, entra in politica con Mauricio Macri nel 2015 come segretario e poi ministro delle Finanze, gestendo il rientro dell’Argentina nei mercati con il compromesso sui fondi avvoltoio e il celebre bond centenario (un’obbligazione da 45 miliardi di dollari con scadenza a 100 anni e cedola del 7,125%). Nell’esperienza di governo con Macri, il debito privato argentino è salito dal 16% al 38% del Pil.
Con Milei, torna al centro della scena come ministro dell’Economia dal dicembre 2023. Subito attua tagli feroci a sussidi e spesa, operazioni che riportano l’Argentina al surplus fiscale dopo anni di disavanzi.
Accanto a lui, nel ruolo di vice, c’è José Luis Daza, nato a Buenos Aires da diplomatici cileni ma formato tra Cile, Stati Uniti e i grandi desk di Wall Street. Economista dell’Universidad de Chile, con un dottorato all’Università di Georgetown, rappresentante del Banco Central de Chile a Tokyo, poi capo ricerca mercati emergenti a Jp Morgan e Deutsche Bank. Daza ha fondato l’hedge fund Qfr Capital ed è stato consigliere del candidato conservatore cileno José Antonio Kast. Dal 2024 è segretario alla politica economica e viceministro di Caputo, con il compito chiave di tenere i rapporti con il Fondo monetario internazionale e con gli investitori di tutto il mondo.
Pablo Quirno è invece il ponte tra l’universo finanziario e la diplomazia. Discendente di una storica famiglia conservatrice argentina, studia Economia alla University of Pennsylvania (Wharton) e costruisce una carriera in Jp Morgan come direttore per l’America Latina e membro del comitato di gestione regionale, seguendo privatizzazioni e ristrutturazioni di debito in mezzo mondo. Nel 2016 entra nel governo Macri come coordinatore della segreteria delle Finanze e capo di gabinetto di Caputo, passando anche dal board della Banca centrale argentina. Con Milei è prima segretario alle Finanze, poi (dopo le dimissioni di Gerardo Werthein) promosso ministro degli Esteri nell’ottobre 2025, simbolo dell’allineamento sempre più netto con gli Stati Uniti.
Infine, Santiago Bausili, 1974, anche lui formatosi al Collegio Cardenal Newman e poi all’Università di San Andrés. Per oltre undici anni in Jp Morgan e quasi nove in Deutsche Bank, si specializza in debito sovrano latinoamericano e derivati, spesso in tandem con Caputo. Nel 2016 passa al settore pubblico come sottosegretario e poi segretario alle Finanze nel governo Macri. Nel dicembre 2023 Milei lo nomina presidente della Banca centrale, dietro raccomandazione di Caputo.
La strategia del team Caputo è quella della disciplina fiscale a tutti i costi. L’obiettivo immediato è stato frenare l’inflazione, crollata da oltre il 200% all’inizio del mandato a circa il 30%. Ma il prezzo è la macelleria sociale. Pensioni, salari pubblici e prestazioni sociali non sono state adeguate all’inflazione e la disoccupazione è aumentata.
L’altro elemento critico della strategia di Caputo è la gestione della valuta argentina. Nonostante Milei avesse un tempo definito il peso «escremento», la sua amministrazione ha adottato una politica di sostegno alla valuta, mantenendo tassi di interesse elevati e controlli stretti su cambi e capitali. Questa formula, già tentata dai predecessori senza successo, ha lo scopo di stabilizzare l’inflazione in un mercato dei cambi volatile e ristretto.
Questa politica monetaria rigida ha avuto un impatto tossico sul sistema bancario. I tassi di interesse elevati hanno spinto il tasso di morosità sui prestiti ai massimi da almeno 15 anni, costringendo le banche a ridurre drasticamente l’erogazione di credito.
Il grande rischio per Caputo e la sua squadra di ex- trader è che l’accumulo di riserve in valuta forte si sta rivelando troppo impegnativo (secondo il Fmi), nonostante gli sforzi. La sopravvivenza politica di Milei, e l’efficacia dell’esperimento di Caputo, dipendono dalla capacità di tradurre l’austerità e il sostegno finanziario di Washington in prosperità per la maggioranza. Finora, l’esperimento è basato su un precario equilibrio tra disciplina finanziaria draconiana e un sostegno esterno senza precedenti, una miscela esplosiva che sta mettendo a dura prova il tessuto sociale argentino.
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Javier Milei (Ansa)
Milei, l’economista libertario dalla chioma selvatica, ha ottenuto una vittoria sorprendente nelle elezioni di medio termine a fine ottobre, un risultato che gli ha conferito un mandato inequivocabile per il suo programma di terapia shock. Il suo partito, La Libertad Avanza (Lla), ha conquistato circa il 41% dei voti a livello nazionale, doppiando la sua rappresentanza al Congresso, contro il 32% del fronte peronista. Questo risultato ha trasformato il suo gruppo nel più numeroso della Camera bassa, garantendogli la minoranza necessaria per preservare il potere di veto e difendere i suoi decreti presidenziali.
Il trionfo del partito di Milei è stato un inatteso ribaltamento del paesaggio politico. Il dato più sorprendente è che le periferie povere di Buenos Aires, da sempre la roccaforte del movimento peronista, hanno compiuto una svolta storica a sfavore del partito erede del peronismo storico, Fuerza Patria di Cristina Kirchner. I peronisti hanno governato l’Argentina per vent’anni dal 2003, salvo la pausa di quattro anni di Mauricio Macri tra il 2015 e il 2019.
Mentre gli elettori della classe media si sono mobilitati per sostenere la motosega di Milei, la chiave della sconfitta peronista è stata l’astensione o il voto contrario degli elettori più poveri, stanchi di un’instabilità economica permanente cui le fiacche politiche dei passati presidenti li condannavano. Il mandato presidenziale di Alberto Fernández, considerato quasi all’unanimità come il peggior presidente della giovane democrazia argentina, ha significato la fine della pazienza in gran parte dell’elettorato.
Il pilastro della rivoluzione di Milei è l’austerità feroce e senza compromessi. Fin dall’inizio del suo mandato, il presidente ha avviato riforme drastiche, riuscendo a trasformare un deficit fiscale primario in un surplus. Ha tagliato l’occupazione pubblica di oltre il 10%, ha tolto protezioni sociali e rendite diffuse.
Il risultato di questa cura drastica è stato l’abbattimento dell’iperinflazione, che è crollata da oltre il 200% all’inizio del suo mandato a circa il 30% al momento delle elezioni. I mercati internazionali hanno premiato questa determinazione, con il calo del rischio sovrano e un rally nei titoli e nelle obbligazioni subito dopo il voto. Tuttavia, la terapia shock ha avuto un costo sociale elevato, con Milei stesso che ha ammesso che l’austerità aveva portato alla chiusura di fabbriche e all’aumento della disoccupazione.
La scalata di Milei non sarebbe stata possibile senza l’intervento diretto degli Stati Uniti. Il presidente Donald Trump ha scommesso pesantemente sul successo del presidente, offrendo un salvataggio finanziario senza precedenti: un accordo di swap di valuta da 20 miliardi di dollari e la promessa di raccogliere altri 20 miliardi di dollari da banche private e fondi sovrani. Questo sostegno finanziario è stato esplicitamente condizionato al successo di Milei nelle elezioni di medio termine, confermando che l’Argentina è ora un alleato ideologico chiave di Washington, fondamentale per contrastare l’influenza cinese in America Latina.
La squadra economica di Milei, soprannominata i «ragazzi di Jp Morgan» per la forte presenza di ex trader di Wall Street come il ministro dell’Economia Luis Caputo, è ora impegnata in un atto di equilibrismo, cercando di stabilizzare il traballante peso e ricondurre l’Argentina sui mercati internazionali.
Milei sta capitalizzando il suo mandato non solo per aggiustare i conti, ma per smantellare lo Stato in senso profondo. Ha introdotto il regime di incentivi per i grandi investimenti (Rigi), che garantisce 30 anni di stabilità fiscale, disponibilità di valuta estera e protezioni legali agli investitori stranieri per progetti superiori a 200 milioni di dollari. Questa mossa è strategica per trasformare l’Argentina in una potenza mineraria, sfruttando le sue immense riserve inesplorate di rame e litio.
L’Argentina, che condivide la stessa catena montuosa del Cile, esportatore per 20 miliardi di dollari di rame all’anno, non esporta un solo grammo di questo metallo critico. L’obiettivo di Milei è attrarre circa 26 miliardi di dollari in investimenti per i progetti di rame, promettendo che l’Argentina «avrà dollari a sufficienza». L’Argentina, inoltre, detiene riserve significative nel Triangolo del litio ed è il quarto esportatore mondiale di questo minerale.
A riprova della sua visione radicale, l’amministrazione Milei sta rimodellando la struttura dello Stato, avvicinandola al modello di sicurezza nordamericano. La Direzione nazionale delle migrazioni è stata trasferita dal ministero dell’Interno a quello della Sicurezza. Poi, per la prima volta dal ritorno alla democrazia nel 1983, Milei ha nominato un generale, Carlos Presti, a capo del ministero della Difesa, con l’intento dichiarato di «porre fine alla demonizzazione dei nostri ufficiali, sottufficiali e soldati». Infine, il presidente sta spingendo per la privatizzazione e la modernizzazione dell’obsoleta rete ferroviaria per potenziare le esportazioni di cereali, rame e litio, aumentando le esportazioni di 100 miliardi di dollari in sette anni.
Nonostante il chiaro allineamento con Washington, Milei è costretto a un difficile pragmatismo verso Pechino, principale cliente per la soia argentina. Nonostante avesse liquidato la Cina come partner «comunista» in campagna elettorale, Milei ha dovuto riconoscerla come un «partner commerciale molto interessante» dopo la conferma di uno swap valutario multimiliardario da parte di Pechino.
Il destino politico di Milei dipende dalla sua capacità di tradurre le riforme orientate al mercato in prosperità tangibile per la maggioranza, specialmente in un momento in cui gli argentini sono preoccupati per la perdita di posti di lavoro e il calo del reddito. Le politiche deflazioniste attuate per compiacere i mercati e frenare l’inflazione hanno un costo sociale alto, quello della disoccupazione e del calo dei consumi. Milei deve quindi trovare sempre nuovi obiettivi e nuovi capri espiatori per evitare che la questione sociale esploda e faccia dell’Argentina una polveriera.
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